201505.12
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Cass., sez. V pen., 12 maggio 2015, n. 19548 (testo)

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 9 gennaio – 12 maggio 2015, n. 19548
Presidente Dubolino – Relatore Miccoli

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano in data 9 ottobre 2013 ha confermato la pronunzia di primo grado del Tribunale di Pavia con la quale N.M. era stato condannato per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, commesso in qualità di legale rappresentante della MEPI s.r.l., dichiarata fallita in data 14 giugno 2006. 2. Ha proposto ricorso l’imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore, deducendo due motivi.
2.1. Con il primo motivo è stato dedotto il vizio di motivazione in relazione alla valutazione del nesso di causalità. La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto che la bancarotta è un reato di evento e che non v’è prova che i fatti di distrazione ascritti abbiano causato lo stato di insolvenza da cui è conseguito lo stato di insolvenza.
2.2. Con il secondo motivo è stato dedotto il vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo del dolo.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato e, di conseguenza, non è meritevole di accoglimento. 1. Errata è la tesi sostenuta dal ricorrente con il primo motivo.
La giurisprudenza di questa Corte si è da tempo orientata nell’affermare che nel reato di bancarotta fraudolenta «i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, sicché né la previsione dell’insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell’atto dispositivo, né la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento dell’atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell’antigiuridicità penale della condotta». Si è rilevato che «quando il legislatore ha ritenuto necessaria l’esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell’ambito della legge fallimentare, all’art. 223, distinguendo le condotte previste dall’art. 216 (legge fall., art. 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società (legge fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose è previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento» (Sez. 5, n. 39546 del 15/07/2008, Bonaldo).
Ancor più analiticamente, gli stessi principi risultano ribaditi quando si è rilevato che «il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo, ed è pertanto irrilevante che al momento della consumazione l’agente non avesse consapevolezza dello stato d’insolvenza dell’impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato». Si è segnalato che «il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non richiede il dolo specifico, ma si perfeziona con il dolo generico, ossia con la consapevolezza di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte», precisandosi che non può intendersi rilevante la circostanza che all’epoca della distrazione non si fosse ancora manifestato uno stato d’insolvenza: «infatti, ad integrare il reato non è richiesta la conoscenza dello stato d’insolvenza dell’impresa, in quanto ogni atto distrattivo viene ad assumere rilevanza ai sensi della legge fall., art. 216, in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo. Qualora, poi, la deduzione debba intendersi rapportata alla asserita insussistenza dei dissesto all’epoca dei fatti, così implicitamente evocandosi la teoria cd. della “zona di rischio penale” […], ugualmente deve essere disattesa in quanto, per la speciale configurazione dei precetto, la protezione penale degli interessi creditori è assicurata mediante la sua connotazione di reato di pericolo. L’offesa penalmente rilevante è conseguente anche all’esposizione dell’interesse protetto alla probabilità di lesione, onde la penale responsabilità sussiste non soltanto in presenza di un danno attuale ai creditori, ma anche nella situazione di messa in pericolo dei loro interessi. Conseguentemente, il delitto di bancarotta non impone contestualità tra l’azione antidoverosa ed il pregiudizio derivante dalla stessa, ma ammette anche uno sfasamento temporale, se esso non elide il portato dannoso dell’azione: sicché la tutela penale dispiega la sua efficacia retroattivamente, risalendo a ritroso, a far data dalla dichiarazione di fallimento, ricapitolando ogni passaggio della gestione dell’impresa fallita nel pregiudizio che viene accertato al momento della dichiarazione di insolvenza con la verifica delle passività gravanti sulla stessa» (Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv 251214). L’orientamento ora illustrato risulta contraddetto da altra pronuncia di questa stessa Sezione, richiamata anche nel ricorso in esame, secondo cui «nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente e deve essere, altresì, sorretto all’elemento soggettivo del dolo» (Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv 253493).
L’impianto motivazionale di questa sentenza muove dal presupposto che «non può da un lato ritenersi che qualsiasi atto distrattivo sia di per sé reato, dall’altro che la punibilità sia condizionata ad un evento» (la dichiarazione di fallimento, di cui viene diffusamente discussa la natura all’interno della struttura della fattispecie incriminatrice), «che può sfuggire totalmente al controllo dell’agente, e dunque ritorcersi a suo danno senza una compartecipazione di natura soggettiva e, ancor peggio, senza che sia necessaria una qualche forma di collegamento eziologico tra la condotta e il verificarsi del dissesto»; l’analisi viene peraltro parametrata sulle peculiarità del caso allora sub judice, dove – a differenza delle varie fattispecie concrete di cui alla precedente giurisprudenza, nelle quali «si trattava di episodi distrattivi compiuti nel periodo immediatamente antecedente alla dichiarazione di fallimento, che avevano impoverito l’impresa al punto da provocarne od aggravarne in modo irreversibile la crisi» – a quegli imputati era riferibile una amministrazione «priva di contiguità con il fallimento, essendo stata seguita da altre gestioni totalmente estranee», con tanto di amministrazione giudiziale ex art. 2409 cod. civ. medio tempore conclusasi «senza alcun rilievo dell’amministratore su eventuali situazioni di insolvenza ed addirittura con una vendita della società a terzi dietro corrispettivo».
Nella sentenza si evidenzia quindi che se il fallimento è «il risultato di un’azione dell’imprenditore, da cui la legge (o, meglio, la giurisprudenza conforme) fa dipendere l’esistenza stessa del delitto», lo stesso fallimento, «o meglio il suo presupposto di fatto, cioè lo stato di insolvenza, deve essere dall’agente preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale. Il soggetto, cioè, deve prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo porterà verosimilmente al dissesto (il cui risvolto è la lesione del diritto di credito, che costituisce l’interesse principale protetto dalla norma penale) ed accettare tale rischio. Ogni diversa soluzione in punto dolo costituisce una violazione dei principi generali di cui agli artt. 42 e 43 cod. pen., che costituiscono l’ossatura della responsabilità penale personale del nostro ordinamento».
Ne deriverebbe l’opzione interpretativa secondo cui la bancarotta è un reato di evento e tale evento consiste nella insolvenza della società, che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella dichiarazione di fallimento. Questa è la unica ricostruzione strutturale del reato coerente con le premesse; il fallimento è elemento costitutivo dell’illecito in qualità di evento e si pone quale conseguenza (esclusiva o concorrente) della condotta distrattiva dell’imprenditore.
Con la richiamata pronuncia si avverte peraltro che «la tesi “secca” della non necessarietà del rapporto di causalità tra la condotta dell’imprenditore e il fallimento (che si accompagna alla ritenuta non necessarietà dei dolo a copertura dell’insolvenza), porterebbe a conseguenze assurde; da un lato non sarebbe punibile l’imprenditore che drena risorse enormi da una società dotata di un patrimonio attivo considerevole, tale da permetterle di sfuggire al fallimento, dall’altra sarebbe invece punito con la pesante sanzione di cui alla legge fall., art. 216, un imprenditore o un amministratore della società che moltissimi anni prima dei fallimento abbia prelevato indebitamente una modestissima somma di denaro (anche se l’impresa ha poi operato in attivo e pagato regolarmente i propri creditori e sia poi caduta in dissesto esclusivamente per le condotte spoliative di successivi amministratori) […]. Sarebbe esente da responsabilità quell’imprenditore che, pur avendo causato il dissesto della sua impresa con gravi atti di spoliazione, riuscisse ad ottenere il consenso dei creditori ad una procedura di soluzione negoziale della crisi (salvo il concordato, per l’imprenditore collettivo), mentre sarebbe penalmente sanzionato l’imprenditore che compie un atto di distrazione di modesta entità e molto risalente nel tempo, se non incontra il favore dei creditori. E ciò anche se il dissesto dell’impresa dipende esclusivamente da fattori esterni alla sua condotta, e cioè, per esempio, da una congiuntura economica negativa o da circostanze comunque imprevedibili o ancor più da condotte successive di altre persone».
La giurisprudenza di questa Sezione, successiva alla citata sentenza n. 47502 del 24/09/2012, ha aderito all’orientamento precedente, ritenendo che «ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento» (Sez. 5, n. 7545 del 25/10/2012, Lanciotti, Rv 254634; v. anche Sez. 5, n. 27993 del 12/02/2013, Di Grandi).
In una quasi coeva decisione, identicamente massimata (Rv 254061) questa Sezione ha precisato che «anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, ad integrare il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non si richiede l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento […]. Al riguardo vale la pena di rimarcare che il rapporto eziologico fra la condotta vietata e il dissesto della società è richiesto dalla legge fall., art. 223, comma 2, n. 1, nel testo novellato, con esclusivo riferimento alle ipotesi di bancarotta “da reato societario”, il cui elemento oggettivo – nel modello descrittivo recato dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 cod. civ., richiamati dalla norma incriminatrice – è del tutto diverso da quello che caratterizza le condotte vietate dall’art. 216 della stessa legge, richiamato invece dal citato art. 223, comma 1» (Sez. 5, n. 232 del 09/10/2012, Sistro).
Questo collegio ritiene di condividere e ribadire la consolidata e “tradizionale” giurisprudenza, anche in ragione delle indicazioni delle Sezioni Unite di questa Corte che, nell’analisi dei reato di bancarotta, hanno avallato «l’abbandono definitivo della concezione del fallimento come evento» (Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy).
Uno degli elementi fondamentali, per orientare la decisione nel senso indicato, si rinviene in effetti nelle già ricordate divergenze strutturali tra la fattispecie disegnata dall’art. 216, legge fall., e quella risultante dalle varie ipotesi previste dal successivo art. 223, comma secondo: solo in queste ultime, infatti, il legislatore ha inteso conferire immediato rilievo a condotte che cagionino il fallimento, ovvero cagionino o concorrano a cagionare il dissesto della società. Non sembra pertanto che i pur pregevoli sforzi argomentativi contenuti nella sentenza Corvetta riescano a superare il dato letterale: laddove il legislatore ha inteso individuare la necessità di un nesso causale, prima ancora di una riferibilità psicologica, fra il comportamento del soggetto attivo del reato ed il successivo dissesto, od il fallimento che ne sia derivato, ciò è espressamente prescritto. Né pare possibile interpretare l’art. 223, comma secondo, legge fall., come una sorta di norma di chiusura, con funzioni interpretative dell’intero sistema sanzionatorio: da un lato, si tratta di una previsione recentemente modificata (nel 2002), e se si fosse avvertita l’esigenza di uniformare le varie previsioni incriminatrici in tema di bancarotta (volendo intendere, come si sostiene nella richiamata sentenza, che «i fatti di bancarotta di tipo patrimoniale in tanto rilevano in quanto abbiano in qualche modo rilevanza nella produzione del dissesto») il legislatore ben avrebbe potuto porre mano anche al precedente art. 216; dall’altro, se è vero che la lettura delle plurime ipotesi di rilievo penale di cui alla legge fallimentare rende palesi alcuni difetti di coordinamento, è ancor più evidente che non vi sarebbe necessità di reprimere la condotta di chi abbia “cagionato con dolo il fallimento della società” (art. 223, comma secondo, n. 2) se già il primo comma dell’art. 223 venisse a sanzionare per le società commerciali condotte di distrazione ex art. 216, di cui possa affermarsi la rilevanza penale soltanto qualora siano fattore causale del fallimento medesimo.
Deve perciò ritenersi che, tornando ad esaminare il precetto normativo, la condotta sanzionata dall’art. 216 legge fall. – e, per le società, dall’art. 223, comma 1 – non sia quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento, bensì – assai prima – quella di depauperamento dell’impresa, consistente nell’averne destinato le risorse ad impieghi estranei all’attività dell’impresa medesima. La rappresentazione e la volontà dell’agente debbono perciò inerire alla deminutio patrimonü (semmai, occorre la consapevolezza che quell’impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili con il fisiologico esercizio dell’attività imprenditoriale): tanto basta per giungere all’affermazione dei rilievo penale della condotta, per sanzionare la quale è sì necessario il successivo fallimento, ma non già che questo sia oggetto di rappresentazione e volontà – sia pure in termini di semplice accettazione del rischio di una sua verificazione – da parte dell’autore.
Come efficacemente segnalato in una sentenza di questa Corte, «ogni atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell’art. 216 legge fall. In caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo, il quale non costituisce l’evento del reato che, invece, coincide con la lesione dell’interesse patrimoniale della massa, posto che se la conoscenza dello stato di decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori ciò non significa che essa non possa ricavarsi da diversi fattori, quali la natura fittizia o l’entità dell’operazione che incide negativamente sul patrimonio della società» (Sez. 5, n. 16579 del 24/03/2010, Fiume, Rv 246879).
E’ del resto innegabile che ci si trovi dinanzi ad una fattispecie disegnata come reato di pericolo; fattispecie in relazione alla quale il giudice delle leggi ebbe da tempo a rilevare che «il legislatore avrebbe potuto considerare la dichiarazione di fallimento come semplice condizione di procedibilità o di punibilità, ma ha invece voluto […] richiedere l’emissione della sentenza per l’esistenza stessa del reato. E ciò perché, intervenendo la sentenza dichiarativa di fallimento, la messa in pericolo di lesione al bene protetto si presenta come effettiva e reale» (Corte Cost., sentenza n. 146 del 27/06/1982).
La bancarotta fraudolenta patrimoniale è dunque, più propriamente, reato di pericolo concreto, dove la concretezza del pericolo assume una sua dimensione effettiva soltanto nel momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento, condizione peraltro neppure indispensabile per l’esercizio dell’azione penale o per l’adozione di provvedimenti de Iibertate, ai sensi dei combinato disposto degli artt. 7 e 238 legge fall. Ed è per questo che rimane esente da pena il soggetto che impoverisca una società di risorse enormi, quando questa può comunque continuare a disporne di ben più rilevanti, idonee a fornire garanzia per le possibili pretese creditorie: perché in quel caso, a differenza dell’ipotesi dell’imprenditore che si renda responsabile di una distrazione modesta (ma a fronte di un patrimonio suscettibile di risentirne significativamente), il pericolo di un pregiudizio per i creditori non avrà assunto la concretezza richiesta dal dato normativo.
Anche le indicazioni della giurisprudenza di legittimità in tema di c.d. “bancarotta riparata” avvalorano la conclusione appena illustrata; vero è che in quegli interventi si è ritenuto che «non integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il finanziamento concesso al socio e da questi restituito in epoca anteriore al fallimento, in quanto la distrazione costitutiva del delitto di bancarotta si ha solo quando la diminuzione della consistenza patrimoniale comporti uno squilibrio tra attività e passività, capace di porre concretamente in pericolo l’interesse protetto e cioè le ragioni della massa dei creditori», ma si è al contempo precisato che il momento cui fare riferimento per verificare la consumazione dell’offesa è pur sempre «quello della dichiarazione giudiziale di fallimento e non già quello in cui sia stato commesso l’atto, in ipotesi, antidoveroso» > (Sez. 5, n. 39043 del 21/09/2007, Spitoni, Rv 238212; si veda anche Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011, Cannavale).
In sostanza, l’imprenditore deve considerarsi sempre tenuto ad evitare l’assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che abbiano in sé margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell’impresa.
Può quindi conclusivamente affermarsi che il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non richiede, come sostenuto dal ricorrente in questa sede, l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il dissesto dell’impresa, in quanto, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, detti fatti assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l’impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza (ex muitis e tra le più recenti, Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683; Sez. 5, n. 27993 del 12 febbraio 2013, Di Grandi e altri, Rv. 255567).
2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso, con il quale è stato dedotto il vizio di motivazione sull’elemento soggettivo.
Emerge dalla sentenza impugnata che il ricorrente aveva rappresentato genericamente nell’atto di appello il “difetto di prova sull’elemento soggettivo del reato, che potrebbe al più identificarsi nella colpa per aver lasciato incustoditi alcuni beni presso i cantieri e per non aver annotato diligentemente nelle scritture contabili i crediti incassati”. Su tali specifici rilievi la Corte territoriale ha motivato, escludendo la configurabilità della mera colpa in relazione alle condotte distrattive ascritte.
Peraltro, nel ricorso in esame erroneamente si sostiene che in caso di bancarotta per distrazione debba essere accertata “la consapevolezza, in capo all’imputato, dell’effetto dei depauperamento del patrimonio sociale a danno della compagine dei creditori”. Come si è già detto nel paragrafo che precede, l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è affatto necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio aim creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (ex muitis, Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261348; Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Bergamaschi, Rv. 260407).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.