201504.19
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Cass., sez. III pen., 19 aprile 2015, n. 16102 (testo)

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 marzo – 17 aprile 2015, n. 16102
Presidente Squassoni – Relatore Pezzella

Ritenuto in fatto

1. La Corte di Appello di Venezia, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente R.M. , su appello del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Belluno, con sentenza del 15.5.2014, in riforma della sentenza del Tribunale di Belluno, emessa in data 15.10.2013, dichiarava l’imputato responsabile del reato a lui ascritto e, concessegli le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi 3 di reclusione ed Euro 300,00 di multa, con pena sospesa, oltre al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
Il Tribunale di Belluno aveva assolto, perché il fatto non costituisce reato, R.M. dall’imputazione del reato previsto dagli artt. 81 cpv. cod. pen. e 2 D.L. 12.9.83 N. 463 conv. in L. 11.11.83 N. 638 per avere, con più omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in qualità di legale rappresentante della ditta RIZZOTTO SERVICES di R.M. corrente in (omissis) , omesso di versare le ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti per il periodo giugno e dicembre 2008 nonché gennaio, febbraio, marzo, giugno e luglio 2009 per complessivi Euro 18.852,00, in Belluno il 03/09/2010.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, R.M. , deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.:
a. Inosservanza e/o erronea applicazione della legge – art. 606, lett. b) cod. proc. pen..
Il ricorrente, dopo un’ampia ricostruzione dei fatti per cui è processo, deduce una violazione di legge o un’erronea applicazione nella sentenza di appello in quanto il ricorrente sarebbe fallito personalmente e, pertanto, non avrebbe potuto pagare con le proprie risorse personali.
Il fallimento sarebbe stato dichiarato il 18 agosto 2010, anche se poi la relativa sentenza sarebbe stata depositata il 28 settembre 2010, mentre la diffida dell’INPS sarebbe partita il 28 agosto 2010 e sarebbe pervenuta il 3 settembre 2010, anche se non ritirata dall’imputato.
Il ricorrente, in quanto fallito, se anche avesse avuto qualche liquidità, non avrebbe potuto disporne, ma avrebbe dovuto consegnare tutto al curatore fallimentare.
La sentenza impugnata avrebbe, a sostegno della propria motivazione, erroneamente richiamato una sentenza di questa Corte, secondo cui il legale rappresentante di una società fallita per beneficiare della causa di non punibilità, deve dimostrare di aver sollecitato il curatore al versamento delle ritenute. Nel caso di specie, però il ricorrente sarebbe fallito personalmente, a differenza del legale rappresentante di società fallita.
In ogni caso il fallito non avrebbe potuto chiedere al curatore il pagamento, anche perché quest’ultimo è tenuto a rispettare la par condicio creditorum.
Avrebbe, pertanto dovuto applicarsi la causa di non punibilità, tenendo presente che il R. era già fallito alla data del 18.8.2010 e in ogni caso la sentenza di fallimento sarebbe stata pubblicata il 28.9.2010, prima della scadenza del termine assegnato in diffida.
b. Inosservanza e/o erronea applicazione della legge – art. 606, lett. b) cod. proc. pen. e difetto di motivazione art. 606, lett. e) cod. proc. pen..
Dalla documentazione esibita in giudizio, risulterebbe non esservi stata alcuna domanda di insinuazione al passivo fallimentare da parte dell’Inps. Tale circostanza, anche se non lo dimostrerebbe, indurrebbe a ritenere che non vi fosse alcun credito dell’Inps per omesso versamento.
Pertanto anche a voler ritenere fondata la tesi del sollecito al curatore per ottenere la non punibilità, sarebbe stato impossibile per l’organo fallimentare intervenire in mancanza di una domanda di insinuazione al passivo. Sul punto la sentenza impugnata avrebbe omesso qualsiasi motivazione.
c. Inosservanza e/o erronea applicazione della legge – art. 606, lett. b) cod. proc. pen. e difetto di motivazione art. 606, lett. e) cod. proc. pen..
Il ricorrente deduce la carenza di prova dell’avvenuto pagamento delle retribuzioni e lamenta un difetto di motivazione sul punto.
d. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione – art. 606, lett. e) cod. proc. pen..
Nella fase iniziale del procedimento penale, sarebbe stata richiesta l’emissione di un decreto di penale indicando la pena finale di Euro 1.080.
Tale richiesta sarebbe stata respinta dal GIP solo per il mancato calcolo della continuazione. Nella sentenza impugnata, a fronte della richiesta, articolata dalla difesa in subordine, del minimo della pena con le attenuanti e la conversione in pena pecuniaria, avrebbe ritenuto di non concedere la conversione sul presupposto che l’imputato avrebbe assunto di non essere in grado di adempiere.
Tale affermazione non è mai stata resa né dall’imputato, né dal difensore; inoltre apparirebbe logico che l’impossibilità di pagare Euro 18.852,00, nell’immediatezza del fallimento, non comporterebbe l’impossibilità di versare, anche ratealmente una sanzione senz’altro molto minore.
Sarebbe, poi, ingiusto, anche solo sotto il profilo morale, scaricare sull’imputato le conseguenze di un errore di calcolo fatto al momento della richiesta del decreto penale di condanna.
Chiede, pertanto, dichiarato ammissibile il ricorso, l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato esclusivamente per la parte in cui ci si duole della motivazione sull’inapplicabilità della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, mentre è infondato e va pertanto rigettato per il resto.
2. Ritiene il Collegio di dover disattendere il motivo di ricorso sub a. in quanto la Corte territoriale ha correttamente motivato in ordine ai rapporti tra successivo stato di insolvenza dell’imputato e sussistenza del reato facendo buon governo del principio affermato da questa Corte regolatrice – che va qui ribadito – secondo cui in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, lo stato d’insolvenza non libera il sostituto d’imposta dai doveri verso l’Erario in relazione alle retribuzioni corrisposte ai dipendenti, in quanto, per la contemporaneità dell’obbligo retributivo e di quello contributivo, il medesimo è tenuto a ripartire le risorse esistenti all’atto dell’erogazione degli emolumenti in modo da poter assolvere al debito para-fiscale, anche se ciò comporti l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare (così questa sez. 3, n. 19574 del 21.11.2013 dep. il 13.5.2014, Assirelli, rv. 259741, nella cui motivazione si è precisato che, ai fini della condizione di punibilità di cui al comma primo bis dell’ari:. 2 della L. 638 del 1983, l’impossibilità di adempiere conseguente alla situazione di fallimento non può definirsi assoluta, nel senso che l’imprenditore fallito è tenuto a sollecitare il curatore frattanto nominato – o, in alternativa, il giudice – perché adempia al pagamento nel termine trimestrale decorrente dalla contestazione o della notifica dell’avvenuto accertamento della violazione; conf. sez. 3, n. 9587 del 15.2.2012, Costessi, rv. 252252; sez. 3, n. 33945 del 5.7.2001, Castellotti, rv. 219989).
Il principio vale sia se a fallire sia soltanto la società, che, anche, nel caso del fallimento dell’imprenditore. Nel primo caso, peraltro, ove non dichiarato fallito personalmente, colui che era il l.r.p.t della società è tenuto al pagamento delle ritenute con le personali risorse finanziarie, (così questa sez. 3, n. 29616 del 14.6.2011, Vescovi, rv. 250529 che ha ritenuto infondata l’eccezione dell’imputato secondo cui l’omesso versamento delle ritenute all’Istituto previdenziale, a seguito della dichiarazione di fallimento, sarebbe stato imposto dalla necessità di evitare il rischio di vedersi contestato il delitto di bancarotta preferenziale per aver privilegiato un creditore).
Peraltro, finanche la fin troppo scarna motivazione del giudice di primo grado, evidenzia che il fallimento, nel caso che ci occupa, è intervenuto prima dell’accertamento dell’INPS ma dopo, evidentemente, la scadenza dell’obbligo contributivo.
3. Infondati sono i motivi sub b. e sub c.
Quanto al primo, peraltro non documentato, non appare evidentemente sussistente alcuna relazione tra l’obbligo di versamento delle ritenute e la mancata insinuazione al passivo fallimentare dell’INPS.
Quanto al pagamento delle retribuzioni la Corte territoriale da conto in motivazione che la prova in tal senso è stata desunta dai modelli DM10. E in proposito va ricordato che per la costante giurisprudenza di questa Corte ciò è sufficiente.
È vero, infatti, quanto alla individuazione dell’elemento costitutivo del reato di cui all’art. 2 commi 1 e 1 bis. D.L. n. 463/1983 (convertito nella legge 638/83 e succ. mod.), che le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U. n. 27641 del 28.5.2003, Silvestri, rv. 224309; conf. sez. 3, n. 35948 del 30.5.2003. Paletti, rv. 225552; sez. 3, n. 42378 del 19.9.2003, Soraci, rv. 226551) hanno affermato che il reato di cui all’art. 2 della legge 11 novembre 1983 n. 638 non è configurabile in assenza del materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione.
È stato, tuttavia, anche precisato che la prova dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni, nel processo per il reato di cui ci si occupa, può essere tratta dai modelli attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale (cosiddetti modelli DM 10), sempre che non risultino elementi contrari. (cfr., ex plurimis, questa sez. 3, n. 46451 del 7.10.2009, Carella, rv. 245610; aez. 3, n. 14839 del 4.3.2010, Nardiello, rv. 246966 secondo cui l’effettiva corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti, a fronte di un’imputazione di omesso versamento delle relative ritenute previdenziali ed assistenziali, può essere provata sia mediante il ricorso a prove documentali, come i cosiddetti modelli DM/10 trasmessi dal datore di lavoro all’INPS, e testimoniali, sia mediante il ricorso alla prova indiziaria).
Univoco è sempre stato l’orientamento di questa sezione sul punto. Ciò in quanto si è sempre ritenuto che gli appositi modelli attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale (cosiddetti modelli DM 10), hanno natura ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro e la loro presentazione equivalga all’attestazione di aver corrisposto le retribuzioni in relazione alle quali è stato omesso il versamento dei contributi, (sez. 3, 37145 del 10.4.2013, rv.256957).
La Corte di merito ha fatto puntuale applicazione di tale regola laddove ha accertato la prova della corresponsione e della retribuzione sulla scorta della produzione dei modelli DM 10 e ha anche ricordato, in un percorso argomentativo logicamente coerente, che l’imputato non ha fornito prova contraria che le retribuzioni non erano state erogate.
La Corte territoriale non ritiene, dunque, che ci sia, come non sarebbe giusto che fosse, un’inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato, ma ritiene, condivisibilmente, che la prova dell’avvenuta corresponsione possa essere fornita facendo ricorso alla presentazione dei modelli D.M., ferma restando la possibilità per l’imputato di fornire prova contraria in ordine alla effettività delle retribuzioni.
Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (art. 2 della legge 11 novembre 1983 n. 638) non è configurabile – va perciò ribadito-in assenza del materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione. In presenza delle denunce contributive, tuttavia, l’onere di dimostrare eventuali difformità rispetto alla situazione in esse rappresentata, incombe sul soggetto che la deduce, sia che si tratti dell’imputato che dell’organo dell’accusa, (sez. 3, n. 32848/2005 rv. 232393).
4. Fondato, invece, come si diceva, è il rimanente profilo di doglianza, sub d.
Le Sezioni Unite di questa Corte, con un dictum che il Collegio condivide, hanno, infatti, chiarito che la sostituzione della pena detentiva con quella pecu-niaria è consentita anche in relazione a condanna inflitta a persona in condizioni economiche disagiate, in quanto la prognosi di inadempimento, ostativa alla sostituzione in forza dell’art. 58, secondo comma, L. 24 novembre 1981 n. 689 (“Modifiche al sistema penale”), si riferisce soltanto alle pene sostitutive di quella detentiva accompagnate da prescrizioni, ossia alla semidetenzione e alla libertà controllata, e non alla pena pecuniaria sostitutiva, che non prevede alcuna particolare prescrizione (così Sez. Un. n. 24476 del 22.4.2010, Gagliardi, rv. 247274, che, nell’enunciare tale principio, hanno affermato che, nell’esercitare il potere discrezionale di sostituire le pene detentive brevi con le pene pecuniarie corrispondenti, il giudice deve tenere conto dei criteri indicati nell’art. 133 cod. pen., tra i quali è compreso quello delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato, ma non quello delle sue condizioni economiche; conf. sez. 6, n. 36639 del 10.7.2014, Sgura, rv. 260333).
La Corte territoriale, dunque, è incorsa sul punto nella lamentata violazione di legge laddove ha motivato il diniego della sostituzione de quo “in quanto l’imputato assume di non essere più in grado di adempiere tale tipo di obbligazioni”.
S’impone, pertanto, l’annullamento sul punto della sentenza impugnata con rinvio al fine di una rivalutazione della richiesta tenere conto dei criteri indicati nell’art. 133 cod. pen., tra i quali è compreso quello delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato, ma non quello delle sue condizioni economiche; con la precisazione che, ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., sul punto della responsabilità deve ritenersi formato il giudicato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata – con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Venezia – limitatamente alla applicazione della conversione della pena detentiva in pecuniaria. Rigetto nel resto.