201309.06
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Cass., sez. V pen., 6 settembre 2013, n. 36859 (testo)

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 16-01-2013) 06-09-2013, n. 36859

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZECCA Gaetanino – Presidente –

Dott. FUMO Maurizio – Consigliere –

Dott. BRUNO Paolo Antonio – Consigliere –

Dott. SABEONE Gerardo – Consigliere –

Dott. MICHELI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1. M.A.A., nato a (OMISSIS);

2. B.G., nato a (OMISSIS);

3. Br.Ca., nato a (OMISSIS);

4. G.M., nato a (OMISSIS);

5. A.D., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 18/02/2012;

visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;

udita la relazione svolta, all’udienza del 16/10/2012, dal consigliere Dott. Paolo Micheli;

uditi, all’udienza suddetta:

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. VOLPE Giuseppe, che ha concluso – sollecitando il collegio a valutare comunque se rimettere alle Sezioni Unite di questa Corte la questione della rilevanza penale di una condotta elusiva sul piano tributario – chiedendo:

– l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in ordine al reato di cui al capo F/2, ascritto ad A.D., perchè estinto per prescrizione;

– l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in ordine ai reati di cui ai capi B/7, B/9 (limitatamente alla dichiarazione del 28/10/2004), E/1, H/1 (limitatamente alle fatture del 2004), E/3bis, G/1, C/2, D/1, D/2, ascritti a M.A.A. e B.G., perchè estinti per prescrizione, nonchè in ordine ai reati dei capi B/13 (limitatamente alla dichiarazione del 27/10/2004), 1/1, 1/3, 1/4, 1/6 (limitatamente alla dichiarazione del 2004), D/3, ascritti al M., perchè del pari estinti per prescrizione, con eliminazione delle pene relative ai suddetti reati;

– l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, quanto a B.G., relativamente ai capi H/1 (fatture del 2005), B/16 ed H/2, per non avere l’imputato commesso il fatto, eliminando le relative pene;

– l’annullamento senza rinvio, quanto a M., B. e Br., relativamente ai capi H/2 e G/2, perchè i fatti non sussistono, eliminando le relative pene;

– l’annullamento delle statuizioni civili concernenti la provvisionale, con rinvio a tali limitati fini al giudice civile competente, in ragione della parziale assoluzione degli imputati M., B. e Br.;

– il rigetto del ricorso relativo a G.M. e, nel resto, di quelli relativi a M., B. e Br.;

– l’adozione di ogni conseguente provvedimento;

per il M., gli Avv.ti Alberto Marcheselli e Daniele Sussman detto Steinberg;

per il B., gli Avv.ti Massimo Dinoia ed Alberto Paone;

per il Br., l’Avv. Massimo Dinoia;

per il G., gli Avv.ti Luca Marafioti e Giorgio Zanelli;

per l’ A., l’Avv. Renzo Cocchi;

i quali tutti hanno chiesto in via principale l’accoglimento dei rispettivi ricorsi, e l’annullamento della sentenza impugnata.


Svolgimento del processo


1. Il 18/02/2012, la Corte di appello di Milano riformava parzialmente la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 18/04/2011, statuendo fra l’altro:

non doversi procedere nei confronti di M.A. A. e B.G. (in concreto, anche nei confronti di Br.Ca., al di là di quanto specificato in dispositivo) in ordine ad alcuni dei reati loro contestati, perchè estinti per sopravvenuta prescrizione;

che la dichiarazione di penale responsabilità nei riguardi del B. quanto al reato sub A) (ipotesi di associazione per delinquere, costituita con il suddetto M. quale capo e promotore, nonchè con i compartecipi G., Z. e Be., gli ultimi due separatamente giudicati) doveva intendersi relativa al periodo fino al 29/09/2005;

l’assoluzione dello stesso B. dal reato contestatogli al capo B17) (ipotesi di emissione di fattura a fronte di operazione inesistente), per non avere egli commesso il fatto;

la rideterminazione delle pene inflitte in primo grado al M., al B. ed al Br., riducendo le sanzioni nella misura di giorni 15 di reclusione per ciascuno degli episodi loro riferibili e da ritenere estinti ex art. 157 c.p., con la conseguente commisurazione della pena in anni 7, mesi 3 e giorni 15 di reclusione per il M., anni 4 di reclusione per il B. ed anni 1 e mesi 6 di reclusione per il Br.;

la riduzione della pena irrogata dal Tribunale a G. M. per l’anzidetto reato associativo di cui al capo A), fino ad anni 1 e mesi 4 di reclusione.

2. Il processo riguardava le vicende del cosiddetto “gruppo Mythos”, definito già nella sentenza di primo grado una “realtà imprenditoriale e professionale operante a Milano fin dai primi anni Novanta”, avente “quale oggetto principale l’attività finanziaria di compravendita di partecipazioni e predisposizione di prodotti fiscali per l’impresa”. Gli accertamenti su detto gruppo avevano preso le mosse dall’arresto di uno dei soci storici (il B., detentore del 33,3% delle quote; il residuo 66,6% faceva invece capo al M.) per episodi di corruzione di funzionari dell’Agenzia delle Entrate: nello sviluppo delle indagini era fra le altre emersa la figura di A.D., pubblico ufficiale in servizio presso l’Esatri di Milano, che si riteneva essere stato corrotto dagli stessi M. e B. al fine di accelerare le pratiche di rimborso di crediti di imposta, talora non dovuti affatto, in favore del suddetto gruppo. Quest’ultima ipotesi di reato era tuttavia riqualificata, già dai giudici di primo grado, come corruzione impropria susseguente.

Da successive verifiche fiscali e indagini di polizia giudiziaria, anche attraverso il sequestro del server di posta elettronica del gruppo Mythos, era emerso – sempre in base alla ricostruzione operata dai giudici di prime cure – che sotto l’egida della medesima Mythos venivano a ricomprendersi numerosissime società, tutte con identica sede legale e molte da considerare non operative o “di magazzino, costituite ed accantonate come fossero merce”. Il Tribunale segnalava fra l’altro che l’esame della corrispondenza informatica rendeva evidente che, “quando un professionista utilizzava una di queste società per le operazioni a lui affidate, ne dava comunicazione agli altri professionisti, appunto via mail, affinchè non vi fosse un contemporaneo utilizzo della medesima società, ciò che rappresenta un primo, forte elemento di sospetto sull’effettività delle operazioni che tale società riguardavano”; inoltre, dovevano ritenersi “indici sintomatici dell’assenza di una reale consistenza economica” anche la denominazione seriale di molte delle società in questione (esemplificativamente, “Ebea”, “Ecea”, “Edea”, “Egea” ed a seguire, oppure con nomi di piante od animali), la forma utilizzata per la costituzione delle stesse (in gran parte, società di persone aventi per oggetto la gestione di imprese agricole, del tutto eterogeneo rispetto alle operazioni poi poste in essere all’interno del gruppo avvalendosi di quei soggetti giuridici), e la circostanza che una stessa persona fisica ne risultava legale rappresentante, al contempo, di alcune centinaia (il Br., fra gli altri, appariva amministratore di 390 società).

Le indagini avevano portato quindi a far emergere, secondo l’ipotesi accusatoria, una associazione per delinquere costituita fra i soci di riferimento del “gruppo Mythos” ( M. e B.) e i dirigenti dei segmenti operativi del gruppo ( Z. per l’area fiscale, Be. per quello finanziario-bancario e G. per quello aziendale): struttura volta alla commissione di una pluralità indeterminata di reati di natura fiscale, in particolare correlati all’emissione di fatture per operazioni inesistenti ed al successivo utilizzo delle stesse per la presentazione di dichiarazioni fraudolente, a vantaggio dei clienti del gruppo medesimo. Stando alla motivazione della sentenza del Tribunale, i cui argomenti venivano sinteticamente richiamati ma espressamente condivisi dalla Corte di appello, assumeva decisivo rilievo l’inquadramento del concetto di “elusione” (dell’imposizione tributaria), osservando che le operazioni societarie contestate dal P.M. agli imputati nel presente processo – alcune delle quali rientranti nella figura del c.d. dividend washing, altre nello schema del manfee, strutture negoziali di cui veniva fornita una puntuale descrizione in entrambe le pronunce di merito – non avrebbero potuto qualificarsi nei termini anzidetti.

I giudici di primo grado davano infatti atto di condividere espressamente gli argomenti esposti dalla difesa circa “la definizione del comportamento elusivo come utilizzo anomalo di un determinato schema negoziale, produttivo di effetti giuridici, per ottenere un risultato economico fisiologicamente ottenibile con un diverso strumento, aggirando obblighi e/o divieti, in mancanza di valide ragioni economiche diverse dal vantaggio fiscale, secondo la definizione offerta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis”;

ribadivano altresì, in linea con gli assunti difensivi, “l’irrilevanza penale … di comportamenti genericamente elusivi e di abuso del diritto, poichè … anche le più recenti pronunce si limitano a colpire solo sul piano civilistico ed economico/tributario il risparmio fiscale anomalo, in omaggio al principio di tassatività che caratterizza la materia penale”; concordavano infine sulla “legittimità della compensazione quale strumento di pagamento delle imposte”. Tuttavia, il Tribunale di Milano segnalava che “il fenomeno elusivo è per sua stessa natura connotato dalla trasparenza e veridicità dei dati, mentre l’intervento penale nel settore tributario è stato costantemente ispirato alla logica di colpire comportamenti infedeli, strumentali all’omesso o ridotto pagamento dell’imposta e idonei a trarre in inganno l’Amministrazione finanziaria circa il corretto adempimento dell’obbligazione pecuniaria. Rispetto alla riforma del 1982, il legislatore del 2000, nel concentrare la sua attenzione sulla veridicità delle dichiarazioni, ha ribadito la volontà di eleggere ad oggetto immediato della tutela penale non tanto l’interesse fiscale, quanto la “funzione di accertamento” che le infedeltà del contribuente rischiano di compromettere. In altri termini, ciò che si è voluto punire non è tanto il mancato versamento del tributo …, quanto il potenziale lesivo insito nella presentazione di dichiarazioni mendaci, idonee ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria sulla stessa legittimità di versamenti eventualmente incompleti od omessi. Secondo questa interpretazione, dunque, assume rilievo penale ogni condotta decettiva, fondata cioè sulla falsa rappresentazione di una realtà”.

Perciò, stando ai giudici di primo grado, una operazione di dividend washing avrebbe potuto qualificarsi meramente elusiva – come già affermato da precedenti arresti della giurisprudenza di legittimità, in sede civile – facendosi richiamo “alla natura reale e non simulata dei negozi, all’effettività di cessione e retrocessione di partecipazioni ovvero della partecipazione di utili, al concreto scambio di prestazioni contrattuali”. Al contrario, l’attenzione del legislatore verso i fenomeni decettivi sopra ricordati avrebbe dovuto imporre di considerare anche ai fini penalistici “senz’altro il negozio oggetto di simulazione assoluta, o il negozio nullo per mancanza di causa o di altri elementi essenziali”, nonchè “in determinate ipotesi quello relativamente simulato, in cui cioè la volontà delle parti non corrisponde alla causa tipica dello strumento giuridico utilizzato, ma in cui vi è un effettivo scambio di prestazioni contrattuali e, in conseguenza, una corrispondente modificazione della realtà sotto il profilo “naturalistico” e giuridico”. Ad avviso del Tribunale, in definitiva, “l’effettività o meno dei negozi giuridici utilizzati per conseguire il vantaggio fiscale … rappresenta lo spartiacque tra negozio almeno parzialmente reale e negozio simulato, tra un’interposizione soggettiva reale e una fittizia, come nel caso di società prive di reali oggetto e scopo sociale da conseguire, e dunque esistenti solo sulla carta. Quanto a quest’ultimo profilo, è evidente che si tratta dell’artificiosa creazione di un rapporto intersoggettivo al fine di realizzare intestazioni di ricchezza fittizie o di comodo, e ciò a maggior ragione quando si aggiunga lo strumentale frazionamento di un reddito (reale o fittizio) in capo a più soggetti d’imposta. Simili condotte sono infatti intrinsecamente idonee a trarre in inganno gli organi preposti all’accertamento tributario, o comunque a frapporre un serio ostacolo all’accertamento medesimo. L’assenza di una valida ragione economica diversa dal risparmio fiscale, in sè non rilevante in assoluto secondo il disposto del citato art. 37 bis, potrà venire tuttavia in considerazione quale potenziale elemento sintomatico di frode … Analogamente, la pacifica legittimità dell’istituto della compensazione come modo di estinzione dell’obbligazione tributaria viene meno se le poste attive o passive da portare in compensazione non sono effettive, ma create ad arte o anche solo imputate ad arte ad una o ad altra società – priva di rapporti con l’Erario poichè esistente solo sulla carta e non operativa – a seconda della convenienza fiscale”.

3. La Corte di appello di Milano, come già ricordato, richiamava espressamente le argomentazioni sviluppate dal Tribunale sulle principali questioni di merito affrontate, riportandosi alla giurisprudenza secondo cui “non vi è inadempimento all’obbligo di motivazione nel caso in cui il giudice di appello abbia accertato e valutato il materiale probatorio con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado, limitandosi a far riferimento a quanto, sul punto, affermato da quest’ultimo” ed osservando che in base a consolidati arresti di legittimità “la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso argomentativo”. Sugli specifici motivi di gravame prospettati nell’interesse dei vari imputati, la Corte territoriale precisava – fra l’altro – quanto segue.

3.1 Su alcune eccezioni di nullità sollevate nell’interesse del M., che lamentava l’illegittimità di ordinanze del Tribunale reiettive di istanze di rinvio per impedimento del difensore (nonchè per adesione del difensore medesimo ad un’astensione dall’attività di udienza indetta da organismi dell’Avvocatura), i giudici di appello ritenevano congruamente motivati i provvedimenti di rigetto, perchè fondati sia sulla necessità di operare un bilanciamento fra i diversi processi da celebrare, alla luce della particolare complessità di quello in oggetto, sia sulla incompletezza delle allegazioni difensive circa i concomitanti impegni professionali e l’impossibilità di reperire un sostituto; in ordine al mancato accoglimento della richiesta di rinvio in concomitanza della ricordata astensione di categoria, la Corte condivideva parimenti il contenuto dell’ordinanza impugnata, che sottolineava come lo stesso codice di autoregolamentazione per gli esercenti la professione forense escludesse la possibilità di rinviare processi riguardanti reati con prescrizione a scadere nei 90 giorni successivi (come nella fattispecie, a proposito di talune delle ipotesi contestate). In ogni caso, i giudici di secondo grado rilevavano che a quella specifica udienza – in cui erano previste le repliche delle parti durante la discussione finale – il difensore del M. aveva comunque partecipato, così mostrando di “accettare gli effetti dell’atto” e sanando ogni eventuale vizio.

La Corte territoriale disattendeva altresì un’eccezione di nullità del decreto di rinvio a giudizio, fondata sulla presunta genericità delle contestazioni di reato: al contrario, riteneva che i capi d’imputazione fossero oltremodo analitici, tanto da avere certamente consentito l’esplicarsi del diritto di difesa.

Non condivideva poi l’ulteriore doglianza difensiva circa l’inutilizzabilità di buona parte degli atti di indagine, con riguardo al reato di associazione per delinquere, perchè oggetto di tardiva iscrizione nel Registro Generale delle Notizie di Reato: sul punto, osservava da un lato che doveva intendersi comunque riservata al P.M. la decisione sul momento in cui potesse configurarsi a tutti gli effetti una notitia criminis suscettibile di iscrizione, e dall’altro che il problema risultava superato dall’intervenuta escussione di una pluralità di testimoni sugli stessi fatti storici oggetto degli atti di indagine in ipotesi non utilizzabili.

I giudici di secondo grado consideravano quindi perfettamente rituale l’acquisizione delle comunicazioni e-mail, segnalando che tra il contenuto dei supporti informatici forniti dagli imputati e quello delle stampe provenienti dal P.M. vi era piena corrispondenza:

trattandosi peraltro di documenti consumabili con programmi di comune utilizzo, non vi erano i presupposti per dare corso ad accertamenti peritali, impropriamente sollecitati ex art. 603 c.p.p..

3.2 In ordine alla sussistenza dell’associazione per delinquere, la Corte di appello di Milano – richiamati i principi di fondo sulla configurabilità del reato in genere – tornava a ribadire le motivazioni adottate sul punto dal Tribunale, segnalando quali elementi indicativi di una struttura stabilmente dedita alla commissione di reati fiscali e contro il patrimonio il ricorso a periti compiacenti, l’esistenza di una rete di contatti del gruppo Mythos con funzionari di banca e addetti agli uffici finanziari, l’impiego di prestanome per la rappresentanza delle società create ad hoc e le caratteristiche seriali degli stessi reati fine:

l’attività degli imputati, pertanto, non poteva ritenersi “improvvisata e periodica”, tanto più che era emerso come gli stessi avessero “introdotto modifiche, funzionali alla commissione di delitti, alla struttura già dedita a finalità lecite, asservendola così alle finalità dell’associazione”. Infatti, così confermando il ruolo di promotore contestatogli nel capo d’imputazione, doveva intendersi appurata la creazione da parte del M., a partire dai primi anni 2000, di “una parallela struttura finalizzata a predisporre prodotti fiscali illeciti a favore dei clienti, che nello stesso tempo consentissero a professionisti e società del gruppo di conseguire indebiti vantaggi fiscali”: il M., che nelle dichiarazioni rese aveva peraltro rivendicato un proprio ruolo di dominus all’interno del gruppo, si era avvalso della collaborazione del B., suo socio storico (tanto che, fra l’altro, erano state realizzate in concreto da quest’ultimo le iniziative volte alla corruzione di pubblici ufficiali che avevano occasionato l’inizio delle indagini), nonchè dei vertici delle diverse aree operative del gruppo medesimo. Fra questi ultimi vi era il G., responsabile dell’area aziendale al cui interno venivano elaborate le perizie di comodo, spesso ricorrendo all’escamotage di far trasferire la sede legale delle ditte interessate in quel di Pesaro, presso il cui Tribunale le perizie stesse venivano asseverate da un professionista legato alla Mythos.

La partecipazione del B. al sodalizio criminoso – da limitare comunque sul piano cronologico sino al 29/09/2005, data del suo arresto – era stata peraltro di fatto confermata da alcuni testimoni e da coimputati che avevano altrimenti definito la propria posizione processuale (come il Be., responsabile dell’area finanziaria-contabile), le cui dichiarazioni attestavano il comportamento attivo dello stesso B. in più operazioni fra quelle contestate in rubrica: la sigla “BER” risultava poi nelle comunicazioni e-mail esaminate fra quelle indicative dei rispettivi destinatari, a riprova della circostanza che egli veniva informato circa gli aspetti rilevanti delle varie attività illecite.

Assumevano infine particolare significato sia la titolarità da parte del B. di deleghe bancarie che gli consentivano di operare sui conti di società interessate dalle operazioni anzidette, sia la circostanza che egli risultava aver conseguito vantaggi fiscali a seguito di talune operazioni di dividend washing. Quanto al G., la Corte rilevava che il ruolo dell’imputato doveva intendersi analiticamente spiegato nelle motivazioni della sentenza del Tribunale, senza che nei motivi di gravame quegli argomenti fossero stati in qualche modo contrastati;

ribadiva che il “compito specifico” in cui veniva a sostanziarsi la partecipazione del prevenuto all’associazione criminosa derivava dalla sua posizione di dirigente dell’area aziendale, vale a dire del settore nel cui ambito erano organizzate le perizie di comodo sopra richiamate, tutte da considerare “ideologicamente false poichè in esse il sottoscrittore attesta aver svolto personalmente tutta una serie di attività che in realtà risultavano svolte da altri o addirittura non svolte (quali sopralluoghi o riunioni di lavoro con i responsabili delle società conferenti, esame di documentazione)”.

Nè poteva assumere rilievo, come sostenuto dalla difesa del G., la circostanza che il presunto perito compiacente, operante a Pesaro (tale P.), fosse stato assolto, giacchè la sentenza liberatoria nei confronti di quest’ultimo derivava dal fatto che egli “non era in grado di sapere a cosa le perizie servissero”.

Secondo la Corte di appello di Milano, era da considerare provato che il capo area G. avesse avallato quella metodologia di lavoro e coordinato gli addetti al settore aziendale: sul punto, dovevano richiamarsi – oltre ai dati logici derivanti dalla qualifica di dottore commercialista dell’imputato, e dalla pluriennale attività prestata per il gruppo – i contenuti di una mail inviata dal M. all’imputato espressamente menzionata nella sentenza di primo grado, e tutte le altre mail in argomento che lo stesso G. risultava aver ricevuto dallo stesso M. o dallo Z., indicato dai giudici di appello come “il soggetto maggiormente coinvolto a livello associativo con specifico riferimento alle operazioni di carattere fiscale”.

3.3 A proposito dei reati-fine contestati, la Corte territoriale segnalava che le doglianze degli appellanti riguardavano essenzialmente tre aspetti, relativi alla contestata natura fittizia dell’operazione di finanziamento sottesa ad una delle vicende descritte in rubrica (il c.d. “prestito (OMISSIS)”), alla dedotta inconciliabilità di un contemporaneo addebito D.Lgs. n. 74 del 2000, ex artt. 2 e 8 ed all’impossibilità di qualificare alcune ipotesi di truffa indicate nei capi di imputazione ai sensi dell’art. 10 quater del citato D.Lgs..

Quanto al primo profilo, i giudici di appello rappresentavano come pacifica la circostanza che il prestito – pari a 6 milioni di Euro – risultava rientrato a chi lo aveva erogato nello stesso giorno della apparente disposizione, comportando un vantaggio fiscale di 20.000,00 Euro alla volta per ciascuno dei passaggi intermedi, a nulla rilevando che si trattasse di operazioni a saldo zero: quel che contava, al contrario, era la evidente non effettività del finanziamento, dietro lo schermo del quale si era illecitamente venuto a commutare un reddito da società in reddito da capitale.

Circa la dedotta impossibilità di contestare al contempo reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti e reati di utilizzo delle stesse fatture in dichiarazione, la Corte osservava che il meccanismo derogatorio all’art. 110 c.p. previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 9 può operare solo laddove si presupponga che i soggetti emittenti ed utilizzatori siano diversi, rispondendo il legale rappresentante della società emittente solo del reato di cui all’art. 8, e quello della società utilizzatrice dell’addebito ex art. 2: nel caso di specie, però, doveva rilevarsi che le persone fisiche rappresentanti le due società erano – per le operazioni contestate – le stesse, per cui venivano a rispondere dei vari reati a titolo di autonoma responsabilità, e non già come emittente concorrente con l’utilizzatore (o viceversa), ai sensi dell’art. 110 c.p., non ponendosi dunque un problema di applicabilità del ricordato art. 9.

In ordine alla derubricazione delle truffe nella diversa ipotesi di cui allo stesso D.Lgs. n. 74, art. 10 quater i giudici di secondo grado rilevavano che si era trattato di una scelta favorevole agli imputati, essendo la norma sopravvenuta sanzionata meno gravemente e certamente suscettibile di applicazione in quanto lex specialis (prevedendo il superamento di date soglie di punibilità).

Richiamavano quindi i principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte – n. 1235 del 28/10/2010, Giordano – circa il rapporto di specialità esistente fra le ipotesi criminose in tema di frode fiscale ed il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato.

3.4 Trattando infine della posizione dell’ A., la Corte territoriale confutava le argomentazioni difensive circa l’impossibilità di considerare l’imputato un pubblico ufficiale:

malgrado il carattere privato della società presso cui egli prestava attività lavorativa (la Esatri – Esazione Tributi – S.p.a.), il prevenuto doveva infatti considerarsi equiparato ad un ufficiale esattoriale, potendo quietanzare pagamenti effettuati dai contribuenti, e la società in questione era correttamente da intendere concessionaria di un pubblico servizio. Nè assumeva rilevanza la mancata individuazione dello specifico atto contrario ai doveri d’ufficio che sarebbe stato retribuito con l’utilità corruttiva contestata (orologi di valore), avendo l’ A. messo stabilmente la propria funzione a disposizione del gruppo Mythos (“chiamava il centro di Pescara per accelerare i rimborsi, mandava numerose e-mails, colloquiava periodicamente con Z. per metterlo al corrente in modo esclusivo delle pratiche, con abuso della propria posizione e non come un soggetto che dia informazioni a qualsivoglia contribuente”), così vanificando la funzione demandatagli.

4. Avverso la pronuncia segnalata in epigrafe propongono ricorso i difensori del M..

4.1 Con un primo motivo, si deduce inosservanza dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), artt. 179 e 185 c.p.p. e art. 420 ter c.p.p., comma 5, in ragione della già eccepita nullità delle udienze tenutesi dinanzi al Tribunale di Milano il 12 febbraio e 3 marzo 2010, con conseguente nullità dell’intera sequenza procedimentale successiva (comprese le sentenze di primo e di secondo grado).

Nell’interesse del M., si fa presente che in occasione della prima delle due udienze sopra indicate il suo allora unico difensore (Avv. Steinberg) era contemporaneamente impegnato dinanzi ad uffici giudiziari di Piacenza quale parimenti unico difensore di persona detenuta; la circostanza era stata tempestivamente rappresentata con apposita istanza, nella quale veniva segnalato come fosse impossibile per l’Avv. Steinberg nominare sostituti processuali per assistere il M., essendo programmata per l’udienza del 12 febbraio 2010 l’escussione di testimoni decisivi (ritenuti effettivamente tali anche nella ricostruzione dei fatti svolta nella sentenza del Tribunale), sì da non essere percorribile l’ipotesi di una sostituzione con un collega estraneo allo studio, non a conoscenza del complesso quadro degli addebiti e dell’attività processuale svolta fino a quel momento, mentre era al contempo inibita la possibilità di designare la collaboratrice di studio, a sua volta impegnata a Monza nella difesa di un detenuto.

Tuttavia, il Tribunale aveva rigettato la richiesta fondando la propria decisione su rilievi di maggiore importanza e di ordine cronologico dei processi posti in comparazione, dimenticando peraltro che simili aspetti non potrebbero assumere rilievo qualora il contestuale impegno difensivo riguardi procedimenti a carico di detenuti; nè poteva giustificarsi la mancata adesione all’istanza di rinvio sulla base della presunta, imminente prescrizione dei reati di cui al processo da rinviare, atteso che i relativi termini sarebbero stati comunque sospesi in caso di accoglimento della richiesta difensiva, addirittura – secondo un orientamento giurisprudenziale del quale la difesa aveva dato correttamente contezza – senza neppure che la sospensione operasse per soli sessanta giorni.

A riguardo, facendo seguito al puntuale motivo di appello sviluppato nell’interesse del M., la Corte territoriale – con motivazione che la difesa reputa del tutto carente, perchè non rispettosa dei dettami del codice di rito e comunque priva di un pur minimo contenuto esplicativo – risulta essersi limitata ad argomentare che i giudici di primo grado avevano rigettato la richiesta, “rilevando che era necessario un bilanciamento tra i diversi processi, mettendo in luce proprio la complessità di quello in oggetto”.

Analogamente era accaduto in occasione dell’udienza del 3 marzo 2010, quando l’Avv. Steinberg aveva rappresentato di essere impegnato dinanzi alla Corte di assise di appello di Firenze nella difesa di un soggetto accusato di omicidio, sottoposto a custodia cautelare; per ragioni analoghe a quelle già svolte il 12 febbraio, il difensore aveva segnalato di non potersi far sostituire da colleghi non appartenenti allo studio (anche il 3 marzo, si trattava di escutere testimoni fondamentali) e che la collaboratrice era impegnata contemporaneamente in ben tre processi ulteriori, dinanzi ad Autorità giudiziarie di altre sedi.

In quella circostanza, il Tribunale aveva argomentato che non risultava adeguatamente comprovata l’impossibilità per l’Avv. Steinberg di provvedere alla nomina di sostituti, che il suo impegno a Firenze derivava da un rinvio disposto ad udienza successiva – il 17/02/2010 – a quella in cui si era tenuta l’ultima udienza del presente processo (e il 17 febbraio il legale non si era premurato di comparire a Firenze, nè di farsi sostituire da chi avrebbe potuto informare quella Corte su eventuali ragioni di impedimento del difensore titolare in giorni di potenziale rinvio), che non tutti i contemporanei impegni professionali risultavano documentati, e – ancora una volta – che si imponeva la necessità di “evitare la prescrizione per un cospicuo numero di imputazioni”.

Motivazioni, tutte, incongrue malgrado il successivo avallo da parte della sentenza impugnata, giacchè secondo la difesa:

– la delicatezza e complessità della presente vicenda dimostrava in re ipsa l’impossibilità di ricorrere in pochi giorni a difensori ignari del contenuto degli atti;

– la Corte di assise di appello di Firenze, dovendo giudicare un imputato in vinculis, avrebbe potuto comunque disattendere il calendario fissato dal Tribunale di Milano in un processo a carico di persone non detenute;

– solo uno dei quattro processi oggetto di impegno da parte dell’Avv. Steinberg e della sua collega di studio non risultava documentato nell’istanza di rinvio (ma ne era stato comunque indicato il numero di R.G.);

– la prescrizione sarebbe stata impedita dall’impossibilità di far decorrere i relativi termini a seguito di richiesta di rinvio presentata da un difensore.

4.2 Con il secondo motivo, i difensori del M. deducono analoghi vizi, quanto all’eccezione di nullità dell’udienza tenutasi dinanzi al Tribunale di Milano il 15 aprile 2011, ancora una volta con conseguente nullità degli atti successivi, fra cui le due sentenze di merito.

Con riferimento a detta udienza, la difesa segnala che in quella occasione il legale dell’imputato dichiarò di aderire ad un’astensione di categoria, e non di meno il Tribunale decise di disattendere la richiesta di differimento, facendo nuovamente leva sulla prospettiva della imminente prescrizione di più reati e richiamando il disposto dell’art. 4 del codice di autoregolamentazione dell’Avvocatura.

A tali argomenti la difesa aveva obiettato, nei motivi di appello, che certamente nei casi di rinvio del processo su richiesta del difensore che aderisce ad astensioni proclamate da associazioni di categoria i termini di prescrizione rimangono sospesi fino all’udienza successiva; la Corte territoriale, però, aveva condiviso l’ordinanza dei giudici di primo grado, segnalando come la giurisprudenza di legittimità avesse già affermato la preclusione per un difensore di astenersi dalle attività di udienza nei casi di reati la cui prescrizione venga a maturare nei 90 giorni successivi (appunto, conformemente al dettato dell’anzidetto art. 4 del codice di autoregolamentazione). Inoltre, la Corte di appello di Milano aveva evidenziato che la difesa del M. si era comunque determinata a svolgere la propria attività in quell’udienza, dove erano previste le ultime repliche, prima che il Tribunale si ritirasse in camera di consiglio, così accettando gli effetti dell’ordinanza di rigetto dell’istanza di rinvio e dunque sanando l’ipotizzato vizio.

Nell’odierno ricorso, i difensori dell’imputato lamentano che l’indirizzo giurisprudenziale ricordato dalla Corte non risulta univoco, dovendosi peraltro tenere presente che il citato termine di 90 giorni viene previsto dal codice di autoregolamentazione con riferimento al giudizio di legittimità e non alle fasi di merito.

Espongono altresì che all’atto dell’udienza del 15 aprile 2011 non vi fu alcuna replica nell’interesse del M. (contrariamente a quanto risulta dalla verbalizzazione riassuntiva), giacchè il difensore prese la parola soltanto per ribadire la propria volontà di aderire all’astensione, e dunque per rappresentare di trovarsi costretto a rinunciare alle contro-repliche.

4.3 Con il terzo motivo viene ribadita l’eccezione di indeterminatezza e genericità di tutti i capi di imputazione ad eccezione di quelli di cui ai capi B-5), B-9), B-14), D-2) e D-4), deducendosi pertanto violazione dell’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c): secondo la tesi esposta, i capi della rubrica in argomento debbono considerarsi privi del connotato di “enunciazione in forma chiara e precisa del fatto” imposto dalla legge processuale; ciò perchè, fra l’altro, i numerosissimi addebiti qualificati ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 od 8 e presenti in rubrica dovrebbero ascriversi all’imputato in base ad incerte e mai chiarite vesti di “responsabile in seno al gruppo Mythos della organizzazione e della gestione finanziaria, economica e fiscale delle società” (unitamente ai coimputati B., Z. e Be.), ovvero di “amministratore di fatto delle società del gruppo Mythos”.

La evanescenza di quelle posizioni soggettive, come già rappresentato affrontando in sede di merito la medesima questione mediante rituali e tempestive eccezioni di nullità, non consentirebbe all’imputato di esercitare adeguatamente le facoltà difensive, tenendo conto che le fattispecie penali in tema di emissione od utilizzo di fatture per operazioni inesistenti debbono considerarsi reati propri, la cui condotta tipica può essere realizzata solo dal legale rappresentante di una ditta o dal soggetto tenuto alla dichiarazione fiscale; inoltre, la necessità di una descrizione analitica della condotta è imposta dall’esclusione della possibilità di concorrere al contempo in reati ex art. 2 e 8 del citato D.Lgs., “in ragione della assoluta peculiarità dell’elemento psicologico sotteso alle diverse condotte, nel senso che il fine di perseguire l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto postula un rapporto di terzietà fra il soggetto emittente e quello che utilizza il documento”.

Ergo, ad avviso dei ricorrenti l’individuazione del M. come generico corresponsabile della gestione non soddisferebbe l’esigenza appena descritta, non consentendo in alcun modo di comprendere quale contributo concreto egli avesse dato alle singole operazioni ritenute illecite; tanto più che già all’esito dell’udienza preliminare risultava chiaramente come l’imputato non si occupasse dell’area aziendale e fiscale del gruppo, del quale era stato l’originario fondatore ma che risultava ormai, all’epoca dei fatti contestati, avere una organizzazione “piatta” piuttosto che verticistica.

Conseguenza ulteriore, ed inaccettabile, dell’erronea impostazione dei capi d’accusa risultava quella della indifferenziata condanna del M. per tutti i reati di cui era stata lamentata la contestazione in forma generica ed imprecisa, avendo le corti di merito adottato il presupposto apodittico del suo indimostrato ruolo di dominus del gruppo Mythos per giungere alla dichiarazione della sua penale responsabilità senza operare alcuna distinzione fra i vari addebiti in ragione degli elementi di prova singolarmente raccolti; ciò a differenza da quanto accaduto nel valutare la posizione di altri imputati, che risultavano essere stati condannati per i soli fatti in ordine ai quali poteva dirsi dimostrata la loro partecipazione sul piano materiale e psicologico.

A fronte della doglianza mossa con i motivi di appello, la Corte territoriale si sarebbe limitata ad osservare che i capi d’imputazione debbono ritenersi analitici e idonei a consentire un adeguato esercizio del diritto di difesa, stigmatizzando peraltro le considerazioni della difesa secondo cui quegli stessi capi sarebbero “complicati ed onnivori”, ed al contempo “generici e vaghi”. Secondo i ricorrenti, proprio l’osservazione appena riportata darebbe la misura dell’equivoco in cui è incorsa la Corte milanese, giacchè la genericità non deriva dalla descrizione delle condotte materiali, talora effettivamente parossistica, bensì dall’indicazione del non meglio definito ruolo apicale che dovrebbe riconoscersi al M..

4.4 La difesa ricorre altresì per Cassazione lamentando inosservanza degli artt. 191, 405, 407 e 416 del codice di rito, per inutilizzabilità di tutti gli atti di indagine compiuti dopo la prima proroga del relativo termine di durata (in particolare, tenendo conto della sospensione feriale, dopo il 22 dicembre 2006), e deducendo conseguente nullità delle sentenze di primo e di secondo grado ex art. 526 c.p.p., comma 1.

I difensori del M., come già nei motivi di appello, censurano quella che definiscono come “anomala dilatazione del termine di durata massima delle indagini preliminari che, attraverso l’artificioso utilizzo di “nuove iscrizioni” o di aggiornamento delle iscrizioni ovvero di stralcio e creazione di diversi procedimenti rispetto a quello originario (il n. 5443/2005 R.G.N.R. nei confronti di B.G.), nei fatti si sono protratte ininterrottamente per oltre tre anni, e addirittura ben oltre il disposto rinvio a giudizio degli attuali imputati, con evidente violazione anche dell’obbligo di discovery segnato dall’art. 416 della liturgia penale”.

Il Tribunale aveva disatteso la relativa eccezione, soffermandosi sulla natura permanente del reato associativo contestato e sul rilievo empirico che, essendo alcuni reati indicati come commessi fino al settembre 2007, non poteva che trattarsi di nuove iscrizioni;

argomento al quale gli appellanti avevano ribattuto che la graduale emersione di nuovi, presunti fatti costituenti reato non avrebbe comunque potuto legittimare il compimento di indagini sine die, dovendosi invece avere riguardo al limite massimo consentito dalla legge e disporre, in caso di superamento, nuove iscrizioni in separato procedimento. In ogni caso, quanto alla posizione del M. il nominativo dell’imputato era stato iscritto nel registro delle persone sottoposte a indagini il 22/12/2005, e con riguardo a tutti i reati poi contestati nell’atto di esercizio dell’azione penale (tranne tre, assolutamente marginali); l’unico provvedimento di proroga era poi intervenuto il 30/06/2006, con l’indicazione della totalità degli addebiti, e non vi erano state altre istanze a tal fine sino al gennaio 2008, sì da doversi prendere atto quanto meno che le indagini compiute durante l’intero 2007 erano rimaste prive di qualunque copertura formale.

La Corte di appello di Milano osservava tuttavia che un nuovo termine ex art. 405 c.p.p., comma 2, era venuto regolarmente a decorrere dal 15/06/2007, per effetto dell’iscrizione disposta in ordine al reato associativo; in ogni caso, il problema dell’utilizzabilità degli atti di indagine doveva considerarsi superato dalla circostanza che sugli stessi temi vi erano state plurime deposizioni testimoniali.

Con l’odierno ricorso, i difensori del M. lamentano che “l’ordinamento giuridico … certamente non prevede che l’iscrizione di fattispecie associativa possa dipendere dalle valutazioni dell’organo inquirente”, visto che il 15/06/2007 era in realtà la data della nota riepilogativa curata all’esito delle indagini dalla Guardia di Finanza; inoltre, sostengono che “la natura patologica di un’acquisizione istruttoria compiuta oltre il termine massimo previsto per le investigazioni esclude che … possa emendarsi attraverso l’audizione dibattimentale”, violandosi altrimenti i principi in tema di obbligo di discovery e il correlato divieto di introdurre nel processo testimoni a sorpresa.

4.5 Il quinto motivo di ricorso è dedicato alla dedotta inosservanza dell’art. 521 c.p.p., con conseguente nullità della sentenza del Tribunale di Milano, per mancanza di correlazione fra l’addebito di truffa inizialmente contestato ai capi G2) ed H2) e la fattispecie criminosa ritenuta dai giudici di merito (D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 10 quater); si lamenta altresì omessa motivazione, sul punto, da parte dei giudici di appello, malgrado lo specifico motivo di gravame avanzato.

I difensori del M. contestano l’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui le ipotesi descritte ai sensi dell’art. 640 c.p. potrebbero essere ricomprese nell’ambito della fattispecie astratta disegnata dal citato art. 10 quater. ciò perchè un conto è discutere di truffa, altra cosa è vedersi addebitare di aver formato una dichiarazione dei redditi recante indebite compensazioni, con immediate implicazioni proprio in punto di diritto di difesa, giacchè l’imputato avrebbe dovuto essere posto in condizione di procedere ad un controllo puntuale delle dichiarazioni asseritamente fraudolente, non foss’altro per verificare se ricorresse o meno il presupposto del superamento degli importi previsti dalla legge come limite per la rilevanza penale della condotta. Dichiarazioni che peraltro non risultano nel corpo dell’originaria rubrica, e che vengono invece menzionate nella sentenza di condanna solo traendo spunto dal contenuto delle note conclusive utilizzate dal P.M. in sede di discussione; peraltro, fra i soggetti che avrebbero beneficiato di una delle compensazioni indebite ritenute di penale rilevanza risulta anche lo stesso M., che tuttavia non si è mai visto contestare direttamente il reato in questione.

Ad avviso dei difensori, il vizio lamentato dovrebbe riverberarsi sulla sentenza di secondo grado, di cui peraltro appare manifesta la mancanza di motivazione per non essere stato affatto esaminato il motivo di appello specificamente proposto.

4.6 Con il sesto motivo di ricorso si rappresenta inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 1, 2, 3 e 8 e nullità della sentenza di condanna quanto all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati di cui ai capi B), C), D), E), F), G), H), I-1), 1-2), 1-4) e 1-6).

I difensori del ricorrente, censurando preliminarmente la tecnica di redazione della sentenza impugnata in quanto caratterizzata da costanti rinvii per relationem alla pronuncia del Tribunale, sostengono innanzi tutto che le norme incriminatrici contestate all’imputato, con riguardo alle previsioni di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 1, 2, 3 e 8 sanzionano condotte fraudolente in quanto realizzate mediante simulazioni e finzioni, mentre invece le operazioni in ordine alle quali è intervenuta condanna (anche) del M. debbono intendersi effettive. Tali operazioni risultano censurate in sede tributaria perchè “strumentali ad un fine di risparmio fiscale non assistito da valide ragioni economiche”, risolvendosi pertanto in ipotesi di c.d. “abuso del diritto” (con la possibile applicazione, al più, dell’imposta evasa), senza invece poter configurare neppure una forma di “elusione codificata” ai sensi delD.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis suscettibile secondo la recente giurisprudenza di legittimità – Cass., Sez. 2^, n. 7739/2012, Gabbana – di assurgere a rilievo penale ma solo per i casi di semplice dichiarazione infedele.

L’errore di diritto lamentato nell’interesse del M. riguarda la non corretta individuazione, da parte dei giudici di merito, del discrimine fra operazioni di mera elusione fiscale ed operazioni prive di rilevanza penale, fondato sulla dimensione fattuale del necessario distinguo tra effettività e fittizietà: al contrario, detta linea di confine deve invece collocarsi sul piano giuridico, nel senso che – in presenza di negozi giuridici, come nella fattispecie – deve intendersi fittizio “ciò che giuridicamente non esiste perchè non voluto, nonostante materialmente appaia …; è fittizio, quindi, ciò che è simulato, sia che ricorra la falsa rappresentazione in fatture o in altri documenti (D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8), sia nella contabilità (art. 3) …. Ciò che giuridicamente è effettivo, non può mai essere fraudolento nel senso punito da tali norme”. In base a tale doverosa premessa, ricordano i difensori del M. come la giurisprudenza di questa Corte abbia, ai soli fini della debenza del tributo, affermato il principio secondo cui “anche dall’operazione elusiva scaturisce l’obbligo di pagare, e l’operazione non può essere opposta al fisco”; tuttavia, l’equivalenza tra fittizietà e strumentalita può valere solo per la sede tributaria, dove non si tratta di sanzionare il contribuente bensì di recuperare il dovuto in ragione dei principi imposti dall’art. 53 Cost., e non vale invece in sede penale.

Si sostiene nel ricorso che, “spostandosi nel settore della repressione penale, deve in primo luogo farsi applicazione del principio di legalità e tassatività, che comporta che “nel campo penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive …, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva” (come si legge nella sentenza n. 7739/2012, già menzionata). E, nei confronti del M., nessuna delle condotte di cui ai capi di imputazione può considerarsi rientrante nella previsione di specifiche norme antielusive, quali il D.P.R. n. 600 del 1973,art. 37 bis; inoltre, come già ricordato, la stessa recente sentenza della Sezione 2^ insegna che “le uniche fattispecie criminose astrattamente riconoscibili sarebbero solo quelle di dichiarazione infedele o omessa dichiarazione, ma non certo quelle di dichiarazione fraudolenta”.

La fragilità degli argomenti su cui si fonda la dichiarazione di penale responsabilità del M. deriva altresì, secondo i di lui difensori, dalla constatazione che in entrambe le sentenze di merito si richiama la statuizione prevista dalD.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11 dove assumono rilevanza eventuali “altri atti fraudolenti” che si associno a condotte simulate: richiamo non corretto nel caso in esame, giacchè la norma suddetta:

– deve leggersi riferita ad ipotesi di condotte fraudolente non negoziali, e non già ad attività negoziali idonee ad ostacolare la riscossione dei tributi;

– riguarda soltanto le false rappresentazioni contabili, ergo non è comunque applicabile alle fattispecie già autonomamente disciplinate dagli articoli precedenti, che richiedono i presupposti singolarmente previsti per ciascuna delle disposizioni incriminatici in parola (tanto che ammettere l’operatività di quella statuizione anche per i reati qui contestati sarebbe come affermare che tutti i delitti sono punibili a titolo di colpa, solo perchè le diverse norme sulle contravvenzioni ammettono indifferentemente il dolo o la colpa).

Esaminando i singoli addebiti, i difensori del ricorrente escludono che ai fini di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8 possano assumere rilevanza operazioni realmente effettuate, tra i soggetti indicati nella relativa documentazione contabile e per gli importi ivi risultanti; analogamente è a dirsi per l’art. 3, laddove se un’operazione è effettiva è smentito in radice che possa sussistere difformità tra rappresentazione documentale e realtà materiale.

Quanto all’art. 10 quater, che punisce la condotta di chi utilizza in compensazione crediti non spettanti od inesistenti, in tal modo omettendo di versare le somme dovute, il quadro non muta, dal momento che in presenza di una operazione reale ed effettiva, intervenuta tra i soggetti e per gli importi rappresentati contabilmente, si potrebbe al massimo discutere della possibilità per l’amministrazione finanziaria di disconoscere il credito, giuridicamente sorto sia pure in conseguenza di una operazione che trovava causa nella sola prospettiva di crearlo.

Ciò perchè, con argomento valido per tutti gli addebiti esaminati, “resta fuori dalla previsione della fattispecie penale il “movente” della operazione (reale). Irrilevante (la legge non lo prevede) è che vi sia il fine di risparmio fiscale, se esso sia o meno esclusivo, se sussistano altre valide ragioni economiche, ecc. Irrilevante è altresì il fatto che la volontà di porre in essere le operazioni sia stata originata, nella fiscalità di gruppo, in sede accentrata, se tali operazioni poi vengono effettivamente e giuridicamente sviluppate sulle singole società”. Le contestazioni mosse nel presente processo riguardano, in definitiva, “strumenti negoziali effettivi ed effettivamente voluti, di cui si contesta (su un piano completamente diverso) la preordinazione al vantaggio tributario, che è cosa radicalmente diversa dalla fittizietà, inesistenza, simulazione e/o falsificazione”: non si tratta, dunque, di ipotesi in cui una situazione fattuale sia stata meramente affermata ma sia in realtà inesistente, nè di negozi giuridici privi di effetti perchè simulati in quanto non realmente voluti.

Laddove il vantaggio tributario dipenda dalla esistenza dell’operazione, anche se voluta proprio ai fini di risparmio fiscale (potendosi parlare pertanto di aggiramento dell’obbligo, elusione codificata o abuso del diritto), non potrebbe esservi spazio per la sanzione penale, prevista soltanto per i casi in cui il vantaggio tributario derivi dalla difformità fra quanto attestato e quanto realmente accaduto.

Escluso poi che assuma rilievo nel presente processo una questione di eventuale nullità (in senso civilistico) dei negozi sottesi alle operazioni elusive, anche in ragione degli approdi della giurisprudenza tributaria secondo cui dette operazioni rimangono civilisticamente valide, per quanto disconoscibili ai fini del pagamento delle imposte, i difensori del M. censurano il passo della motivazione della sentenza di primo grado – richiamato per relationem in quella oggi impugnata – secondo il quale le condotte in rubrica sarebbero connotate da simulazione relativa, in quanto caratterizzate dalla “deviazione della volontà delle parti dalla causa tipica del negozio utilizzato”. In proposito, parlare di deviazione rispetto alla causa tipica significa in realtà essere al di fuori della nozione di simulazione, per quanto relativa: si fornisce l’esempio di una vendita per prezzo vile, certamente finalizzata ad arricchire il compratore e dunque avente una funzione economica di parziale donazione, ma non vi è dubbio che si tratti pur sempre di una vendita che realizza lo schema giuridico suo proprio, con il trasferimento della proprietà.

Non appare altresì corretto affermare che le norme penali tributarie sanzionerebbero sempre e comunque sia le condotte idonee a trarre in inganno gli organi accertatori, sia quelle idonee ad ostacolare l’accertamento: queste ultime possono rilevare solo laddove espressamente previste, come nei casi di cui agli artt. 4 e 5, dove possono assurgere ad elemento costitutivo presupposto, o nello stesso art. 3, dove l’ostacolo all’accertamento viene contemplato cumulativamente con l’indefettibile requisito della falsità delle risultanze contabili.

Per lamentare infine l’omessa motivazione della sentenza della Corte territoriale su peculiari motivi di appello, nell’interesse del M. si richiama diffusamente il contenuto di quel primo atto di impugnazione al fine di contestare la sussistenza in fatto dei vari addebiti.

4.7 Con il settimo motivo di ricorso si sostiene la mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, quanto all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati di cui ai capi B), C), D), E), F), G), H), I-1), I- 2), I-4) e I-6).

Quale argomento ulteriore rispetto alla enunciazione dei presunti errori di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte di appello di Milano nell’interpretazione delle norme penali sopra richiamate, i difensori del M. lamentano che la motivazione della pronuncia appare comunque carente e manifestamente illogica nei passi in cui si sostanzia l’esegesi compiuta, giacchè “tutti gli elementi “spia” della errata interpretazione del concetto di fittizietà assumono la subordinata rilevanza di vizi del tessuto motivazionale”.

Sul piano della gravità indiziaria, deducono innanzi tutto l’assoluta non significatività di alcuni elementi posti a base della condanna dell’imputato, quali il numero delle società coinvolte, l’agire coordinato fra i diversi amministratori (pochi, in rapporto al dato quantitativo delle società stesse), in ragione di direttive assunte all’interno del gruppo, l’essere quelle società denominate con carattere di serialità o costituite in forma di società semplice. Nè possono condividersi le considerazioni dei giudici di merito sul carattere fittizio di un’operazione sostanziatasi nell’intestazione di rapporti da una società ad un’altra, ovvero nei casi di frazionamento di redditi: ancora una volta, va considerato che i passaggi intermedi di rapporti fra società di provenienza e di destinazione finale erano comunque effettivi perchè giuridicamente validi e non simulati, come pure reali erano i frazionamenti di redditi, per quanto strumentali ad obiettivi di risparmio di imposta.

Anche in ordine al tema delle perizie sottese alle singole operazioni contestate, i giudici di appello – e quelli di primo grado – ravvisano un elemento di “valenza sintomatica della fittizietà” nel rilevare che per quelle operazioni il sistematico ricorso a perizie apparentemente provenienti da terzi, a prescindere se fossero o meno imposte dalla legge, mirava a raggiungere lo scopo di far ritenere attendibili le relative valutazioni, tuttavia assumendo sempre come proprie le valutazioni già proposte all’interno del gruppo:

nell’interesse del M. si obietta che in ogni caso non è stata fornita la prova che quelle valutazioni fossero fasulle e non rispondenti al vero.

Altro profilo di illogicità della motivazione si rinviene nella affermazione secondo cui non assumerebbe rilievo la circostanza che negli accertamenti tributari e nei relativi processi verbali di constatazione le fattispecie ascritte (anche) al M. fossero state qualificate come elusive e non già fittizie, intendendo pertanto l’elusione priva di implicazioni in ambito penale, per poi giungere di lì a poco a sostenere che la sussistenza di indici di elusione sarebbe comunque “di per sè sintomatica di rilevanza penale”.

Quanto alla compensazione di crediti, a sua volta segnalata dalle sentenze di merito come indicativa della fittizietà di talune operazioni, i difensori si dolgono della circostanza che non sarebbe comunque stato provato, oltre al carattere fittizio dell’operazione, il dato presupposto: vale a dire che fosse fittizio anche il credito estinto per effetto della compensazione. Sul piano logico, i difensori argomentano che “se i debiti e crediti reciproci fossero inesistenti, nessuna delle due parti avrebbe realizzato vantaggio fiscale alcuno (i costi di un’operazione sarebbero azzerati dai ricavi dell’altra) e quindi la manovra non potrebbe più essere censurata perchè non finalizzata nè ad evasione (come necessario) nè ad elusione nè a legittimo risparmio di imposta. Ciò per tacere del fatto che la compensazione, al limite, potrebbe determinare danno alle casse del Fisco, ma … solo quando operi per ridurre delle perdite fiscali che non potrebbero altrimenti recuperarsi. Ma tale circostanza non sussiste, nè tanto meno viene allegata o provata, quanto ai fatti delle odierne imputazioni. Le società del gruppo Mythos mai hanno imputato debiti fiscali a società in perdita, pur esistendone nel gruppo numerose”.

Nè eventuali operazioni infragruppo, con il trasferimento di comodo di taluni crediti a società non operative, a seconda della convenienza fiscale, possono ritenersi allo stesso modo “sintomatiche” della illiceità penale dei rapporti intercorsi fra l’una e l’altra società: secondo i difensori, “se il credito esiste, ancorchè creato o trasferito per finalità di convenienza, non vi è alcuna frode”; parimenti non rileverebbe la circostanza della non operatività della società cui il credito venga trasferito, dal momento che “una società che sia solo titolare di rapporti ma non svolga attività diverse non è per ciò stesso inesistente, nè è finta l’attribuzione ad essa di posizioni giuridiche”. Peraltro, nei casi in rubrica non si discute di cessioni o trasferimenti di beni materiali, sì da dover richiedere correlate strutture in capo a chi ne disponga, bensì di beni o prestazioni di servizi immateriali, quali intermediazioni nella cessione di titoli, consulenze gestionali, cessioni di know how e quote di avviamento commerciale, tutte attività per cui non sarebbe ragionevole discutere dell’esistenza di personale dipendente o di magazzini in capo all’una od all’altra società; nè si tratta di figure negoziali tali da richiedere determinate formalità documentali ad substantiam.

Anche in caso di disordine nella gestione amministrativa di una o più società, e pur tenendo presente che molte di quelle fatture seguirono le operazioni al fine di regolarizzare le emergenze contabili (così spiegandosi perchè in una comunicazione via e-mail tra i dipendenti del gruppo risulta utilizzato l’aggettivo “farlocca” per descrivere una fattura, comunque relativa a un determinato cliente – Ma. – e ad operazioni compiute dal coimputato B., come pure la spiegazione dello stesso B. secondo cui le fatture venivano emesse a fine anno “a tappo”), è necessario raggiungere la prova che la singola prestazione documentata non sia stata in realtà eseguita.

Ribadendo gli argomenti già sviluppati, la difesa del M. sostiene che può dirsi fittizia un’operazione in cui venga simulata la compravendita di beni o servizi, come pure il pagamento dei relativi oneri ad opera della controparte, ma non lo è affatto l’operazione in cui il vantaggio perseguito deriva proprio dalla effettività della prestazione e del successivo adempimento.

Sul piano strettamente finanziario, infine, le operazioni contestate al gruppo Mythos risultano “registrate nella contabilità della banca e nelle contabilità delle società”, giacchè “effettuate attraverso regolari bonifici, cioè ordini dati alla banca di effettuare determinati pagamenti”, senza dunque la necessità di somme liquide materiali. Il fatto che prevedessero un saldo finale pari a zero non può assurgere a motivo di sospetto, trattandosi al contrario dello scopo da raggiungere: nelle operazioni di dividend washing, vale a dire del meccanismo negoziale su cui era incentrata la gran parte delle operazioni, lo schema era il seguente: “a) il gruppo Mythos cedeva quote di partecipazione e forniva consulenza per l’operazione o riscuoteva acconti su consulenze di altro tipo (nel caso di clienti abituali); b) il cliente cedeva a Mythos la società impoverita dopo l’operazione; c) il dividendo, comprensivo dei vantaggi fiscali correlati in base alla legge vigente, costituiva di fatto (in termini di valutazione economica della convenienza dell’operazione) il conguaglio”.

Si trattava, in definitiva, di “operazioni finanziarie certamente molto ingegnose, e sicuramente finalizzate a ridurre il carico fiscale (obiettivo dichiarato addirittura nella pubblicità commerciale, così che viene da domandarsi come possa realisticamente ipotizzarsi il dolo in persone che pubblicizzano con brochures pubbliche e diffuse in una rete di marketing le caratteristiche che la sentenza impugnata reputa delinquenziali) ma non fittizie, bensì calcolate per avere la trasparente, massima efficienza finanziaria”.

4.8 L’ottavo motivo di ricorso mira a far valere vizi della sentenza impugnata identici a quelli evidenziati al punto precedente, quanto all’affermazione della sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’imputato in ordine ai reati di cui ai capi B), C), D), E), F), G), H), I-1), I-2), I-4) e I-6).

Conseguente sviluppo delle argomentazioni già evidenziate in precedenza risulta quello della illogicità manifesta nella motivazione della sentenza della Corte di appello di Milano, secondo i difensori del M., in punto di ricerca del dolo in capo al loro assistito.

Invocando ancora una volta la sentenza Gabbana della Sezione 2^, n. 7739/2012, nel ricorso si fa presente che l’elemento psicologico del reato dovrebbe essere comunque oggetto di puntuale e positivo riscontro da parte del giudice di merito, il che non potrebbe dirsi accaduto nel caso di specie: la sentenza appena ricordata segnala peraltro il rilievo della norma di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 15 in base alla quale “non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione”, fornendo subito dopo l’esempio di casi in cui “l’amministrazione finanziaria abbia dato luogo con atti (ad esempio, circolari) o comportamenti (ad esempio, casi analoghi in cui non è stata contestata la esterovestizione) a condizioni reali di incertezza nell’applicazione della norma”.

I difensori sostengono al riguardo che “le operazioni oggetto del presente processo, avvenute tutte alla luce del sole e non poste in essere dalla sola Mythos (si tratta di operazioni diffuse, pubblicizzate, endemiche nell’economia italiana, notorie e oggetto di analisi sulla stampa e pubblicistica specializzata) mai prima erano state contestate dall’amministrazione finanziaria”; la stessa circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 87/E del 27/12/2002, vigente all’epoca dei fatti e recante principi ispirati alla giurisprudenza pacifica del tempo, “invitava addirittura gli uffici ad abbandonare la pretesa in sede contenziosa tributaria (figuriamoci penale) quando non risultasse (testualmente) prova del fatto che si trattava di operazioni non realmente volute”.

La prova della mancanza di dolo emergerebbe poi, all’evidenza, dalla circostanza che tutte le fatture contestate risultano regolarmente registrate, con importi dichiarati e IVA versata, laddove dovuta;

inoltre, i corrispettivi indicati nelle stesse appaiono effettivamente pagati, nè è provato che vi sia stata una fraudolenta restituzione successiva, senza che rilevi in alcun modo la circostanza dell’essere alcuni di quei pagamenti intervenuti tramite compensazioni, mezzo di cui si ribadisce la liceità sul piano giuridico.

Merita confutazione, secondo i difensori del M., anche l’argomento utilizzato dai giudici di merito secondo il quale la finalità di frode sarebbe consistita nella volontà di sfruttare lo sfasamento temporale nella chiusura degli esercizi delle varie società interessate, dal momento che – se è vero che in taluni casi i ricavi della società prestatrice del servizio fatturato vennero dichiarati prima che la controparte deducesse i relativi costi – è talora accaduto l’esatto contrario, con il risultato economico (comprovato già in memorie difensive versate agli atti) che il gruppo Mythos si sarebbe complessivamente ritrovato a pagare tasse in anticipo.

La difesa del ricorrente sostiene quindi che in ordine ad operazioni intercorse fra società di uno stesso gruppo non potrebbe comunque esservi evasione, nè il relativo dolo, mancando per definizione un danno per l’Erario ed essendo un gruppo di società considerato in termini almeno parzialmente unitario a fini tributari: sul punto, ove si reputasse invece configurabile un illecito penale non già in base all’omissione di un tributo, bensì per effetto dello spostamento di quel tributo in capo ad altro soggetto originariamente non obbligato, sollecita venga sollevata eventuale questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost..

4.9 Con il nono motivo di ricorso, i difensori del M. deducono inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3 e conseguente nullità della sentenza impugnata, quanto all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato in ordine ai reati di cui ai capi B-2), B-7), B-14), B-15) e B-16).

A riguardo, si sostiene che nel caso in esame non possa dirsi configurabile il reato di cui al menzionato art. 3, che secondo l’accusa – con impostazione fatta propria dalla sentenza di condanna – deriverebbe dalla annotazione in contabilità di costi imputati a “fatture da ricevere”, in sostanza con una registrazione e deduzione dei costi medesimi in un esercizio precedente l’emissione delle correlate fatture: ciò perchè diciture di tal fatta non sarebbero comunque idonee ad assurgere a “mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento”, come la norma incriminatrice richiede, visto che si risolverebbero in una indicazione anticipata dell’emittente il documento contabile (e dunque si muoverebbero in una direzione opposta rispetto alla pretesa volontà di rendere difficoltosa le attività di verifica). Inoltre, ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, l’unico reato previsto per chi riceve una fattura che si assuma falsa è quello di cui all’art. 2 (laddove la fattura venga utilizzata): quando non vi sia successivo utilizzo, a condizione che si superino le soglie di punibilità stabilite dalla legge, potrà ipotizzarsi il reato previsto dall’art. 4. Sanzionare invece una mera attività preparatoria del successivo, potenziale utilizzo di fatture fittizie risulta in contrasto con il dettato dell’art. 6, che per i reati di cui si discute non ammette la configurabilità del tentativo.

4.10 Con il decimo motivo, la difesa dell’imputato lamenta inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 rappresentando che le condotte ascritte al M. non potrebbero comunque considerarsi di penale rilievo ai sensi di detta previsione (come sostenuto nella recente giurisprudenza di questa Corte, ma sempre in relazione a fattispecie rientranti nell’ambito di disposizioni antielusive: v. in particolare la più volte citata sentenza della Sez. 2^, n. 7739/2012). L’analisi dei difensori ricorrenti si sofferma quindi sulle ragioni – qui complessivamente riassunte, ma già trattate in precedenza – secondo le quali una condotta meramente elusiva, ed a fortiori una condotta qualificabile in termini di abuso del diritto, non potrebbe mai costituire illecito penale.

4.11 Il motivo seguente è dedicato all’operazione del c.d. “prestito Mo.”, in relazione al quale si deduce inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 con riguardo ai capi E- 2), E-3) ed E-4), nonchè dell’art. 8 stesso D.Lgs., con riguardo al capo E-l (da considerare comunque prescritto quanto ai fatti del 2003). La difesa, che censura in proposito la motivazione della sentenza impugnata in quanto carente e manifestamente illogica, censura la ricostruzione di merito fatta propria dalla Corte di appello di Milano, negando che si sarebbe trattato di un prestito simulato, con tanto di restituzione del capitale e contestuale emissione di una serie di fatture per finte consulenze; in realtà era invece una operazione di portage, usuale nel mondo degli affari e consistente in un mutuo oneroso in una direzione, con contestuale estinzione di un più elevato debito della società mutuataria (con regolarità fiscale dell’addebito degli interessi fra i vari soggetti protagonisti dell’operazione stessa, in ragione della necessità di fatturare le prestazioni di mandato senza rappresentanza).

Erroneo sarebbe altresì l’argomento utilizzato nella sentenza impugnata – mediante il consueto rinvio per relationem alla motivazione della pronuncia di primo grado – circa la possibilità di ricavare elementi di prova dall’intervenuto patteggiamento dello stesso Mo., non potendo le scelte processuali di un coimputato produrre effetti di sorta sulla posizione di un altro.

4.12 Con il dodicesimo motivo di ricorso, i difensori del M. evidenziano inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8 in punto di affermazione della responsabilità penale dell’imputato in ordine per i reati di cui ai capi G) ed H), nonchè illogicità della motivazione della sentenza oggetto di gravame.

In tema di dividend washing, la difesa evidenzia trattarsi di “una operazione di arbitraggio fiscale mirata a porre in essere operazioni reali con trattamento fiscale più favorevole. In diritto, esso presuppone un regime più favorevole per le plusvalenze (guadagni) dalla vendita dei titoli di partecipazione, rispetto alla tassazione dei dividendi contenuti nei titoli medesimi. In fatto, esso si attua con: a) la cessione reale dei titoli; b) la realizzazione di una plusvalenza reale tassata favorevolmente per il cedente; c) la tassazione ordinaria dei dividendi percepiti dal cessionario. Il risparmio della operazione consiste nel regime più favorevole riservato alla plusvalenza. Tale vantaggio può essere realizzato dal solo cedente, se il prezzo della cessione dei titoli è pari al valore di mercato (nel qual caso l’operazione è neutra per il cessionario e con vantaggio pieno per il cedente), oppure, con una cessione a prezzo lievemente favorevole, il cedente realizza un risparmio parziale e il cessionario acquista ad un prezzo più favorevole”. Ciò posto, deve considerarsi erronea la conclusione fatta propria dalla sentenza impugnata, che – entrando in contraddizione con l’espressa premessa della irrilevanza penale di simili operazioni – ne ravvisa comunque estremi di reato sul presupposto (non conforme al vero) che gli utili distribuiti con i dividendi sarebbero fittizi.

Precisato che secondo la legislazione dell’epoca la previsione di un credito di imposta non costituiva un vantaggio come tale, bensì “solo uno strumento per escludere che gli utili della società partecipata (quella le cui azioni si cedono) siano tassati due volte (come utili e poi come dividendi)”, nel ricorso si evidenzia che l’operazione si fonda sulla conseguente legittimità di un regime più favorevole per le plusvalenze del cedente, non già – come invece ritenuto in sentenza – sulla detrazione di crediti di imposta o sulla deduzione di minusvalenze (dal lato del cessionario). Il presupposto è dunque l’esistenza degli utili che, come tali e in quanto esposti in dichiarazione, fondano il correlato diritto di credito: e nel caso di specie gli utili in questione risultano sempre regolarmente dichiarati nell’esatto ammontare, sì da fondare legittimamente una successiva compensazione all’atto del pagamento delle imposte.

Analogamente è a dirsi per i casi di dividend washing senza credito di imposta e con minusvalenze, dove il cessionario delle quote riceve dividendi esenti da imposta, per poi rivendere quelle partecipazioni a un prezzo realmente inferiore a quello di acquisto (avendo egli incamerato i dividendi), consentendo al cedente che le riacquista di realizzare una plusvalenza, tassata in modo favorevole: si ha così – in una operazione del tutto legittima e consentita dall’ordinamento, comunque reale ed effettiva nella produzione degli effetti giuridici ad essa propri – un vantaggio fiscale per entrambi, visto che il cessionario può dedurre la minusvalenza ed ottenere uno sconto sulle imposte.

Ad avviso dei difensori ricorrenti, deve poi essere contestato l’assunto di cui alla sentenza della Corte territoriale in base al quale la fittizieta delle operazioni verrebbe dimostrata dalla discrasia tra i valori contabili della Mythos al momento della scissione rispetto a quelli dei successivi conferimenti: ciò perchè la necessità che le operazioni straordinarie quali fusioni o scissioni avvengano al costo originario, senza poter dare luogo a realizzo, nè a distribuzione di plusvalenze e minusvalenze, è imposto dalla legge, a differenza dagli atti di cessione o conferimento che debbono invece far emergere il valore attuale. In proposito, la sentenza della Corte di appello di Milano viene censurata anche per non essere stata disposta prova decisiva, in forma di perizia, al fine di ricostruire i valori reali oggetto di negoziazione.

4.13 Il tredicesimo motivo riguarda un ulteriore profilo di inosservanza ed erronea applicazione di norme sostanziali (D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 1, 2, 3 e 8), con riguardo all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato in ordine al reato di cui al capo F-1).

I difensori, che lamentano altresì manifesta illogicità della motivazione, evidenziano con riferimento alla c.d. “operazione Renco” che tutte le attività compiute corrispondono alla realtà dei fatti, e non possono invece ricostruirsi come dichiarazione fraudolenta con indicazione di un costo fittizio, dovuto all’acquisto di un falso usufrutto (ritenuto tale solo perchè di breve durata, nonchè in base alle già ricordate e inattendibili comunicazioni e-mail fra dipendenti) oltre alla esposizione di un credito di imposta non spettante (si trattava invece di un canone di locazione e di interessi su un prestito obbligazionario, entrambi relativi ad operazioni reali). In ogni caso, all’epoca dell’emissione delle relative fatture, il M. non era amministratore nè di Mythos nè di altre società del gruppo.

4.14 Con il motivo successivo si deduce inosservanza ed erronea applicazione anche del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 9 nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata:

la difesa del ricorrente si duole della circostanza che il M. risulta essere stato condannato sia per delitti D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 2 che per fatti qualificati ai sensi dell’art. 8, quando invece il successivo art. 9 esclude che uno stesso soggetto possa intendersi concorrente al contempo in entrambe le fattispecie criminose appena indicate. La sentenza di merito supera il dato normativo rappresentando che in concreto il M. avrebbe commesso separate condotte di emissione e registrazione di fatture, talora in proprio e talora in concorso con emittente od utilizzatore, ma si pone – secondo la tesi difensiva – in netto contrasto rispetto alla giurisprudenza delle Sezioni Unite (sentenza n. 27 del 2000, ric. Di Mauro). Ne conseguirebbe la necessità di escludere la responsabilità dell’imputato per uno dei delitti quanto ad ognuna delle coppie di contestazioni costruite con riguardo alla doppia condotta di emissione e successiva utilizzazione della stessa fattura; a fortiori, l’argomento varrebbe quanto all’addebito di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3 (in ordine alle presunte fatture ancora da ricevere) trattandosi di fattispecie di minore gravità.

4.15 Oggetto di inosservanza ed erronea applicazione sarebbe a sua volta, secondo i difensori del ricorrente, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater in relazione all’art. 2 c.p.: ciò perchè la sentenza impugnata giunge all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato con riferimento ai reati sub G-2) ed H-2), inizialmente contestati come ipotesi di truffa, ritenendo invece configurabile il reato di cui al suddetto art. 10 quater, sul presupposto che si tratterebbe di incriminazione maggiormente favorevole. Presupposto che però, secondo i difensori del M., appare inesatto e fuorviante, atteso che la norma di minor favore precedentemente vigente – ovvero l’art. 640 c.p. – non poteva in ogni caso considerarsi applicabile alla fattispecie concreta, così dovendosi escludere in radice un problema di successione nel tempo di leggi penali meramente modificative del trattamento sanzionatorio.

Anche in questo caso, soccorrono gli insegnamenti delle Sezioni Unite di questa Corte, dato che la sentenza n. 1235 del 2011 (ric. Giordano) esclude che ai fatti fraudolenti tributari sia mai stato applicabile l’art. 640 c.p., così imponendo la conclusione che la più favorevole norma di cui all’art. 10 quater più volte citato non potrebbe trovare applicazione retroattiva ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore; i difensori del M. contestano peraltro che esista continuità normativa di detta previsione (come norma successiva) rispetto a quella sanzionata dall’art. 316 ter c.p., come sostenuto da altra pronuncia di legittimità (Cass., Sez. 3^, n. 7662 del 27/02/2012, ric. Mo.).

4.16 Il sedicesimo motivo di ricorso si riferisce ancora alla dedotta inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000,artt. 1, 2, 3 e 8 in questo caso riguardo all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato per i reati di cui ai capi I-1, 1-2), 1-3) e 1-4).

I difensori del ricorrente censurano la sentenza impugnata, la cui motivazione ritengono carente e viziata da manifesta illogicità, laddove assume provato da un lato che le operazioni descritte nei capi sopra evidenziati siano fittizie (trattandosi invece di conferimenti reali, con atti effettivi e di concreta rilevanza giuridica), e dall’altro che il M. vi avrebbe partecipato in termini di concorso morale, sostenuto solamente in termini apodittici e senza considerare che l’imputato in realtà non partecipava nè direttamente nè indirettamente alla gestione fiscale di singole società del gruppo.

4.17 Il profilo di doglianza svolto con il diciassettesimo motivo di ricorso riguarda una affermazione contenuta nella motivazione della sentenza, secondo cui la ricostruzione di merito operata dal Tribunale di Milano in primo grado sarebbe stata sostanzialmente condivisa ed accettata dagli imputati: affermazione non corrispondente al vero, considerando che, se le difese non hanno mai contestato la materialità dei fatti, è tuttavia di solare evidenza che quegli stessi fatti sono stati inquadrati e spiegati in termini – soprattutto, giuridici – antitetici rispetto alle spiegazioni fornite dall’accusa.

4.18 Motivo autonomo di ricorso è dedicato ad una presunta violazione di legge, per non essere stata dichiarata la prescrizione di reati già estinti al momento della sentenza di appello: il rilievo riguarda, per tutta o parte della contestazione di cui ai vari capi d’imputazione singolarmente considerati, i reati sub B-15), C-2), D-1), D-2), E-1), E-3), E-3bis), G-1) ed I-6).

4.19 Con il diciannovesimo motivo, si lamenta inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 190 c.p.p. e arty. 416 c.p., nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata.

In linea subordinata, considerando che in tesi i difensori del M. sostengono la completa irrilevanza penale delle condotte ascritte al loro assistito, nel ricorso si rappresenta che non sarebbe stata comunque raggiunta la prova della sussistenza di un presunto sodalizio criminoso rilevante ex art. 416 c.p.: erronea sarebbe la valutazione dei giudici di merito secondo cui la presunta realizzazione seriale di delitti tributari dimostrerebbe l’esecuzione di altrettanto presunto programma criminoso, e dunque la sussistenza a monte di un vero e proprio sodalizio. Parimenti non condivisibile l’ipotizzata significatività di elementi quali il ricorso a periti compiacenti (senza che sia mai stato dimostrato che i relativi valori di stima fossero incongrui), la presenza di stabili contatti fra chi gravitava nell’ambito del gruppo Mythos e funzionari di banca o addetti presso uffici finanziari (contatti da considerare la norma per chi svolga attività come quelle riconducibili alle società del gruppo), la predisposizione di fogli di calcolo da utilizzare sempre secondo identiche modalità standardizzate (a dispetto della circostanza che l’impiego di documenti e programmi informatici dovrebbe intendersi una pacifica regola), infine l’impiego di prestanome per rappresentare società ben determinate e talora appositamente create (visto che i soggetti cui era stato affidato il maggior numero di incarichi di amministrazione risultavano stimati professionisti).

In concreto, peraltro, il ruolo di ciascuno dei presunti associati appare antitetico rispetto alla stessa ammissione che un reato associativo esistesse, vista la pacifica eterogeneità di interessi fra i presunti sodali; ed in ogni caso nulla autorizza a ritenere che l’associazione abbia continuato ad operare in epoca successiva rispetto al momento in cui gli indagati ebbero contezza delle investigazioni in atto, da collocare nel dicembre 2005, mediante un intervento di organismi di polizia tributaria palesemente percepibile dai diretti interessati.

4.20 Il penultimo motivo di ricorso è dedicato alla censura della sentenza impugnata – per inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 62 bis e 133 c.p., e correlate carenze motivazionali – quanto alla negazione delle attenuanti generiche nei confronti dell’imputato ed alla determinazione di un trattamento sanzionatorio eccessivamente gravoso e sproporzionato rispetto a quello riservato a coimputati autori di differenti scelte processuali.

I difensori del M. evidenziano la pregressa, completa incensuratezza dell’imputato e la sua leale condotta processuale, ispirata dalla volontà di offrire il proprio contributo per la ricostruzione della verità (sino a consegnare egli stesso le copie di back-up del server della Mythos); dati che avrebbero dovuto determinare i giudici di merito a riconoscergli le invocate attenuanti e ad irrogare nei suoi confronti una pena più mite.

4.21 Infine, nell’interesse dell’imputato si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 185 c.p., in ordine ai criteri di determinazione del danno risarcibile alle parti civili ed alle relative provvisionali, nonchè mancanza assoluta di motivazione della sentenza impugnata, in parte qua.

La Corte di appello di Milano, in punto di prova del danno subito dalle parti civili e di entità del risarcimento, si limiterebbe a considerare “sicuramente adeguata” la cifra stabilita in primo grado, in ragione dei “considerevoli importi sottratti al fisco e oggetto di operazioni inesistenti”: i difensori del M. rilevano che in tal modo i giudici territoriali sarebbero sfuggiti all’obbligo motivazionale, indicando cifre di decine di milioni di Euro senza alcuna quantificazione realistica. Analoga doglianza viene mossa nei riguardi dell’entità della provvisionale liquidata.

5. Propone altresì ricorso il difensore del B., Avv. Massimo Dinoia.

5.1 Con il primo motivo, l’Avv. Dinoia lamenta contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta partecipazione dell’imputato al presunto reato associativo.

La decisione della Corte di appello di Milano, ad avviso del ricorrente, si palesa contraddittoria nella parte in cui la posizione del B. all’interno del presunto sodalizio criminoso viene considerata non già apicale, quale corresponsabile della totalità o quasi delle operazioni fiscali contestate, bensì in termini di concorrente in singoli episodi, ricostruzione già fatta propria dalla sentenza di primo grado: se ciò è vero, tanto che l’imputato risulta essere stato assolto da una pluralità di addebiti costituenti gli ipotizzati reati-fine dell’associazione, ne deriva però la contraddittorietà dell’impianto motivazionale, mancando prova certa della consapevolezza da parte del B. della natura evasiva di quelle operazioni cui aveva preso parte in via occasionale (anche in ragione del parallelo svolgimento di una fisiologica attività d’impresa, non posto in dubbio nel provvedimento impugnato). La difesa contesta che possa riconoscersi rilievo al dato formale della partecipazione societaria dell’imputato al gruppo Mythos nei termini del 33,3%, in concreto non rispondente alla realtà quanto al ruolo effettivamente svolto dal B., ed in ogni caso da riferire alle attività lecite sopra evidenziate.

Irrilevante è altresì la deposizione dei testimoni che hanno indicato il B. come protagonista di talune operazioni determinate, come il Be. quanto all’operazione Mo., visto che in fatto risulta come l’imputato si limitò a proporre l’operazione medesima – ideata da altri – al cliente: ergo, come in altre circostanze, poteva ben trattarsi di iniziative delle quali il B. non comprese la presunta finalità di frode nei confronti del fisco, e considerarle invece fisiologicamente connesse alla normale attività d’impresa. Nè assumono rilievo i contatti tenuti dall’imputato con funzionari di uffici pubblici o dirigenti di istituti di credito, da correlare al suo ruolo di gestore delle attività più propriamente commerciali del gruppo (e in questo senso avrebbero dovuto considerarsi le situazioni di contrasto fra il B. e il M., emerse dall’istruttoria dibattimentale, spiegabili nel senso della determinazione del primo di non condividere le scelte aziendali orientate verso l’area fiscale, caldeggiata invece da altri).

In ogni caso, la prova del concorso in un reato-fine nulla potrebbe dire circa la dimostrazione della partecipazione al presupposto reato associativo. Ed anche l’episodio della corruzione del L., impossibile da collegare al presunto programma del sodalizio ma spiegabile come iniziativa occasionale, non fornirebbe alcuna chiave di lettura della veste assunta dal B. nell’ambito dell’associazione contestata.

5.2 Il secondo motivo di ricorso spiegato nell’interesse del B. dall’Avv. Dinoia costituisce ulteriore articolazione del primo, in punto di corretta applicazione della norma di diritto sostanziale contestata. In concreto, ricostruendo la posizione dell’imputato all’interno del sodalizio criminoso come soggetto che – pur non avendo ideato il programma e gli strumenti operativi per darne attuazione – operò in modo da rivelare la sua consapevolezza dell’illiceità delle operazioni, le sentenze di merito disegnano in capo a lui un elemento soggettivo da definire in termini di dolo eventuale, come mera accettazione della possibilità del compimento di atti fraudolenti in danno dell’Erario: stato incompatibile con la struttura stessa del reato ex art. 416 c.p., che richiede invece il dolo specifico della volontà di aggregarsi con altri al fine di commettere più delitti.

5.3 Con il terzo motivo, si deduce mancanza di motivazione della sentenza impugnata quanto al ritenuto concorso dell’imputato nei reati fine di cui ai capi B), E), G) ed H). Operando un rinvio per relationem alla sentenza di primo grado, la Corte di appello risulta avere affermato che il Tribunale di Milano aveva collocato il B. nella stessa posizione del M., indicando entrambi come gli ideatori del complesso sistema di fatturazioni incrociate:

inciso tuttavia non corrispondente al vero, giacchè i giudici di prime cure avevano diversificato quelle posizioni, come già evidenziato in precedenza. L’affermazione censurata, inoltre, costituirebbe per la Corte territoriale l’occasione di liquidare il problema dei motivi di appello presentati sul punto nell’interesse del B., venendo rappresentato che egli non ne avrebbe svolti di specifici in ordine alla sua partecipazione ai reati-fine: rilievo parimenti inesatto, essendo così rimasti privi di risposta plurimi e circostanziati motivi di gravame.

5.4 Con il quarto motivo si lamenta mancanza ed illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta natura evasiva del c.d.

prestito Mo., di cui al capo E) della rubrica.

Nei motivi di appello, si era sostenuto nell’interesse (anche) del B. che l’operazione di finanziamento sopra menzionata era stata effettiva, contrariamente all’assunto accusatorio secondo cui era stata fittiziamente trasformata una percezione di utili, sottoposta ad un regime fiscale sfavorevole, in una corresponsione di interessi. La Corte di appello, nel dare atto di quelle doglianze, le avrebbe tuttavia pretermesse senza affatto esaminarle, limitandosi a segnalare quale dato decisivo che l’incrocio delle due operazioni di finanziamento si fosse esaurito – con un presunto saldo zero – nell’arco di una sola giornata.

5.5 Il quinto motivo riguarda la violazione ed erronea interpretazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 con riguardo ai capi E-3bis) ed E-4), nonchè la correlata illogicità della motivazione della sentenza impugnata. La ricostruzione dei giudici di merito, ancora con riguardo alla c.d. operazione Mo., porta a conferire contemporanea rilevanza, sul piano della frode fiscale, sia al primo passaggio (emissione di una fattura per consulenza dalla Mythos S.p.a. nei confronti della Moretti S.p.a.) sia a tutti quelli successivi, prima del passaggio finale da Mythos Arkè (cui le somme versate dalla Moretti S.p.a. in corrispettivo dell’iniziale consulenza erano confluite) a Mo.Vi., nella forma di interessi per il prestito. Così facendo, però, vi sarebbe stata una anomala moltiplicazione di incriminazioni e sanzioni, in quanto i passaggi successivi al primo non potrebbero in alcun modo intendersi produttivi di ulteriori ed autonome violazioni di legge, tanto più che i passaggi di denaro fino alla Mythos Arkè erano avvenuti mediante transazioni di cifre identiche in entrata e in uscita – mediante successive fatture emesse verso Mythos S.p.a. per altrettante consulenze da Ma., Cofima e/o Andromeda, o fatture ancora successive da Citalia ad Andromeda – e dunque senza rilevanza fiscale.

Sostiene in definitiva la difesa che, “se evento di evasione vi è stato, esso a tutto concedere si sarebbe realizzato con il primo passaggio con la prima fattura, rilasciata alla Moretti S.p.a.: dopo di allora, la somma asseritamente evasa sarebbe stata semplicemente trasferita, senza alcuna ulteriore evasione”.

5.6 Con il sesto motivo, si rappresenta inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8 stante l’assoluta incompatibilità dell’elemento soggettivo richiesto per tale fattispecie criminosa rispetto ai fatti contestati al capo E-1).

Coerentemente al motivo di ricorso precedente, la difesa del B. argomenta che dovrebbe necessariamente escludersi, per i passaggi intermedi fino a Mythos Arkè, qualsivoglia dolo specifico in capo a chi agi per le società del gruppo Mythos, in quanto passaggi con saldo zero ex se incompatibili con eventuali fini di evasione delle imposte. Nè potrebbe sostenersi che il fine di consentire a terzi l’evasione, contemplato nel precetto dell’art. 8, sia riferibile a soggetti diversi da colui che risulti il destinatario diretto della fattura emessa, stante l’intima correlazione – dimostrata anche dai lavori preparatori della legge di riforma, come pure dall’assoluta identità di sanzioni – fra la condotta qui contestata e la parallela incriminazione dell’utilizzo di fatture emesse per operazioni inesistenti, ai sensi del precedente art. 2.

5.7 Il settimo motivo del ricorso a firma dell’Avv. Dinoia riguarda la lamentata violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 9: il difensore deduce altresì manifesta illogicità della motivazione, con riguardo alla ritenuta responsabilità dell’imputato sia in ordine a fatti sanzionati ex art. 8 dello stesso D.Lgs. – capo E-1) – sia in ordine a fatti di presunto rilievo penale ex art. 2 – capi E-3), E-3bis) ed E-4).

Nell’interesse del B. si sostiene che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 9 esclude il concorso fra il reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e quello di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di quelle fatture o quei documenti: le Sezioni Unite hanno infatti affermato che in base al quadro di riferimento normativo “per l’emittente, la successiva utilizzazione da parte di terzi configura un postfatto non punibile, mentre per l’utilizzatore, che se ne avvalga nella dichiarazione annuale, il previo rilascio costituisce antefatto pure irrilevante penalmente” (si richiama la sentenza n. 27 del 2000, già ricordata in precedenza). Il rilievo, ad avviso della difesa dell’imputato, deve valere anche per chi concorra sia nella condotta dell’emittente che in quella dell’utilizzatore, dovendo tale terzo soggetto – il partecipe nella commissione di uno dei delitti che sia anche concorrente eventuale nel secondo – rispondere comunque di un reato unico: la soluzione deve considerarsi imposta anche dalla Corte Costituzionale, all’esito dello scrutinio di legittimità cui risulta essere stato sottoposto il citato art. 9 (sentenza n. 49 del 2002).

Di contrario avviso è però la sentenza impugnata, che – sul presupposto della constatazione che le stesse persone fisiche risultano al contempo rappresentanti sia della società emittente che di quella utilizzatrice le fatture – nega doversi ravvisare nel caso concreto una ipotesi di concorso, esclusa dall’art. 9, dovendosi invece imputare a quelle persone fisiche, in via autonoma, entrambi i delitti di cui si discute. La difesa del B. censura l’interpretazione proposta, atteso che la ratto delle norme in esame è innegabilmente quella di evitare una indebita moltiplicazione di sanzioni: inoltre, il rilievo che vorrebbe identità soggettiva fra il legale rappresentante della società emittente e quello della utilizzatrice si attaglia in concreto ad un solo episodio, contemplato al capo E-3), dove il M. risulta titolare dell’una e dell’altra (Andromeda e Mythos S.p.a.). In ogni caso, quanto al B. egli non era legale rappresentante nè di società emittenti nè di società utilizzatrici di fatture di sorta, ma semplice concorrente eventuale, in ipotesi, nei fatti dei primi e dei secondi.

5.8 Con l’ottavo motivo, l’Avv. Dinoia segnala inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8 e omessa motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alla ritenuta responsabilità dell’imputato in ordine ai fatti di cui ai capi G-1) ed H-1).

Le operazioni di cui ai capi G-1) ed H-1), correlate a quelle sub G- 2) e H-2), descriverebbero le condotte di c.d. dividend washing: è comunque un fatto pacifico, secondo la difesa del B., che i primi due capi descrivono i “giri finanziari” mediante i quali venne resa possibile la presunta distribuzione simulata di utili, descritta nei capi immediatamente successivi. Se ciò è vero, dovrebbe escludersi – coerentemente ai principi già espressi con riguardo ai “passaggi intermedi” dell’operazione Mo. – che transazioni a saldo zero possano autonomamente assumere rilevanza in termini di illecito penale tributario.

5.9 Con il nono motivo, si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 640 c.p., quanto alla riqualificazione ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater in ordine ai fatti di cui ai capi G-2) ed H-2).

La difesa del B. sostiene che il motivo di appello sulla assoluta impossibilità di ritenere l’addebito di cui all’art. 10 quater citato (che richiede il mancato versamento di somme dovute utilizzando l’istituto della compensazione in modo scorretto) sussumibile nel più ampio genus della truffa (che richiede invece il compimento di un atto di disposizione patrimoniale a seguito di artifici e raggiri, con induzione in errore da questi determinata) non ha avuto alcuna risposta da parte della Corte territoriale.

Il ricorso analizza l’intera problematica, anche mirando a confutare l’interpretazione già suggerita da alcune pronunce di legittimità sullo specifico tema.

5.10 Con il decimo motivo, l’Avv. Dinoia lamenta mancanza di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato per concorso nei fatti sub H-1) ed H- 2).

Nell’interesse del B. si rappresenta che in sede di appello erano state contestate le argomentazioni del Tribunale a sostegno dell’ipotizzata partecipazione dello stesso prevenuto alle condotte sopra richiamate (che consistevano nell’averne evidenziato i contatti con determinati funzionari di banca, le attività di procacciamento di clienti, le cariche ricoperte in alcune delle società coinvolte ed i vantaggi fiscali conseguiti): non di meno, la Corte territoriale avrebbe confermato la sentenza di primo grado ignorando quelle ragioni di doglianza e rappresentando anzi che in punto di consapevolezza dei vari imputati nelle attività di realizzazione dei presunti reati-fine le varie difese non avevano svolto specifici motivi di gravame.

5.11 Il motivo successivo riguarda analoghi profili di carenza motivazionale della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità del B. quanto ai fatti sub B), collegati ai capi G) ed H). Su tali addebiti, la Corte di appello di Milano si sarebbe apoditticamente limitata a considerare che i capi B7), B9) e B16) fossero riconducibili allo schema del dividend washing e descrivessero operazioni inesistenti.

5.12 Con il dodicesimo motivo si sostiene contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, ed erronea applicazione della legge penale sostanziale, in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato quanto ai reati-fine che si assumono realizzati dopo il 29/09/2005. La Corte territoriale avrebbe infatti corretto solo in parte l’errore argomentativo di cui alla sentenza del Tribunale, che – pur avendo affermato il distacco del B. dal gruppo Mythos in conseguenza del suo arresto – aveva comunque condannato l’imputato anche per reati posteriori alla data anzidetta; all’assoluzione del B. per non aver commesso il fatto, giustamente pronunciata dalla Corte in ordine al capo B17), avrebbe però dovuto aggiungersi, per l’identica ragione, quella per i reati sub B9) e B16), come pure per tutte le operazioni contemplate ai capi E), G) ed H), aventi data successiva al settembre 2005.

5.13 Con il penultimo motivo, l’Avv. Dinoia censura la sentenza impugnata per mancanza ed illogicità della motivazione, in ordine alla commisurazione della pena ed alla omessa concessione di attenuanti generiche. Il difensore segnala che la fissazione della nuova pena base, tenendo conto della parziale assoluzione pronunciata per il reato associativo, risulta da mere clausole di stile, quando invece alla notevole riduzione della permanenza del reato quanto al B. (dal 2001 al settembre 2005, piuttosto che al febbraio 2008 come inizialmente contestato), non aveva fatto seguito una proporzionale riduzione della pena posta a base del computo (anni 3 di reclusione in primo grado, anni 2 e mesi 2 per i giudici di appello).

Scorretta sarebbe altresì la negazione all’imputato delle circostanze ex art. 62 bis c.p. in virtù del “precedente penale per la vicenda corruttiva”, essendosi trattato di un aspetto della stessa vicenda, per quanto separatamente giudicato, e non già di un precedente in senso tecnico; altrettanto insoddisfacente dovrebbe ritenersi il richiamo alle ragioni utilizzate dalla Corte per escludere la concedibilità delle circostanze attenuanti in parola al M., atteso che “la valutazione circa la meritevolezza delle generiche è per definizione una valutazione legata alla posizione del singolo ed alle sue caratteristiche soggettive”, tanto più che al coimputato era stato addebitato il ruolo di vertice del sodalizio criminoso e di ideatore delle operazioni illecite.

5.14 Infine, il difensore del B. segnala manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui risulta avere confermato le statuizioni civili sulla determinazione della provvisionale malgrado l’intervenuto ridimensionamento delle responsabilità dell’imputato per essere stata esclusa la sua partecipazione alle attività del gruppo dopo il settembre 2005.

6. Propone ricorso per Cassazione anche l’ulteriore difensore del B., Avv. Alberto Paone.

6.1 Con il primo motivo, la difesa lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 429 c.p.p. in ordine al rigetto di una eccezione di nullità del decreto che dispone il giudizio.

Analogamente a quanto sostenuto dalla difesa del M., il ricorrente lamenta genericità e indeterminatezza dei capi d’imputazione, laddove non risulta alcuna contestazione in forma chiara e precisa nè con riguardo al reato associativo (visto che il B. viene indicato come “socio di riferimento” del gruppo Mythos, senza alcuna specificazione di come debba essere intesa l’espressione o descrizioni del contributo offerto dall’imputato all’interno del presunto sodalizio), nè a proposito degli ipotizzati reati fine (dove il B. risulterebbe “responsabile in seno al gruppo Mythos della organizzazione e della gestione finanziaria, economica e fiscale delle società”, dicitura parimenti non meglio esplicitata in concreto, al pari di quella, altrimenti utilizzata, di legale rappresentante di società del gruppo medesimo non esattamente evidenziate), nè quanto alle contestate ipotesi di truffa e corruzione (in cui l’imputato viene descritto come rappresentante legale, amministratore di fatto o professionista apicale).

6.2 Con il secondo motivo si rappresenta violazione ed erronea applicazione degli artt. 191, 253, 359 e 360 c.p.p., quanto alla produzione ad opera del Pubblico Ministero di e-mail tratte dal server della Mythos, acquisite a seguito di accertamenti tecnici non ripetibili.

La difesa segnala che a seguito di decreto di sequestro emesso dal Procuratore della Repubblica di Milano vennero acquisite copie di back-up di tutti i documenti contenuti nel sistema informatico del gruppo Mythos, successivamente riprodotti mediante attività tecnica delegata a consulenti appositamente nominati: tale attività, formalmente disposta nelle forme degli accertamenti tecnici ripetibili, in realtà si sarebbe rivelata non ripetibile, con la conseguente violazione delle forme del contraddittorio nei confronti degli imputati, non possibilitati a prendervi parte (all’epoca, quanto alla specifica posizione del B., egli non risultava neppure sottoposto a indagini). L’ordinanza con cui il Tribunale risulta avere rigettato l’eccezione di inutilizzabilità tempestivamente avanzata dalla difesa, basata sulla circostanza che quei supporti informatici sarebbero stati forniti dagli imputati, meriterebbe censura essendovi stato travisamento delle evidenze del processo, fra l’altro dovendosi dare atto che il back-up come sopra acquisito – malgrado il decreto di sequestro presupposto – non risulta mai essere stato versato agli atti quale corpo del reato.

6.3 Il terzo motivo del ricorso a firma dell’Avv. Paone è dedicato alla censura della decisione in ordine alla utilizzabilità della testimonianza resa da L.S., profilo per cui la difesa lamenta violazione ed erronea applicazione degliartt. 191, 187, 190, 194 e 495 c.p.p., e correlata mancanza di motivazione circa l’appello specificamente proposto sul punto in esame.

Il B. aveva infatti impugnato la sentenza di primo grado circa la ritualità delle domande poste dal P.M. al teste L., che riguardavano un presunto episodio di corruzione del settembre 2005, da considerare già coperto da giudicato; già all’atto dell’istruttoria dibattimentale era stata sollevata un’eccezione difensiva, rigettata peraltro dal Tribunale in quanto nel presente processo sarebbe stato contestato un episodio di corruzione differente, e che l’addebito di reato associativo avrebbe comunque legittimato la proposizione delle domande in questione. Nell’atto di appello veniva evidenziato che tra i reati-fine dell’associazione non vi era alcun riferimento allo specifico episodio che aveva visto protagonista il L. (vi era solo il caso della presunta corruzione di A.D.) e che contestare ancora al B. quel reato già giudicato, sia pure al fine di contestargli in concreto un reato diverso, aveva comportato la violazione del divieto di sottoporre l’imputato a nuovo procedimento penale per il medesimo fatto.

Sul punto, la Corte di appello di Milano non avrebbe offerto alcuna motivazione, lasciando pertanto senza risposta il profilo di gravame.

6.4 Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione ed erronea applicazione dell’art. 495 c.p.p., nonchè omessa e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata quanto al motivo di appello concernente la riduzione della lista testimoniale presentata nell’interesse del B., giacchè ritenuta sovrabbondante.

La difesa rappresenta di avere a suo tempo proposto appello anche avverso l’ordinanza del 25/06/2010, con la quale il Tribunale di Milano – dopo che la lista testimoniale del B. era già stata ridotta su iniziativa della stessa difesa – aveva drasticamente e ulteriormente ridotto detta lista, anche con riferimento a testimoni che avrebbero dovuto riferire circostanze fondamentali, puntualmente evidenziati.

La Corte di appello, parimenti a quanto segnalato nel motivo di ricorso precedente, non avrebbe fornito alcuna risposta al motivo di gravame appena illustrato: in concreto, avrebbe potuto dirsi inutile motivare sulla esclusione dei testi chiamati a deporre sulla partecipazione del B. alle attività del gruppo dopo il settembre 2005 (essendo intervenuta assoluzione dell’imputato in parte qua, almeno in ordine alla partecipazione posteriore del B. al reato associativo), ma non altrettanto su tutti gli altri.

6.5 Con il quinto motivo, si lamenta violazione ed erronea applicazione dell’art. 416 c.p., artt. 187, 192 e 533 c.p.p., per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, nonchè travisamento della prova.

Nell’interesse del B. si evidenzia che gli elementi ritenuti decisivi dai giudici di merito in punto di ritenuta sussistenza del reato associativo appaiono in realtà inconferenti e non adeguatamente specificati: di stabili contatti con funzionari di banca o addetti ad uffici finanziari sarebbe infatti stato normale trovarne, all’interno del gruppo ed in ragione dell’attività svolta (e comunque non risultano individuati i soggetti con cui quei contatti sarebbero intercorsi); la predisposizione di fogli di calcolo da utilizzare in forma seriale appare normale modus operandi per attività comunque ripetitive; la pluralità dei reati che si assumono commessi in esecuzione del programma appare elemento neutro, dovendosi comunque raggiungere la prova di un reato per strade diverse rispetto al mero richiamo di altri reati parimenti da provare; la metodica del ricorso a periti compiacenti sarebbe espressa in termini generici.

Al contrario, secondo l’assunto difensivo plurimi dati testimoniali convergerebbero nell’evidenziare che all’interno del gruppo Mythos esisteva una struttura piatta e non piramidale, avente dunque caratteristiche ex se non compatibili con l’assunto di una presupposta organizzazione con divisione di compiti, finalizzata a commettere delitti. Parimenti, numerose testimonianze danno contezza del fatto che il B. non aveva alcuna funzione di concreta gestione delle società del gruppo, come peraltro aveva sostanzialmente ammesso lo stesso M. rendendo interrogatorio.

6.6 Il sesto motivo si riferisce alle norme di cui all’art. 110 c.p., e al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2, 3, 8 e 10 quater delle quali si segnala inosservanza ed erronea applicazione in ordine alla ritenuta responsabilità del B. per i presunti reati-fine dell’associazione. Il ricorrente, che a riguardo deduce altresì mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, asserisce che quelli in tema di violazioni fiscali debbono considerarsi reati propri, da imputare a chi sottoscrive e presenta la dichiarazione, a chi emette o rilascia la fattura, a chi non versa le somme dovute utilizzando crediti in compensazione che in realtà non sarebbero di spettanza: tutte figure che il B. non ha mai assunto, dovendosi pertanto ritenere un extraneus (senza che risulti altrimenti dimostrato il suo concorso con qualsivoglia intraneus).

L’illogicità della motivazione della sentenza di condanna a carico dell’imputato sarebbe altresì resa manifesta dalla circostanza che, pronunciata la sua assoluzione limitatamente alla partecipazione al reato associativo in epoca successiva al suo arresto del settembre 2005 (per la vicenda della corruzione L., sopra ricordata), egli risulta comunque essere stato ritenuto responsabile per alcuni reati di carattere fiscale commessi dopo quella data.

6.7 Con il settimo motivo di ricorso si deducono carenze motivazionali della sentenza impugnata quanto al ritenuto carattere evasivo, invece che meramente elusivo, delle operazioni contestate all’imputato.

In sede di motivi di appello, la difesa aveva puntualmente evidenziato che gli elementi di accusa non erano stati tratti da documenti segreti, contabilità parallele od altre risultanze riservate, bensì da quanto esposto alla luce del sole nelle scritture del gruppo Mythos: ciò avrebbe dovuto dare chiara contezza dell’impossibilità di considerare fittizie le operazioni contestate, come del resto già emerso in sede di verifica fiscale, con valutazioni compiute da personale direttivo dell’Agenzia delle Entrate. La Corte territoriale avrebbe perciò errato nel non considerare decisiva detta circostanza, nè avrebbe dato alcun rilievo al possibile e ragionevole affidamento, da parte di chi si fosse trovato a collaborare nelle attività del gruppo, sulla conformità alla legge di operazioni niente affatto occultate o mascherate. Non appare altresì condivisibile, secondo la difesa, l’assunto dei giudici di merito secondo cui potrebbero comunque esistere operazioni elusive con rilevanza penale.

6.8 Con l’ottavo motivo si rappresenta mancanza ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità del B. quanto ai reati sub E-1), E-3) ed E- 3bis).

Il motivo presenta contenuto identico, in sintesi, rispetto ai profili di doglianza già esposti sull’operazione Mo. da parte del codifensore nel ricorso esaminato al punto precedente.

6.9 Con il nono motivo, l’Avv. Paone segnala contraddittorietà ed illogicità della motivazione, nonchè travisamento della prova, nella parte in cui viene descritto il ruolo che il B. avrebbe assunto nella realizzazione dei presunti reati-fine del sodalizio.

Anche in questo caso il motivo riproduce le deduzioni esposte dal codifensore, nel proprio ricorso, a proposito dell’impossibilità di considerare il B. quale ideatore delle operazioni sottese alle violazioni tributarie, essendo stato contemporaneamente affermato in sentenza che non vi sarebbe prova della sua partecipazione a tutte le operazioni dell’area fiscale.

6.10 Con il decimo motivo viene dedotta violazione dell’art. 521 c.p.p., ed omessa motivazione, quanto alla intervenuta riqualificazione degli addebiti di truffa ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater; le doglianze sono sovrapponibili a quelle avanzate dall’Avv. Dinoia nel nono motivo di cui al proprio ricorso.

7. Propone ricorso per Cassazione, articolato in tre motivi, anche il difensore di Br.Ca..

7.1 Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 521 c.p.p., per mancata correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, nonchè carenza di motivazione. La difesa lamenta che, in relazione ai capi G2) ed H2), inizialmente qualificati ai sensi dell’art. 640 c.p., la rubrica non consentirebbe in alcun modo di chiarire se debba intendersi superata la soglia quantitativa necessaria per la configurabilità delle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10 bis e 10 ter; anche per tale motivo, posti dinanzi al rapporto fra il delitto di truffa ed il reato di frode fiscale, anche alla luce delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito avrebbero ritenuto sussistente il secondo “aggiungendo, nella ricostruzione del fatto-reato accertato, elementi fattuali non compresi nell’imputazione”. L’identico profilo di doglianza già avanzato con l’atto di appello non sarebbe stato in alcun modo esaminato dalla Corte territoriale.

7.2 Con il secondo motivo, il difensore del Br. deduce inosservanza ed erronea applicazione delle norme incriminatrici contestate al proprio assistito e contemplate dal ricordato D.Lgs. n. 74, nonchè carenze motivazionali. Premesse alcune considerazioni definitorie, osserva – al pari di quanto segnalato nell’interesse dei coimputati in ordine al rapporto fra evasione ed elusione fiscale – che le operazioni sottese ai negozi giuridici oggetto dei vari addebiti in rubrica furono effettive e corrispondenti al vero, perciò “l’avere ritenuto che le operazioni oggetto dell’imputazione a carico del ricorrente siano state penalmente rilevanti, pur non essendo fittizie, costituisce grave violazione della norma applicata”.

7.3 L’ultimo motivo, correlato ai precedenti, ha per oggetto il vizio di inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater relativamente ai capi G2) ed H2) già ricordati. La difesa, che lamenta anche mancanza e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, sostiene che le presunte frodi contestate al Br. si assumono commesse prima dell’entrata in vigore della norma di cui al citato art. 10 quater, che – stando anche a quanto ritenuto dalle stesse Sezioni Unite di questa Corte – non sanziona condotte già rientranti nella portata applicativa dell’art. 640 c.p., bensì descrive una nuova previsione incriminatrice; ergo, la Corte di appello di Milano avrebbe errato nel ritenere che la norma speciale fosse più favorevole rispetto al precetto sanzionatorio della truffa (posto a tutela di interessi diversi da quelli tributari), venendo invece ad applicare “una pena per una condotta che, al momento della commissione del fatto, non era prevista come reato nè era punita da alcuna norma penale”.

8. Nell’interesse di G.M. viene presentato ricorso a firma dei di lui difensori.

8.1 Con il primo motivo, viene riproposta una eccezione di inutilizzabilità degli atti non allegati alla richiesta di rinvio a giudizio, in particolare riguardo a due relazioni di consulenza tecnica su dati informatici acquisiti a seguito di un decreto di sequestro del P.M. milanese del 13/12/2005. Ricostruita la successione cronologica dei vari provvedimenti e delle conseguenti attività svolte nel corso delle indagini preliminari sul materiale in questione, i difensori del G. fanno presente che dall’esame in dibattimento di uno dei consulenti sarebbe emersa la circostanza della consegna alla polizia giudiziaria di 61 cd-rom, su cui gli inquirenti avrebbero poi svolto accertamenti selezionando il contenuto da allegare alle varie informative, senza che però quei supporti fossero mai stati messi a disposizione delle difese.

Risulterebbe dunque erronea la motivazione adottata dalla Corte di appello per disattendere l’eccezione, avendo quei giudici rilevato che le parti avrebbero sempre avuto a disposizione il materiale informativo, consultabile con programmi di comune utilizzo: un conto è infatti la copia di back-up del server del gruppo Mythos, altra cosa le operazioni di consulenza tecnica. L’eccezione viene spiegata anche con riguardo agli esami testimoniali o degli imputati che a quelle relazioni possano aver fatto riferimento.

8.2 Con il secondo motivo, i difensori del G. deducono violazione degli artt. 192, 530 e 533 del codice di rito, nonchè mancanza ed illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta configurabilità del reato associativo.

Nel ricorso si segnala che, a dispetto dell’affermazione dell’esistenza di una “struttura parallela”, volta a commettere una serie indeterminata di reati di natura fiscale all’interno di una regolare attività d’impresa del gruppo, appare illogico ritenere membro di tale sodalizio chi era comunque estraneo all’area fiscale del gruppo Mythos (come appunto il G.), mentre ad altri soggetti che vi prestavano stabilmente la loro opera, anche a proposito delle operazioni societarie descritte nei capi d’imputazione, non verrebbe addebitato alcunchè. Situazione resa ancor più evidente dalla circostanza della intervenuta assoluzione del G. dai vari reati-fine a lui addebitati, avendo già il Tribunale di Milano “ritenuto non sussistente l’imprescindibile elemento soggettivo in relazione alle ipotesi di frode fiscale asseritamente commesse dall’associazione, conformemente del resto alle stesse richieste del P.M. (della cui requisitoria dinanzi ai giudici di primo grado vengono riportati alcuni passi, laddove si dava atto che la posizione del G. usciva dal processo “fortemente ridimensionata”).

A seguito della condanna dell’imputato – comunque assolto dai presunti reati-fine – per il solo reato associativo, la difesa aveva evidenziato nei motivi di appello che il G. non aveva mai usufruito di alcun credito di imposta, a differenza degli altri presunti appartenenti alla consorteria criminale, nè si era mai avvalso del meccanismo del manfee per abbattere il carico fiscale;

egli era anche l’unico a non aver mai posseduto quote o rivestito cariche nelle società che avevano utilizzato quei sistemi od avevano comunque “beneficiato del sistema asseritamente elusivo-evasivo”.

Tuttavia, la Corte territoriale aveva tenuto ferma la declaratoria di penale responsabilità, in termini apodittici e senza concretamente esaminare le ragioni di doglianza.

8.3 Con il terzo motivo, si lamenta ancora violazione degli artt. 192, 530 e 533 c.p.p., ed omessa ovvero illogica motivazione in punto di affermazione della sussistenza in capo al G. dell’elemento psicologico del delitto ex art. 416 c.p..

Premesso che elemento fondante la decisione, da parte dei giudici di merito, sarebbe quello della centralità del ricorso a perizie di comodo, all’interno della struttura della Mythos, strumentali alla funzionalità della “struttura parallela” sopra delineata, e che il ruolo del G. sarebbe stato quello di capo dell’area aziendale ove quelle perizie venivano commissionate ed alla quale le stesse confluivano, i difensori dell’imputato osservano che la presunta associazione per delinquere sorgerebbe – stando alla rubrica – nel 2001, ma nella sentenza del Tribunale di Milano viene dato atto che il gruppo si avvaleva di perizie siffatte almeno dal 1997. Già da tale constatazione i giudici di primo grado, e quelli di appello che ne avevano recepito le argomentazioni, avrebbero però dovuto trarre spunto per inferirne che quella metodologia di lavoro non poteva considerarsi indicativa del venire in essere del sodalizio.

Inoltre, stando alla lettera del capo G2), che secondo la difesa riguarderebbe proprio la condotta contestata in concreto al G., di perizie vere o false non si parla affatto (tant’è che nel corso dell’istruttoria dibattimentale era emerso che il valore sotteso all’operazione de qua era stato fissato dallo stesso M., senza ricorrere ad esperti di sorta): e, quanto alla generalità delle operazioni straordinarie contestate, laddove era stato necessario valutare avviamenti o plusvalenze, non era stato parimenti necessario acquisire alcuna perizia, essendo quelle coinvolte per lo più società di persone, e non già di capitali.

Il vizio della sentenza impugnata deriverebbe pertanto dal rilievo che “sarebbe stato necessario esplicitare nella motivazione in modo logico e coerente su quali basi fosse possibile dimostrare la partecipazione di G. al reato associativo. Se, dall’istruttoria dibattimentale, era emerso che le perizie non avevano avuto alcuna influenza nelle operazioni illecite contestate e se, nella predisposizione dei prodotti fiscali illeciti, per esplicito dictum del Tribunale che lo ha assolto per tutti i reati fine contestati, il G. non aveva avuto contezza del fine delle perizie, nè aveva percepito alcun tipo di utile o di vantaggio fiscale, era necessario comprendere in concreto, al di là di ogni ragionevole dubbio, in cosa sarebbe consistito il suo concreto apporto alla vita dell’associazione”.

Del resto, sempre secondo l’assunto della difesa, l’istruttoria dibattimentale aveva fatto emergere che le attività correlate alla predisposizione delle perizie costituiva una parte del tutto marginale nell’ambito delle varie incombenze dell’area aziendale della Mythos; nè poteva considerarsi dirimente il contenuto di una sola e-mail, citata dal Tribunale e richiamata anche nella sentenza della Corte, di cui il G. era stato destinatario, peraltro da riferire ad un’operazione mai contestata, dalla quale poter arguire soltanto che l’imputato era a conoscenza “della procedura di lavoro in essere, nella struttura lecita, da svariati anni”.

8.4 Con il quarto motivo, i difensori dell’imputato rappresentano inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 2343 e 2465 c.c., non essendo comunque stato indicato quali specifiche perizie sarebbero state strumentali al perseguimento dei fini illeciti del sodalizio, nè essendo stato dimostrato – al di là della circostanza che gli elaborati venivano curati all’interno della Mythos per poi essere sottoposti ad un perito esterno ai fini dell’asseverazione – che i dati ivi riportati fossero davvero falsi, o che non fossero stati rispettati i canoni legali per la valutazione di conferimenti:

peraltro, come parimenti emerso nel dibattimento di primo grado, lo stesso codice deontologico dei dottori commercialisti non esclude la possibilità del cliente o di terzi di partecipare attivamente alla stesura della perizia.

8.5 Il quinto motivo di ricorso riguarda la mancata declaratoria di prescrizione del reato addebitato al G., già maturata alla data della sentenza di appello, atteso che la sua partecipazione alla ipotizzata associazione avrebbe dovuto comunque collocarsi non oltre il 2002 o 2003, anni a cui risalivano le operazioni di dividend washing realizzate (secondo l’accusa) anche attraverso l’utilizzo di perizie; ciò anche perchè analogo criterio, in ragione delle peculiarità dei delitti di frode fiscale, era stato osservato per la posizione del coimputato B., assolto quanto al periodo successivo a quello per cui poteva intendersi dimostrato un suo contributo.

8.6 Con il sesto ed ultimo motivo, la difesa del G. lamenta carenza di motivazione quanto alla determinazione del trattamento sanzionatorio e dell’entità del risarcimento del danno in favore della parte civile costituita. Nell’interesse del ricorrente si fa presente che non è stato tenuto conto della sua pregressa incensuratezza e del suo ruolo subordinato all’interno dell’ipotizzata associazione, come pure della assenza di vantaggi economici per l’imputato dalle operazioni contestate. L’ammontare del danno sarebbe poi stato immotivatamente fissato in Euro 300.000,00, pur essendo il G. stato assolto da qualunque reato-fine, nè risulterebbero risposte ai motivi di appello formulati in punto di necessità di una diversa valutazione della componente non patrimoniale.

9. Anche il difensore di A.D. propone ricorso, sviluppando tre motivi.

9.1 Con il primo motivo, il ricorrente lamenta inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 318, 320, 357 e 358 c.p., nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alla attribuzione nei suoi confronti della qualità di pubblico ufficiale.

Secondo la difesa, pur essendo incontestabile che l’ A. fosse un dipendente della Esatri Esazione Tributi S.p.a., ente privato concessionario di un pubblico servizio, non risulta corretta l’affermazione dei giudici di merito che lo definisce “esattore”, o quanto meno deve ritenersi che quella veste non sia stata dimostrata, visto che certamente non sarebbe possibile sostenere che dovesse riconoscersi a qualunque dipendente della menzionata società.

Richiamata la normativa sulla regolamentazione del personale addetto ai servizi di riscossione (D.Lgs. n. 112 del 1999), la tesi difensiva è che l’ A. non fosse un ufficiale esattoriale, visto che non aveva mai sostenuto il prescritto esame di abilitazione nè era mai stato investito delle corrispondenti incombenze; nè poteva definirsi un messo notificatore, altra figura professionale involgente potenziali attività di rilievo pubblicistico: egli era semplicemente “addetto in via esclusiva allo sportello relativo ai rimborsi in conto fiscale” e svolgeva in concreto quella sola attività, come confermato anche dall’istruttoria dibattimentale di cui al giudizio di primo grado.

Ne deriverebbe, pertanto, che all’imputato fosse richiesto soltanto di fornire informazioni al pubblico all’atto della presentazione delle istanze, di ricevere le domande con i documenti allegati e di inserire le stesse nel sistema informatico, senza dover quietanzare alcunchè o curare altre attività di rilevanza esterna. Situazioni di fatto sovrapponibili a quelle di altre figure già esaminate dalla giurisprudenza di legittimità, con l’esclusione della attribuibilità della veste di pubblici ufficiali: il ricorrente richiama in proposito varie pronunce di questa Corte, giungendo alla conclusione che all’ A. potesse forse riconoscersi la qualità di incaricato di pubblico servizio, inidonea – non essendo egli al contempo pubblico impiegato – a rendere configurabile a suo carico il delitto di corruzione impropria.

La difesa si duole comunque della mancata analisi dei temi prospettati, che costituivano già oggetto di specifici motivi di appello.

9.2 Con il secondo motivo, si rappresenta violazione dell’art. 192 del codice di rito, nonchè carenze, contraddittorietà e manifeste illogicità motivazionali in punto di ritenuta sussistenza dell’elemento materiale del delitto contestato.

Sostiene la difesa che le prove orali acquisite nel dibattimento non suffragherebbero la tesi accolta dai giudici di merito, in base alla quale l’ A. si sarebbe messo stabilmente a disposizione della Myhtos, chiamando il centro operativo di Pescara per accelerare i rimborsi spettanti a quella società: a riguardo, vengono riportate le dichiarazioni rese dal M., dal B., dallo Z. e – per esteso – dallo stesso responsabile del centro abruzzese, come pure quelle del direttore della Esatri e della collega dell’imputato allo sportello. Altrettanto erroneamente la Corte territoriale avrebbe affermato che l’ A. era stato autore di numerosi messaggi di posta elettronica, che invece non risulterebbero in atti; nè la sua posizione presso la Esatri avrebbe potuto comunque consentirgli di svolgere un ruolo attivo per sbloccare o rendere più veloci le istanze di rimborso, potendo al massimo l’addetto allo sportello comunicare agli interessati lo stato delle pratiche (la stessa società in generale non aveva alcuna possibilità di agevolazione, tant’è che quando i vertici della Mythos avevano avuto necessità di un intervento diretto si erano rivolti a funzionari dell’Agenzia delle Entrate).

Ergo, sarebbe illogico l’assunto della Corte di appello nel ritenere che l’ A. avesse mantenuto con la Mythos, ed in particolare con lo Z., un rapporto informativo connotato da una sorta di esclusività, dovendo sostanzialmente riservare quello stesso trattamento – verificare al terminale lo stato della procedura e comunicarlo al contribuente che gliene faceva richiesta – a tutti gli utenti.

9.3 Con il terzo ed ultimo motivo, vengono svolte analoghe censure invocando inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 43 c.p., sul piano dell’elemento soggettivo del reato di corruzione impropria addebitato all’ A..

Infatti, come cristallizzato nelle numerose deposizioni, e tenendo conto del rapporto assolutamente fisiologico intrattenuto con lo Z., cui aveva “continuamente manifestato l’assenza di alcun potere di influire sulla procedura di rimborso …, non risulta provato che lo stesso A. avesse consapevolezza di formare o manifestare – con la propria attività di dipendente Esatri addetto alla procedura di rimborso in conto fiscale – la volontà della pubblica amministrazione, ovvero di prestare un servizio disciplinato nelle stesse forme della pubblica funzione”. Nè risulta che l’ A. potesse essersi prefigurato “che il semplice espletamento della propria attività di sportellista avrebbe precostituito come risultato la dazione dell’ormai tristemente famoso orologio”.

10. Il 05/07/2012 l’Avv. Luca Marafioti ha depositato una nota in Cancelleria sviluppando un motivo aggiunto di ricorso nell’interesse del G..

Il difensore dell’imputato lamenta, come già con il secondo degli originari motivi, violazione degli artt. 192, 530 e 533 del codice di rito, nonchè mancanza ed illogicità della motivazione in punto di affermazione della sussistenza del reato associativo. Ribadito che il G. risulta essere stato assolto da tutti i reati-fine del presunto sodalizio, che non sarebbero stati provati contatti fra lui ed i clienti del gruppo Mythos che avevano beneficiato delle operazioni societarie contestate, nè vantaggi fiscali che egli stesso avrebbe conseguito, si tornano a censurare le argomentazioni adottate dai giudici di merito circa la rilevanza penale della condotta dell’imputato solo in quanto responsabile dell’area aziendale all’interno della quale venivano predisposte le perizie contenenti valutazioni di comodo sui cespiti oggetto delle operazioni anzidette.

In particolare, la difesa osserva che in nessuna delle operazioni descritte nei capi di imputazione sui singoli reati-fine risultano essere state utilizzate perizie di sorta, vere o false che fossero: a tal proposito, richiama il contenuto della testimonianza resa da un ufficiale della Guardia di Finanza nel corso del dibattimento di primo grado, allegandone la relativa trascrizione.

11. L’Avv. Dinoia, difensore di B.G., ha depositato memoria in data 13/07/2012.

11.1 Premesse alcune considerazioni di ordine generali sui vizi della motivazione in ragione di carenze, contraddittorietà o manifeste illogicità, il difensore individua specifiche omissioni nel percorso argomentativo della sentenza impugnata (anche se ragguagliato con il contenuto della decisione di primo grado, e malgrado i ripetuti rinvii per relationem) in punto di valutazione della sussistenza in capo al B. dell’elemento soggettivo necessario per ritenere configurabili i reati contestati. Ciò perchè appare assodato, all’esito delle acquisizioni istruttorie, che le operazioni contestate in rubrica erano state ideate e realizzate da altri, nell’ambito di una attività di impresa già consolidata: e non potrebbe ammettersi ipso facto, soprattutto tenendo conto che era stata provata la circostanza del distacco del B. dall’area tecnico-fiscale del gruppo, per rivolgere altrove i propri interessi professionali, che l’imputato vi avesse in qualche modo partecipato o contribuito consapevolmente.

Escluso dunque, in sostanza, che il ruolo del B. fosse parificabile a quello del M., la ricerca degli elementi da cui inferire quella partecipazione e quel contributo avrebbe dovuto essere puntuale e rigorosa, giammai ridotta alla mera presa d’atto di un suo presunto ruolo di vertice all’interno dell’impresa: ricerca, tuttavia, che la difesa reputa essere stata del tutto omessa, e che anzi appare elusa in termini apodittici e contraddittori laddove la Corte di appello (disattendendo le osservazioni del Tribunale, che avevano comunque affermato il contrario) risulta avere attribuito al B. il ruolo di “vero ideatore del sistema fiscale”, al pari del M..

11.2 Analogamente, la Corte non avrebbe colto il senso dei motivi di appello presentati avverso la pronuncia dei giudici di prime cure che, confinato l’ambito cronologico di partecipazione dell’imputato al sodalizio criminoso nel periodo antecedente il 29/09/2005, non avevano coerentemente assolto il B. da tutti i reati fine assunti come commessi in data successiva a quella: la censura non riguardava soltanto il reato sub B17), all’interno del quale vi erano fatti successivi al settembre 2005 per cui si rendeva doverosa l’adozione di una formula liberatoria per il prevenuto (disposta dalla Corte territoriale), ma anche altre contestazioni, come ad esempio quanto ai reati di cui ai capi B9) e B16), ad alcuni degli addebiti sub E), ecc..

11.3 Secondo l’Avv. Dinoia, inoltre, in ordine alle operazioni di c.d. dividend washing 1, descritte nei capi sub G), sarebbe stato possibile individuare un possibile contributo materiale del B., ma non altrettanto potrebbe dirsi per quelle di dividend washing 2, di cui ai capi H), dove non emergono interventi di sorta da parte dell’imputato: le carenze motivazionali della pronuncia riguarderebbero dunque, in parte qua, anche l’elemento materiale.

11.4 Il difensore riproduce quindi le censure svolte relativamente alla presunta successione di leggi penali che secondo la Corte di appello di Milano si sarebbe registrata tra le fattispecie astratte di truffa e quelle (ritenute più favorevoli) sanzionate dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater: al contrario, “essendosi i fatti risolti nel mero inserimento in dichiarazione di un credito di imposta (in ipotesi di accusa, inesistente), che aveva finito col ridurre il quantum delle imposte versate autonomamente dai dichiaranti (spessissimo addirittura prima della presentazione della dichiarazione), difettava qualsivoglia induzione in errore dell’Erario, a maggior ragione una induzione in errore causalmente rilevante su un atto di disposizione patrimoniale, negativo o positivo, che non era mai esistito”. A riguardo, nella memoria difensiva si segnala la non pertinenza al caso di specie di una pronuncia di legittimità già richiamata nel nono degli originari motivi di ricorso (Cass., Sez. 2^, n. 35968 del 20/05/2009, Cecconi, menzionata anche dalla Corte territoriale); viene invece riprodotto un passaggio della motivazione della sentenza della Sezione Seconda di questa Corte n. 7739 del 29/02/2012, sopra ricordata, a conferma dell’interpretazione suggerita.

11.5 Con riferimento alla operazione c.d. “prestito Moretti”, di cui ai capi sub E), la difesa del B. torna a lamentare che erroneamente sarebbero state ricondotte alle previsioni del D.Lgs. n. 74, artt. 2 e 8 tutte le fatturazioni relative ai passaggi intermedi fra il primo e l’ultimo, avvenuti sempre a saldo zero e dunque inidonei a produrre ricchezza sottratta alla ipotizzata, doverosa imposizione (quando invece le norme appena richiamate “non sanzionano qualsivoglia emissione/registrazione di fatture per operazioni inesistenti, ma solo quelle finalizzate ad un’evasione di imposta”).

11.6 Inoltre, parimenti erronea sarebbe stata la sentenza di condanna, pronunciata anche nei confronti dell’imputato perchè responsabile sia dell’emissione che della registrazione delle fatture de quibus, in violazione dell’art. 9 dello stesso D.Lgs. Al fine ora indicato, vengono richiamati ancor una volta i principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 27 del 2000.

11.7 Da ultimo, l’Avv. Dinoia segnala l’intervenuta prescrizione di alcuni dei reati per cui è intervenuta la condanna del B., ferma restando la necessità di considerare l’imputato estraneo – per le ragioni sopra evidenziate – a tutti i fatti risalenti a data successiva al 29/09/2005.

12. In data 27/09/2012 è stata depositata anche nell’interesse del M. una memoria difensiva, con la quale vengono sviluppati alcuni dei punti già trattati nei motivi di ricorso.

12.1 Con riguardo ai temi di cui al sesto motivo, si rappresenta che:

– l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato sarebbe conseguenza di un grave travisamento della legge tributaria, penale ed extrapenale, interpretata in termini contrastanti anche rispetto ai principi del diritto comunitario;

– la condanna del M. costituirebbe “illecito comunitario dello Stato italiano e violazione degli obblighi internazionali dello Stato italiano, con tutte le conseguenze legalmente previste”;

– nelle fattispecie concrete contestate al ricorrente non vi è traccia di frode, secondo la nozione più volte affermata dalla giurisprudenza (da ultimo, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 1235 del 19/01/2011);

– non può intendersi condotta criminosa risparmiare i tributi, neppure “attraverso costruzioni ingegnose che profittino delle maglie lasciate aperte dalla formulazione della legge fiscale …, costruite al solo scopo di ottenere tale risparmio (senza altra giustificazione economica), se non si ricorre a simulazioni, finzioni, false rappresentazioni, inganni”;

– nei casi di frode fiscale, penalmente rilevanti, si ricorre a documenti falsi od interposizioni fittizie di soggetti per far apparire situazioni giuridiche difformi dalla realtà, mentre nei casi di semplice elusione “si realizzano effettivamente effetti giuridici, con operazioni reali (con soggetti compiacenti o collegati), sostenute dal solo scopo di ottenere un regime tributario favorevole”, tanto che il vantaggio fiscale che ne deriva consegue proprio dalla circostanza che l’operazione non è finta;

– così, nei casi di dividend washing “il credito di imposta, le minusvalenze e il regime agevolato delle plusvalenze dipendono dal fatto che le operazioni di compravendita dei titoli sono effettive e reali …; si effettua alla luce del sole una operazione vera, vantaggiosa, eventualmente realizzata solo perchè fiscalmente vantaggiosa. Essa può essere priva di giustificazione diversa dal vantaggio fiscale, ma non è inesistente e non è fraudolenta”;

– la sentenza impugnata, erroneamente interpretando la legge penale, “sistematicamente descrive come fittizie, fraudolente o inesistenti operazioni che essa stessa si dilunga a dimostrare essere state poste in essere al solo scopo di risparmiare tributi”, nel senso che attribuisce “fittizietà (qualificandole come tali) a condotte che essa stessa (e già i capi di imputazione) descrive (non come false, ma) come effettuate strumentalmente allo scopo di ottenere vantaggi tributari”;

– nella motivazione si legge, a riprova dell’evidente contraddittorietà, l’affermazione secondo cui condotte abusive meriterebbero sanzione in quanto, pur non essendo fraudolente in senso proprio, “potrebbero essere indizio di frodi”;

– la giurisprudenza di legittimità, anche nelle enunciazioni di maggior rigore come ad esempio con la sentenza della Sezione 2^, n. 7739 del 28/02/2012, esclude che un’operazione posta in essere al fine di perseguire vantaggi fiscali possa qualificarsi fraudolenta, ipotizzando al più il diverso reato – qui non contestato – di dichiarazione infedele.

12.2 A proposito di quanto già lamentato con il settimo motivo di ricorso, la difesa del M. aggiunge che:

– a sostegno della presunta inesistenza delle operazioni contestate la sentenza ricorre alla “sistematica valorizzazione di massime di esperienza abnormi, irrilevanti, incongruenti e contraddittorie”;

– non assumono rilevanza logica le circostanze del controllo da parte del gruppo Mythos di numerose società, della denominazione seriale delle stesse, della coincidenza totale o parziale dei rispettivi amministratori o del ricorso alla compensazione come mezzo di pagamento;

– non vi era la necessità, per le società in argomento, di disporre di mezzi materiali o di lavoratori dipendenti, trattandosi di “soggetti di diritto svolgenti attività aventi ad oggetto beni immateriali o prestazioni di servizi immateriali, attraverso l’opera di professionisti con cui, volta a volta, sono stipulati contratti”;

– la pronuncia impugnata verrebbe invece a confondere “tra operazioni aventi ad oggetto beni immateriali e servizi ed operazioni inesistenti, ritenendo abnormemente indiziaria la mancanza di mezzi che, semplicemente, non servono per le attività svolte”;

– non risulta dimostrato che i valori proposti dal gruppo Mythos, e poi fatti propri dai professionisti che siglavano le cosiddette “perizie di comodo”, fossero incongrui;

– l’effettività dei negozi giuridici contestati come inesistenti o fraudolenti non può ritenersi esclusa in presenza di operazioni contrapposte di valore identico, che rimangono reali “sia che i due soggetti compensino crediti e debiti, sia che si facciano versamenti contestuali e simmetrici con moneta propria, sia che ricorrano a finanziamenti immediatamente restituiti dal sistema bancario”, a nulla rilevando il dato empirico della velocità di esecuzione di dette operazioni, caratteristica propria di qualunque transazione presso tutte le borse mondiali.

12.3 In ordine all’ottavo motivo di ricorso, la memoria sottolinea quanto segue:

– nelle condotte contestate, non può sussistere comunque il dolo di evasione, visto che detto fine si realizza soltanto “quando si emettono fatture false da società in perdita (che non pagheranno imposte) verso società in utile (che diminuiranno il reddito)”, situazione non riscontrabile nella fattispecie concreta;

– all’interno del gruppo Mythos vi erano società con perdite fiscali che avevano proceduto a rituale condono, per cui – se l’intento del M. e dei presunti sodali fosse stato quello di simulare costi inesistenti – sarebbe stato agevole far emettere fatture da quelle;

– nell’ambito di un gruppo societario, in ragione del consolidato fiscale, è lecito spostare l’imposta fra due soggetti, senza danno per l’Erario, quando “A deduca un costo inesistente e B paghi il tributo sul ricavo inesistente corrispondente”. – le stesse circolari dell’Amministrazione finanziaria, vigenti all’epoca dei fatti, indicavano che potessero considerarsi operazioni fittizie “solo quelle effettivamente non volute, e non quelle volute effettivamente e vantaggiose”.

12.4 Circa i temi di cui al nono motivo di ricorso, si rappresenta ancora inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3 non essendo stato adottato – in occasione delle operazioni indicate in rubrica – alcun mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento, al contrario risultando appostazioni in contabilità, complete della descrizione delle varie causali, suscettibili di facilitare i controlli.

12.5 Quanto al decimo motivo, la memoria difensiva depositata nell’interesse del M. si sofferma sulla già ricordata sentenza di questa Corte (Sezione Seconda, n. 7739 del 28/02/2012) secondo cui potrebbero ravvisarsi gli estremi di un reato tributario anche in presenza di una operazione effettiva, volta esclusivamente al risparmio fiscale, segnalando che in ogni caso la pronuncia in questione reputa astrattamente ipotizzabile solo il delitto di dichiarazione infedele o quello di omessa dichiarazione contemplati dal D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 5 non già fattispecie criminose connotate da frode come quelle qui contestate. Inoltre, perchè possano assumere rilevanza penale, tali condotte dovrebbero pur sempre rientrare nella previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis (c.d. “elusione codificata”), il che non è per i fatti di cui al presente processo, esempi di mero “abuso del diritto” e giammai presi in considerazione da specifiche disposizioni antielusive: a fortori, non potrebbe mai ritenersi sussistente il dolo richiesto dalle norme incriminatrici laddove le operazioni de quibus non risultino essere mai state contestate in precedenza dall’Amministrazione finanziaria.

Sul piano dell’elemento soggettivo, inoltre, sarebbe necessario provare che gli imputati fossero consapevoli “del fatto che l’imposta risparmiata attraverso l’operazione posta in essere era comunque dovuta, nonostante la manovra elusiva”; consapevolezza da escludere in radice, atteso che di quell’imposta si è ritenuta la debenza “solo successivamente ai fatti, per effetto della giurisprudenza delle Sezioni Unite Civili che hanno ritenuto disconoscibile l’abuso del diritto sulla base della giurisprudenza comunitaria”, mentre in precedenza “vigeva l’interpretazione ministeriale che riteneva le operazioni effettuate legittime anche ai limitati fini del recupero del tributo” (sul punto, la difesa richiama ancora una volta la circolare n. 87/E dell’Agenzia delle Entrate, datata 27/12/2002). E, se la giurisprudenza di legittimità esprime riserve sulla possibilità di un’applicazione retroattiva nei casi di mutamento di interpretazione di norme tributarie, già ai soli fini dell’imposizione del tributo, è innegabile che sia da escludere siffatta esegesi sfavorevole quando le norme in questione vengano ad integrare il precetto di fattispecie incriminatrici in materia penale.

12.6 In relazione a quanto già dedotto con il dodicesimo motivo di ricorso, concernente i capi G) ed H) della rubrica, nella memoria si rinnova la doglianza in punto di mancata assunzione di prova decisiva (la perizia sopra ricordata); si ribadisce quindi la “natura di arbitraggio fiscale del dividend washing, mirato a porre in essere operazioni reali con trattamento fiscale più favorevole”, in virtù della “presupposizione, in diritto, di un regime più favorevole per le plusvalenze (guadagni) provenienti dalla vendita di titoli di partecipazione rispetto alla tassazione dei dividendi contenuti nei titoli medesimi”; non sarebbe possibile ritenere la rilevanza penale di siffatte operazioni, in ragione di una presunta fittizietà degli utili distribuiti con i dividendi e di tutte le cessioni intermedie, ancora una volta perchè si tratta, al contrario, di operazioni effettive. Da un lato, si segnala che solo la cessione reale dei titoli consente di ottenere il vantaggio tributario; dall’altro, si evidenzia che i giudici di merito avrebbero errato nell’individuare il presunto vantaggio delle operazioni medesime, che non consiste “nella detrazione dei crediti di imposta o nella deduzione delle minusvalenze”, bensì “dalla tassazione legale a tassi inferiori delle plusvalenze” (osservazione che si attaglia anche alle ipotesi di dividend washing senza credito di imposta).

Da ultimo, si rappresenta l’insanabile contraddittorietà in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, che da un lato ha condannato gli imputati “a titolo di concorso nei delitti commessi dai clienti (per aver predisposto le operazioni tramite le società del gruppo ed i professionisti operanti per esse)”, e dall’altro ha affermato la “inesistenza della consulenza volta alla realizzazione di tali operazioni”.

12.7 Quali considerazioni conclusive, la difesa del M. censura la sentenza della Corte di appello di Milano anche in relazione ai dettami della giurisprudenza comunitaria, che già in sentenze del 2006 afferma la necessità di un fondamento normativo per ritenere sanzionabile un presunto comportamento abusivo: ergo, qualora si volessero nutrire dubbi sulla rigorosa limitazione della rilevanza penale ai casi di “elusione codificata”, viene formalizzata la richiesta di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267, commi 1 e 3, del Trattato dell’Unione Europea.

Nella memoria si rappresenta che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sì ammesso possibili effetti retroattivi delle norme sostanziali tributarie mirate a colmare lacune tali da consentire pratiche elusive, ma ha comunque “ritenuto illegittimo e fonte di responsabilità per lo Stato già solo la previsione di leggi retroattive che riguardino la sede … della procedura amministrativa tributaria” arresto che non potrebbe non trovare conferma, a fortiori, laddove si volesse affermare la retroattività delle sanzioni, non foss’altro perchè “le garanzie che assistono il settore dei criminal charges sono incommensurabilmente superiori a quelle della procedura amministrativa tributaria, ove la Corte europea ha già riconosciuto sussisterebbe lesione dei diritti fondamentali”. Violare in tali termini il diritto comunitario comporterebbe pertanto una responsabilità dello Stato, come pure dei suoi funzionari e giudici, per il risarcimento dei correlati danni.


Motivi della decisione


1.In ragione della notevolissima complessità ed eterogeneità dei motivi di ricorso, questa Corte ne ritiene necessario un esame per gruppi omogenei, onde evitare ripetizioni di argomenti od iterazioni di richiami che renderebbero disagevole la stesura di una motivazione unitaria. Si analizzeranno pertanto, in primo luogo, le questioni di carattere strettamente processuale, per poi passare alla disamina del tema (centrale nell’impostazione di più ricorsi, anche se la rilevanza delle relative questioni dovrà essere, nel caso di specie, nettamente ridimensionata) della rilevanza penale di presunte condotte elusive dell’imposizione tributaria; in seguito, si affronteranno le doglianze relative alla ravvisabilità degli specifici reati contestati, a partire dall’ipotesi di associazione per delinquere e dalla individuazione del ruolo di compartecipi nel delitto ex art. 416 c.p. in capo a taluni degli imputati, per poi passare alle presunte violazioni delle norme incriminatrici previste dal D.Lgs. n. 74 del 2000.

Verranno quindi trattati i peculiari motivi di gravame presentati nell’interesse dell’ A. e, da ultimo, quelli concernenti il trattamento sanzionatorio, le cause di estinzione dei reati nel frattempo eventualmente maturate e le questioni civilistiche.

2. Le questioni in rito.

2.1 Come ricordato, la difesa del M. lamenta che sarebbero state illegittimamente disattese dal Tribunale di Milano alcune istanze di rinvio per impedimento dell’allora unico difensore dell’imputato, con riguardo alle udienze del 12 febbraio e 3 marzo 2010. In entrambi i casi l’Avv. Steinberg aveva rappresentato di essere impegnato presso altri uffici giudiziari nella difesa di imputati detenuti, nonchè di essere impossibilitato a designare sostituti processuali, anche in ragione della particolare complessità del presente processo e della delicatezza delle attività di istruttoria dibattimentale in programma per le udienze medesime: i giudici di merito avevano invece obiettato la necessità di un bilanciamento fra i diversi processi, riconoscendo quindi preminenza a quello qui in esame sia per oggettiva complessità che per imminenza della prescrizione in ordine a talune contestazioni di reato.

Le doglianze difensive non possono condividersi.

Su un piano generale, deve infatti ribadirsi che secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità “la concomitanza dell’impegno in un altro procedimento può essere riconosciuta quale legittimo impedimento a comparire in udienza quando siano dimostrate, non solo la esistenza dell’impegno, ma anche le ragioni che rendono indispensabile l’espletamento delle funzioni difensive in tale procedimento. E tali ragioni, la cui prospettazione deve essere tempestiva e motivata, devono a loro volta essere correlate alla particolare natura della attività cui occorre presenziare ed alla mancanza o assenza di altro codifensore ed alla impossibilità di avvalersi di un sostituto, a norma dell’art. 102 c.p.p., sia nel procedimento al quale il difensore intende partecipare, sia in quello del quale si chiede il rinvio per assoluta impossibilità a comparire. Spetta poi al giudice effettuare una valutazione comparativa dei diversi impegni professionali al fine di contemperare le esigenze della difesa e quelle della giurisdizione, accertando se sia effettivamente prevalente quello privilegiato dal difensore. La rilevanza dell’impegno difensivo, per assumere l’efficacia impeditiva postulata dalla norma, deve quindi assumere i connotati, non soltanto della assolutezza, ma anche della obiettività, nel senso che la priorità della esigenza difensiva nel procedimento “pregiudicante” deve trarre alimento, non dalla soggettiva opinio del difensore, ma fondarsi su specifiche circostanze di fatto che consentano di far reputare, per così dire, erga omnes, temporalmente “cedevole” l’assistenza difensiva nel procedimento “pregiudicato”; sempre che non sussistano, ovviamente, contrarie ragioni di urgenza, che il giudice deve valutare con ponderata delibazione, nel necessario bilanciamento fra le contrapposte esigenze” (Cass., Sez. U, n. 29529 del 25/06/2009, De Marino).

In base ai principi appena enunciati, deve ritenersi congruamente motivata la decisione con cui il Tribunale di Milano rigettò la prima istanza difensiva (stando agli atti, con ordinanza del 03/02/2010, in vista di un’udienza da tenersi nove giorni più tardi): nell’occasione, stando allo stesso tenore dell’odierno ricorso, la priorità di trattare il processo che si celebrava a Piacenza derivava dalla – certamente non trascurabile, ma non tale da determinare ineludibile prevalenza – circostanza dello stato di restrizione di quell’imputato. Tuttavia non sembra che, al di là di quello status, fosse stato obiettivamente e giustificatamente segnalato per quali motivi il legale non si trovasse in condizione di nominare un sostituto, per quel giudizio, impossibilità di designazione che era stata rappresentata invece quanto al presente, per la necessità di proseguire una attività istruttoria complessa ed articolata: proprio in virtù delle peculiari connotazioni del processo il Tribunale aveva del resto predisposto un minuzioso calendario anche nella successione dei testimoni da citare ed escutere, il rispetto del quale – soprattutto in ragione dell’epoca dei commessi reati – ben poteva giustificare il bilanciamento fra le opposte esigenze dedotte, come ritenuto nell’ordinanza di rigetto che dunque si sottrae al controllo di legittimità.

A tacer d’altro, quanto alla seconda istanza è ineccepibile l’argomento dei giudici di merito secondo cui l’Avv. Steinberg, alla data del 17/02/2010 (quando era stato disposto il rinvio al 03/03/2010 del processo in corso a Firenze) già sapeva che lo stesso 3 marzo era in programma il processo milanese, ma non si peritò di rappresentare l’impegno già fissato, segnalando alla Corte toscana la necessità o quanto meno l’opportunità di trovare una data alternativa; vero è che, come ipotizza il ricorrente, la Corte di assise di appello di Firenze avrebbe forse potuto disattendere quell’indicazione, motivando sulla maggiore urgenza di procedere a carico di detenuti: ma si tratta – appunto – di mera ipotesi, a fronte dell’accertata inosservanza da parte della difesa di un preciso onere.

2.2 Manifestamente infondato è il secondo dei motivi di ricorso presentati nell’interesse del M., a proposito dell’eccezione di nullità dell’udienza del 15 aprile 2011, quando il Tribunale di Milano disattese la richiesta di rinvio del processo per adesione dei difensori all’astensione proclamata (anche) per quella data dagli organismi rappresentativi dell’Avvocatura. Al di là del rilievo che i termini di prescrizione sarebbero stati comunque sospesi, e senza neppure il limite dei sessanta giorni da applicare nelle altre ipotesi di differimento disposto su istanza difensiva ai sensi dell’art. 159 c.p., comma 1, n. 3), resta il fatto che il codice di autoregolamentazione all’epoca vigente non consentiva l’astensione, e correttamente i giudici di primo grado ne presero atto.

La Corte di appello, nel rigettare il motivo di gravame, risulta aver richiamato una sentenza di legittimità secondo cui “l’adesione del difensore dell’imputato ad astensione collettiva dalle udienze non opera in riferimento a reati il cui termine di prescrizione maturi entro 90 giorni, come individuati dal codice di autoregolamentazione dell’Avvocatura” (Cass., Sez. 3^, n. 7620 del 28/01/2010, Settecase, Rv 246197): richiamo, come rilevato dal ricorrente, non del tutto pertinente, visto che si trattava di un principio dettato per il giudizio di Cassazione. La difesa del M. omette però di precisare che la norma prevista dall’art. 4 del suddetto codice – adottato il 04/04/2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13/12/2007, avente valore di normativa secondaria – escludeva la possibilità di astensione in materia penale quanto “ai procedimenti e processi concernenti reati la cui prescrizione maturi durante il periodo di astensione, ovvero, se pendenti nella fase delle indagini preliminari, entro 360 giorni, se pendenti in grado di merito, entro 180 giorni, se pendenti nel giudizio di legittimità, entro 90 giorni”.

Il periodo cui fare riferimento per valutare se l’astensione potesse dirsi consentita era dunque addirittura doppio rispetto ai 90 giorni indicati dalla Corte territoriale.

2.3 In punto di presunta indeterminatezza dei capi di imputazione, non sono fondate le doglianze dei difensori del M. e del B., afferenti la presunta incertezza della veste che gli imputati avrebbero ricoperto in ordine alle operazioni contestate:

sostenere che l’uno o l’altro sarebbe stato “responsabile in seno al gruppo Mythos della organizzazione e della gestione finanziaria, economica e fiscale delle società”, oppure un “amministratore di fatto delle società del gruppo Mythos” costituisce infatti un assunto chiaro e puntuale, che è senz’altro possibile comprendere adeguatamente, apprestando a riguardo la linea difensiva che si ritenga necessaria. Linea difensiva che, in prima battuta, ben può muovere dalla negazione che tali qualità spettassero agli imputati, come non a caso i difensori di entrambi hanno continuato a sostenere ancora nell’impostazione dei rispettivi ricorsi: ma si tratta già, a quel punto, di una difesa nel merito degli addebiti, che dimostra ipso facto come se ne siano ben compresi il senso ed i limiti.

Anche le considerazioni svolte nell’interesse del M., circa la natura di reati propri delle fattispecie penali previste dal D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8 afferiscono al merito delle contestazioni, e nulla hanno a che vedere con la lamentata vaghezza nella descrizione del ruolo apicale in seno al gruppo Mythos che i capi d’imputazione attribuiscono al ricorrente, ruolo che egli stesso – come risulta dall’esame degli atti, dandosene contezza nel corpo della motivazione della sentenza impugnata – sembra avere in certa misura rivendicato.

2.4 La difesa del B. solleva una prima questione di inutilizzabilità di atti processuali quanto al contenuto di comunicazioni e-mail acquisite dal server del gruppo Mythos, dovendosi intendere il frutto di accertamenti tecnici non ripetibili, ai quali il B. stesso non avrebbe avuto modo di partecipare.

Il motivo di ricorso è formulato innanzi tutto in termini generici, dal momento che non si spiega perchè quegli accertamenti avrebbero dovuto richiedere gli avvisi previsti dall’art. 360 del codice di rito; a ben guardare, anzi, una spiegazione viene fornita, ma appare ictu oculi inconsistente e non condivisibile, atteso che l’irripetibilità dell’accertamento deriverebbe dalla circostanza che “il supporto informatico avrebbe potuto essere alterato o lesionato in sede di estrazione files”, ed inoltre perchè l’attività fu lunga e laboriosa, tanto da aver richiesto – come confermato dai testi escussi in giudizio – circa sei mesi. E’ di palese evidenza che la mera ipotesi di un danno al materiale oggetto di accertamento, od i lunghi tempi che questo richieda, non implichino affatto l’oggettiva impossibilità di ripetizione dell’indagine.

In secondo luogo, non è comunque dato comprendere quale lesione del contraddittorio sarebbe ravvisabile nel caso di specie, atteso che è lo stesso ricorrente a segnalare che – al momento di quella attività formale – non era neppure persona sottoposta a indagini, ergo non avrebbe avuto comunque diritto a ricevere l’ipotizzato avviso (a meno che non si ritenesse che gli inquirenti avessero già raccolto elementi a suo carico, tali da rendere doverosa l’iscrizione del nominativo del B. nel R.G.N.R.: profilo che però è la stessa difesa a non evidenziare).

Non sembra peraltro che vi sia stato alcun travisamento delle risultanze processuali da parte dei giudici di merito, nel dare atto che le copie di back up del server furono acquisite (al di là di provvedimenti di sequestro) perchè messe a disposizione dagli stessi imputati: è infatti il M. a fondare – anche – su tale circostanza la rinnovata invocazione delle attenuanti generiche e di un trattamento sanzionatorio di minor rigore.

Altrettanto generica è l’analoga censura sviluppata nel primo motivo di ricorso del G., laddove si fa riferimento ad atti che non sarebbero stati versati nel fascicolo (i 61 cd-rom consegnati agli inquirenti nel corso delle indagini) o comunque non allegati alla richiesta di rinvio a giudizio (le relazioni di consulenza tecnica curate sui dati informatici ivi contenuti). Alla osservazione della Corte territoriale, secondo cui le copie di back up furono comunque messe a disposizione delle difese, su supporti visionabili mediante programmi di comune utilizzo, il ricorrente obietta che un conto sono i supporti, altra cosa le elaborazioni che i consulenti trassero dal materiale che contenevano: ma allora è già evidente che, non contestando la circostanza della facile consultabilità dei dati informatici, non vi fu alcuna omessa discovery. Del tutto irrilevante è poi la circostanza che su quei dati la polizia giudiziaria si avvalse di contributi tecnici (anche da parte di soggetti che vennero poi legittimamente escussi in dibattimento), perchè consistiti in analisi riversate nelle successive informative, senza dubbio messe a disposizione dei difensori anche ai fini della predisposizione di elaborati di parte.

2.5 In punto di presunta inutilizzabilità di atti di indagine che sarebbero stati compiuti in difetto di rituali proroghe dei termini ex artt. 405 c.p.p. e segg., è innanzi tutto da rilevare l’infondatezza della doglianza dei difensori del M. a proposito della protrazione delle indagini “ben oltre il disposto rinvio a giudizio degli attuali imputati”: l’art. 419, comma 3, e 430 del codice di rito consentono infatti al P.M. il compimento di indagini anche dopo l’esercizio dell’azione penale e – appunto – dopo l’eventuale decreto ex art. 429 emesso dal G.u.p., nè risultano formulate censure su ipotetiche violazioni di un tempestivo obbligo di deposito.

Inoltre, come segnalato dalla Corte di appello, è pacifico che l’iscrizione nel R.G.N.R. dell’ipotesi criminosa ex art. 416 c.p. risalga al 15/06/2007, a seguito di indagini compiute nell’ambito dell’originario procedimento a carico del B. e di quelli conseguenti ai successivi stralci (del tutto fisiologici, stante l’eterogeneità delle contestazioni che derivavano dai risultati delle investigazioni rispetto ai fatti che avevano portato al primo arresto in flagranza del suddetto). Nella sentenza impugnata si legge poi che deve ritenersi “assolutamente legittima l’escussione di testimoni, anche se eventualmente individuati dopo la scadenza del termine delle indagini. L’audizione del teste è indipendente dall’eventuale acquisizione del suo nominativo dopo la scadenza del termine”: l’osservazione è del tutto condivisibile, non verificandosi con l’audizione in dibattimento alcuna “emenda” di vizi processuali, come lamenta invece la difesa. In ipotesi, afferendo l’inutilizzabilità all’atto e non già al correlato mezzo di prova, laddove un verbale ex art. 351 c.p.p. risulti formato in data successiva alla scadenza del termine di durata delle indagini preliminari, originario o prorogato, non può derivarne la radicale preclusione a che quella persona informata sui fatti venga escussa come testimone, bensì l’impossibilità di ricorrere al contenuto del verbale precedente per eventuali contestazioni, ovvero di farne oggetto di produzione e successiva lettura in caso di accertata irreperibilità del soggetto.

2.6 La difesa del B. reputa vi sia stata altresì violazione di legge processuale quanto alla dichiarata utilizzabilità della testimonianza resa da L.S., che non aveva riguardato gli episodi qui contestati bensì la presunta condotta di corruzione per cui l’imputato aveva già riportato condanna definitiva: si tratta di una doglianza che – risolvendosi nella censura secondo cui il B. sarebbe stato in tal modo sottoposto ad un secondo giudizio – appare manifestamente infondata.

Quella deposizione potè essere del tutto irrilevante, mirando in ipotesi il P.M. a chiarire che presso il gruppo Mythos fosse piuttosto radicata la consuetudine di ricorrere alla corruzione di pubblici funzionari, e dunque a fornire una chiave di lettura dell’episodio ancora sub judice riguardante l’ A.: ma, al contrario, potè essere significativa e del tutto pertinente alle – diverse – contestazioni mosse al B. nell’ambito del processo ancora da definire, ad esempio mirando l’accusa ad illustrare se la vicenda di cui al fatto già giudicato consentisse di raggiungere conclusioni dirimenti circa il ruolo dell’imputato nell’ambito della presunta associazione per delinquere.

E se anche la Corte territoriale non risulta avere trattato il profilo di gravame, va ricordato che è assolutamente pacifica, fin da epoca remota, la giurisprudenza di legittimità secondo cui “il giudice di secondo grado non ha l’obbligo di esaminare un motivo di appello manifestamente infondato” (v., ex plurimis, Cass., Sez. 3^, n. 8851 del 25/05/1982, Garraffo, Rv 155462).

2.7 Il richiamo alla sentenza Garraffo vale anche per il quarto motivo di ricorso presentato dall’Avv. Paone, ancora nell’interesse del B..

Sono gli stessi termini di esposizione della censura, riguardante la riduzione (secondo il ricorrente, immotivata) della lista testimoniale della difesa, a chiarirne infatti la manifesta infondatezza. Rileva il difensore dell’imputato che il Tribunale di Milano dispose il “taglio” dei testimoni sovrabbondanti come segue:

– ammettendo uno solo dei testi del gruppo 4;

– escludendo i testi del gruppo 5;

– ammettendo un solo teste (individuato) nel gruppo 6;

– ammettendo uno solo dei testi del gruppo 7;

– ammettendo tre dei testi dell’ultimo gruppo.

In sostanza, dunque, i giudici di primo grado lasciarono spazio a ciascuno dei temi che la difesa intendeva provare, sui quali erano state formulate le circostanze comuni ai singoli gruppi:

apparentemente, non vi fu risalto solamente a quanto avrebbero potuto dichiarare i testimoni del gruppo 5, che però – come risulta dalla articolazione delle suddette circostanze, riportata dal ricorrente a pag. 27 – sarebbero stati sentiti “sulla organizzazione interna del gruppo Mythos, sulle attività che svolgeva il gruppo Mythos, sul ruolo che ricopriva e svolgeva il B. all’interno del gruppo Mythos”, vale a dire le stesse circostanze capitolate per i testi del gruppo 4, con qualcosa in meno (“sulle attività del gruppo Mythos nonchè sull’attività svolta dal B. all’interno del gruppo Mythos, ed in particolare sulla sua estraneità all’area amministrazione e finanza del gruppo Mythos ed a tutta l’attività di predisposizione ed analisi dei bilanci”).

2.8 I motivi di ricorso svolti nell’interesse del M., del B. e del Br., afferenti la presunta violazione dell’art. 521 del codice di rito in ordine al rapporto fra le contestazioni di cui all’art. 640 c.p. e al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater debbono intendersi assorbiti dalle ragioni sostanziali che, come meglio si analizzerà tra breve, impongono l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, in parte qua.

3. Il tema della distinzione fra condotte di evasione ed elusione tributaria.

3.1 Come già anticipato, la gran parte dei ricorsi in esame si sofferma sul problema di fondo della possibilità o meno di ravvisare – nelle operazioni economiche contestate agli imputati, per la pianificazione e realizzazione delle quali sarebbe stato costituito un sodalizio criminoso – condotte fraudolente in senso rilevante secondo il diritto penale tributario, e più in particolare nei termini di cui alle figure criminose oggetto dei vari capi di imputazione.

Nelle operazioni de quibus, stando all’impostazione suggerita dai ricorrenti, non vi sarebbe stata alcuna simulazione o finzione, giacchè le relative transazioni furono reali e produttive di effetti giuridici: anzi, avrebbero avuto un senso (di risparmio fiscale, anche ammettendosi che quello fosse l’unico fine sotteso ad operazioni prive di giustificazioni economiche ulteriori) proprio a condizione che quegli effetti giuridici si realizzassero. Saremmo perciò dinanzi a condotte meramente elusive dell’imposizione tributaria, qualificabili secondo una terminologia oramai comune come forme di “abuso del diritto”, ma non volte all’evasione: e se è forse possibile ipotizzare conseguenze di rilievo penale (in ogni caso, con l’applicazione di norme incriminatrici diverse da quelle qui in rubrica) per i casi di “elusione codificata” D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37 bis ciò sarebbe senz’altro precluso nelle fattispecie concrete, dove l’intervento sanzionatorio dello Stato dovrebbe arrestarsi nel momento del recupero delle imposte indebitamente risparmiate.

In linea di principio, pertanto, la tesi difensiva è che ci si troverebbe al cospetto di “costruzioni ingegnose”, elaborate proprio per sfruttare “le maglie lasciate aperte dalla formulazione della legge fiscale” e dunque per ottenere un risparmio tributario, al più realizzate con soggetti “compiacenti o collegati”: ma nulla di fraudolento, perchè nulla di fittizio venne rappresentato rispetto alla effettività dei negozi giuridici sottesi alle operazioni medesime, che in tanto potevano avere un senso – al limite, solo strumentale ad un vantaggio fiscale – in quanto corrispondenti alla realtà.

A riguardo, è il caso di ribadire anche in questa sede, sia pure in via esemplificativa, il modello o schema tipico di una operazione di dividend washing, che potrebbe costituire il parametro su cui ancorare le necessarie valutazioni in diritto che questa Corte è chiamata a compiere sul delicato problema prospettato: fermo restando che, a dispetto della centralità di quel tipo di “costruzione ingegnosa” nell’economia stessa dei ricorsi in esame, al fine di meglio illustrare le tesi difensive, nella fattispecie concreta non vengono in rilievo soltanto operazioni siffatte, ma anche – ed ancor prima, scorrendo la rubrica – ben altre.

Immaginando dunque che la società A sia titolare del 50% delle quote sociali della società B, acquistate per un valore di 1.000 o conseguenti ad un primo conferimento per quell’importo, potrebbe accadere che B produca utili pari a 100, e che decida di distribuirli per intero ai soci: ad A ne spetterebbero pertanto in misura di 50. A quel punto, la società A stabilisce invece di cedere – ad una terza società, C – la propria partecipazione in B, al prezzo di 1.050 (dato dalla somma tra l’importo dell’acquisto iniziale, o del primo conferimento, e il valore dei dividendi): A realizza così una plusvalenza di 50, mentre C incassa i suddetti dividendi, di pari importo. In seguito, lo schema prevede che C retroceda ad A le stesse partecipazioni, al netto del dividendo incassato: ergo, ancora una volta al prezzo di 1.000, a quel punto realizzandosi – per C – una minusvalenza di 50, visto che il prezzo di (ri)vendita è inferiore a quello di acquisto.

Sul piano economico il meccanismo si spiega perchè, secondo la legislazione tributaria dell’epoca dei fatti qui contestati, fermo restando il problema della eventuale tassazione sul dividendo, la plusvalenza di A era esente da imposizione, mentre la minusvalenza di C era invece idonea a ridurne l’imponibile, così annullando il parziale effetto negativo della tassa sull’utile, se applicata.

Ha dunque ragione la difesa del M. nel segnalare che il vantaggio fiscale sotteso a quelle transazioni incrociate non derivava dalla detrazione di crediti di imposta o dalla deduzione di minusvalenze, bensì in primis dal regime tributario favorevole per le plusvalenze. E, prima ancora di affrontare le spinose implicazioni del dibattito in tema di elusione, è pacifico che in un’operazione del genere – se concretamente realizzata, sulla base di presupposti reali – non vi sia alcunchè di fraudolento, ma solo di elusivo: è però altrettanto innegabile che il quadro debba necessariamente mutare laddove risulti provato che quei presupposti, dati per veridici, non lo siano affatto, a partire dalla produzione degli utili che dovrebbero giustificare l’esistenza di dividendi da distribuire.

3.2 Ergo, ammettendo l’effettività delle operazioni, con utili concretamente prodotti e che gli interessati decidano di allocare laddove risulti loro più conveniente sul piano fiscale, ci si troverà al cospetto di atti giuridici aggredibili – o meglio, non opponibili all’Amministrazione finanziaria – in sede tributaria (avendo le Sezioni Unite Civili di questa Corte, con la sentenza n. 30055 del 23/12/2008, affermato che “i principi costituzionali della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione …

ostano al conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti attraverso strumenti giuridici l’adozione ovvero l’utilizzo dei quali sia unicamente rivolto, in assenza di ragioni economicamente apprezzabili, al risparmio d’imposta, anche laddove non ricorra alcuna violazione o contrasto puntuale ad alcuna specifica disposizione”), ma non in quella penale.

Uno spazio di intervento per il giudice penale, secondo i più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità abbondantemente richiamati negli odierni scritti difensivi, vi sarebbe solamente in presenza di una specifica disposizione antielusiva, la più significativa delle quali è contemplata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis: per inciso, restando all’esemplificazione in esame, se ne rinvengono anche in tema di dividend washing già in base alD.L. 9 settembre 1992, n. 372, convertito in L. 05 novembre 1992, n. 429, e da ultimo con il D.L. 30 settembre 2005 n. 203, art. 5 quinquies introdotto dalla L. di conversione 02 dicembre 2005, n. 230 (norma comunque posteriore a buona parte delle condotte qui contestate). Non è tuttavia questa, ad avviso della Corte, la corretta chiave di lettura delle fattispecie concrete qui contestate: non c’è bisogno di soffermarsi funditus sulla problematica dell’abuso del diritto, nè di sollecitare un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sulla rilevanza della elusione fiscale in ambito penale, perchè le operazioni indicate in rubrica e poste in essere nell’ambito del gruppo Mythos nulla hanno a che vedere con tali tematiche, a dispetto delle concordi impostazioni dei ricorrenti.

3.3 Per potersi parlare di abuso del diritto, o di elusione, occorre che l’atto cui si abbia riguardo costituisca esercizio delle facoltà connesse ad una situazione giuridica della quale l’autore sia titolare, pur volendo egli destinare l’uso di quei poteri a scopi diversi da quelli per cui gli siano stati attribuiti: uso che, come ricordato, in materia tributaria viene a consistere nel compimento di operazioni conformi ai modelli previsti dalla legge, ma strumentali solo ad ottenere un risparmio fiscale.

Come detto, in tale ambito la rilevanza penale della condotta appare difficilmente configurabile, per la necessità del doveroso rispetto del principio costituzionale di stretta legalità e del suo più immediato corollario, che impone la tassatività delle fattispecie incriminatrici: è evidente infatti che non esiste una norma da cui ricavare una immediata equiparazione dell’elusione all’evasione, categorie concettuali che vengono ancora distinte in interventi legislativi recenti, seppure ispirati da una logica di comune intervento nei confronti di entrambe (si pensi al D.L. 4 luglio 2006 n. 223, art. 35 dedicato a “misure di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale”, ovvero al D.L. 06 luglio 2011, n. 98, art. 24 che al comma 29 detta regole peculiari “al fine di contrastare la diffusione del gioco irregolare ed illegale, l’evasione, l’elusione fiscale e il riciclaggio nel settore del gioco”).

Estendere pertanto all’elusione le sanzioni penali espressamente previste per l’evasione tributaria è tutt’altro che automatico, soprattutto alla luce delle modifiche introdotte con il D.Lgs. n. 74 del 2000 alla disciplina del diritto penale tributario, espressive di una opzione in chiave offensiva ben più avanzata rispetto a quella desumibile dalla formulazione delle ipotesi di reato già contemplate – talora in termini di illecito contravvenzionale – dalla L. n. 516 del 1982. Il principio di legalità implica, del resto, che il giudice penale non possa limitarsi a prendere atto dell’esistenza di una specifica disposizione antielusiva, ma debba piuttosto ricavare dall’ordinamento previsioni sanzionatorie che vadano oltre il mero divieto per il contribuente di perseguire vantaggi fiscali indebiti:

ciò perchè all’abuso del diritto la disposizione antielusiva consente di contrapporre il disconoscimento delle conseguenze dei negozi adottati (la ricordata inopponibilità degli stessi all’Amministrazione finanziaria), non già sanzioni diverse ed ulteriori.

In altre parole, per aversi sanzioni penali occorrono previsioni esplicite, indicative della volontà del legislatore di apprestare – dinanzi alla ipotizzata violazione di qualsivoglia norma, tributaria o meno – la tutela di maggior rigore: non a caso, è lo stesso D.Lgs. n. 74 del 2000, all’art. 19, a statuire che “quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del Titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale” (e sarebbe allora ragionevole riconoscere carattere di specialità ad una disposizione antielusiva ad hoc, che escluda o quanto meno non contempli la comminatoria di sanzioni penali, rispetto alle norme di cui ai precedenti artt. 2, 4 od 8).

3.4 Tanto premesso in linea di principio, è necessario considerare che nella vicenda in esame – rimanendo ancora al caso del dividend washing – le sentenze di merito hanno ritenuto raggiunta la prova che lo schema delle operazioni fosse sostanzialmente il seguente, ricavabile da una descrizione esemplificativa curata nella pronuncia di primo grado a pag. 29: “una società del gruppo Mythos (nella specie, Principium s.r.l.) distribuisce dividendi a una delle società semplici (d’ora in poi, SS) costituite dal gruppo; SS viene acquistata, prima della distribuzione degli utili, da un cliente (d’ora in poi, C) ad un prezzo inferiore ai dividendi da distribuire;

C corrisponde a Mythos s.p.a. un compenso per consulenza pari al delta prezzo (dividendi – prezzo d’acquisto della SS); Mythos finanzia con finanziamento infruttifero pari all’importo della consulenza il venditore di SS, di regola altra società semplice del gruppo; il venditore a sua volta gira a titolo di finanziamento infruttifero l’importo pari ai dividendi (prezzo + delta prezzo) a Principium”. Così delineata, muovendo dal presupposto – da intendersi parimenti provato in fatto, sulla base di elementi che certamente non possono essere suscettibili di nuova verifica in sede di legittimità – che di dividendi da distribuire non ve ne fossero ab initio, e che pertanto l’intero marchingegno servisse per alleggerire il carico fiscale del cliente di Mythos sulla base di presupposti fittizi, questa non è un’operazione semplicemente elusiva.

Come ineccepibilmente affermato dal Tribunale di Milano alla stessa pag. 29, “lo scopo eventualmente elusivo di operazioni di dividend washing non vale di per sè a connotarle come penalmente rilevanti, quando si concretino in negozi giuridici effettivi dal cui collegamento funzionale derivi il vantaggio fiscale …; al contrario, le operazioni oggetto di contestazione non possono considerarsi effettive in quanto: hanno quale presupposto la distribuzione di utili fittizi; comportano l’interposizione di società esistenti solo sulla carta, prive cioè di un reale scopo da conseguire; comportano finanziamenti simulati per assenza di esborsi reali e non finalizzati al sostegno economico di attività societaria effettivamente svolta. La complessiva fittizietà dell’operazione è inevitabilmente destinata a ripercuotersi su ciascuno dei passaggi, e ove di rilevanza sugli strumenti utilizzati, quali le fatture”.

Al di là di considerazioni di valore suggestivo, circa la significatività o meno sul piano giuridico di negozi formalizzati con società aventi denominazione seriale, non altrimenti operative o mancanti di qualunque risorsa personale e materiale, l’analisi può fermarsi già al primo dato: gli utili apparentemente prodotti e poi distribuiti, in modo da creare la “costruzione ingegnosa” appena descritta giocando con le conseguenti plusvalenze e minusvalenze, non esistevano. Nelle pagine seguenti a quella ora menzionata, il Tribunale si sofferma diffusamente sulle risultanze documentali che avvalorano detta conclusione, con argomenti fatti propri dalla sentenza oggi impugnata (mediante un legittimo rinvio per relationem alla motivazione della pronuncia dei giudici di prime cure, nonchè lo sviluppo di argomenti ulteriori) e che in concreto non vengono contestati dai ricorrenti, fermi piuttosto nel ribadire la natura elusiva delle condotte.

Non si comprende, allora, quale spazio concreto possano avere il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 15 o la circolare n. 87/E del 27/12/2002 emessa dall’Agenzia delle Entrate: nella fattispecie concreta non si è al cospetto di norme tributarie di incerta interpretazione, nè di operazioni economiche fino a quel momento assentite o quanto meno non espressamente vietate, visto che la domanda da porsi non riguarda – si ribadisce, ed ancora per restare all’esempio illustrato – la legittimità o meno del dividend washing, bensì se l’ordinamento consenta la possibilità di un dividend washing in cui gli utili da distribuire siano inventati di sana pianta.

Escluso peraltro che sia compito di questa Corte dedicarsi ad una puntuale rivalutazione delle emergenze istruttorie evidenziate dai giudici di merito, non può sfuggire il tenore assolutamente pacifico di comunicazioni e-mail dove si ricorreva ad aggettivi non meritevoli di commento (come “farlocca”, riferito ad una fattura da emettere) o delle stesse prove orali, di cui è ancora il Tribunale di Milano a dare contezza da pag. 47. Anche voci interne alla Mythos, tra cui quella dello stesso B., parlano di utili “creati attraverso questi giri, perchè erano inesistenti”; altri testi riferiscono che “la Mythos non disponeva delle somme movimentate, dal momento che si trattava di utili fantasma necessari solo per l’attribuzione di crediti d’imposta”, ovvero escludono che la Principium avesse mai avuto “disponibilità finanziarie per importi assimilabili a quelli dei dividendi distribuiti nelle operazioni di dividendi washing”; per giungere poi alla testimonianza di un matematico – v. pag. 48 della sentenza di primo grado – il cui compito presso la Mythos era quello di predisporre fogli di calcolo basati sul programma Excel e da utilizzare nelle operazioni anzidette (con un meccanismo che prevedeva l’inserimento di dati di partenza “elaborati su input dell’operatore in funzione del risultato da raggiungere: nello specifico, nel foglio di calcolo doveva essere dapprima inserito l’utile della società cliente e quindi, sulla base di questo dato, venivano estrapolati informaticamente tutti gli altri valori, ed in particolare i dividendi necessari per il conseguimento del risultato fiscale”; meccanismo ribadito da altri testimoni ancora, secondo cui “nel programma informatico veniva immesso dall’operatore- professionista il dato relativo all’utile del cliente ed in automatico si determinava la quantificazione del dividendo necessaria a realizzare l’obiettivo fiscale”).

Su tali aspetti, non a caso del tutto trascurati nel corpo dei ricorsi, deve ritenersi pacificamente ancorata la ricostruzione in fatto che le sentenze di merito hanno posto alla base delle argomentazioni sviluppate: le doglianze difensive si limitano a prospettare in termini apodittici, al di là degli ulteriori – e, per le ragioni già evidenziate, non pertinenti – rilievi, che la prova della non rispondenza al vero degli utili oggetto delle successive distribuzioni non sarebbe stata raggiunta, o addirittura che la circostanza non avrebbe significato. Ma non si vede come si possa contestare la natura fittizia di una operazione nel momento in cui questa venga realizzata muovendo dal quantum di risparmio fiscale perseguito, ed impostando su quel dato i presunti utili da distribuire, che invece ne avrebbero dovuto costituire la premessa: a nulla rilevando la presa d’atto, ovvia proprio in ragione della necessità di documentare un elemento falso per giustificare i passaggi successivi, che quegli utili furono sempre esposti nelle dichiarazioni.

Nel ritenere che le operazioni contestate configurino ipotesi di reato secondo il diritto penale tributario, in definitiva, non è assolutamente ravvisabile alcuna forzatura del dato normativo, o men che meno una violazione di principi sovranazionali o di giurisprudenza comunitaria: nè vi è alcuno spazio di ammissibilità, perchè manifestamente irrilevante alla luce delle connotazioni della fattispecie concreta dove non si rinvengono affatto ipotesi di mera elusione, per una richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 del Trattato U.E..

Neppure coglie nel segno la censura, mossa da più ricorrenti, secondo cui le operazioni suddette, consistendo in negozi giuridici regolarmente stipulati, avrebbero comunque realizzato gli effetti (parimenti, giuridici) cui miravano. Innegabilmente, non ci si trova dinanzi a contratti simulati in senso civilistico, visto che gli acquisti e le retrocessioni di quote delle varie società erano voluti, anche sul piano della minima dimensione cronologica del trasferimento dei relativi diritti: ma un conto è che una proprietà passi davvero di mano, sia pure a prezzo vile o per una frazione di secondo (per riprendere gli stessi esempi esposti nei ricorsi), ben altra cosa è che la traslazione riguardi anche un contenuto economico che il diritto oggetto di cessione non può avere. Non a caso, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1 – norma definitoria che chiarisce il contenuto di numerose nozioni pertinenti alla disciplina del diritto penale tributario – prevede già al primo punto che per “operazioni inesistenti” si debbono intendere quelle non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione medesima a soggetti diversi da quelli effettivi: si parla dunque di operazione in senso economico e non giuridico, come già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte sia pure a fini parzialmente differenti.

Con la sentenza n. 13975 del 06/03/2008 (rie. P.M. in proc. Carcano), la Sez. 3^ – accogliendo il ricorso del Procuratore della Repubblica avverso una sentenza ex art. 425 c.p.p., in un caso nel quale alcune operazioni di finanziamento erano state documentalmente fatte apparire come acconti su forniture – ha infatti avuto modo di evidenziare che il D.Lgs. n. 74, ricordato art. 1 non ha inteso riferirsi soltanto alle operazioni non realmente effettuate, con esclusione quindi di quelle aventi qualificazione giuridica diversa, e cioè solo “giuridicamente inesistenti”: si deve invece parlare di operazione inesistente anche quando un’operazione giuridica vi sia, ma debba intendersi non coincidente, sul piano economico, da “quella documentata, che è la sola presa in considerazione, agli effetti penali, dal D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8”. Ancor prima, la stessa Terza Sezione aveva segnalato che “in tema di reati finanziari, il delitto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8 e L. n. 516 del 1982, art. 4, comma 1, lett. d) intende punire ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale di essa e non soltanto la mancanza assoluta dell’operazione” (sentenza n. 5804 del 21/01/2004, Cartocci, Rv 227842).

Contrariamente a quanto argomentato dalla difesa del M., anche ciò che giuridicamente è effettivo può essere senz’altro fraudolento, se sul piano economico non vi è stata affatto l’operazione che le parti di un contratto abbiano convenuto: ciò per la semplice ed intuitiva ragione che, nell’ipotesi di un accordo tra A e B per far figurare come realmente avvenute operazioni in realtà inesistenti, la cosa non cambia imbastendoci sopra un negozio giuridico formalmente ineccepibile. Se A vuole far figurare costi mai sostenuti, inventandosi che B si è occupato a titolo oneroso della pulizia dei locali della sua sede, ben potrebbe nascondere la frode conservando tra la propria documentazione fiscale sia le fatture che un falso contratto stipulato con l’impresa di pulizie: quel che conta non è che esista la conseguenza giuridica del contratto, vale a dire il diritto di A ad ottenere quella prestazione da B, ma il fatto materiale – rilevando appunto l’operazione economica, non l’eventuale negozio a quella sotteso – che la prestazione vi sia stata davvero).

3.5 Con riguardo ad alcuni profili peculiari di doglianza avanzati nei vari ricorsi, deve poi segnalarsi che:

– è infondata la censura relativa mossa alla sentenza impugnata ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), quanto ad un accertamento peritale che sarebbe stato in ipotesi indispensabile per ricostruire alcuni dei valori oggetto delle operazioni societarie contestate, non rientrando la perizia, per sua stessa natura, nella categoria della prova decisiva (v., da ultimo, Cass., Sez. 6^, n. 43526 del 03/10/2012, Ritorto);

– non vi è alcuna contraddittorietà tra la condanna degli imputati, quali concorrenti nei reati fiscali commessi dai clienti del gruppo Mythos, per avere essi predisposto le presunte operazioni fraudolente, e l’affermata esclusione delle attività di consulenza documentate in talune di quelle operazioni. E’ infatti di immediata evidenza che un conto è una consulenza in senso tecnico- professionale, attività che ben può e deve essere remunerata, tutt’altro è il concorso in una frode, magari realizzato attraverso “consigli” tecnicamente avveduti ad un contribuente su come evadere il fisco: consigli che potrebbero consistere, come qui ritenuto, nel far figurare attività professionali mai prestate;

– anche le operazioni intermedie, od i “giri finanziari” fra una prima transazione basata su presupposti fittizi e l’ultimo passaggio, assumono rilievo penale quali condotte ulteriori strumentali alla realizzazione della frode perseguita;

– nessuna delle operazioni contestate risulta avere una dimensione esclusivamente “infragruppo”, dato il coinvolgimento di soggetti ulteriori (in specie, clienti del gruppo Mythos), e non ha alcuna valenza la notazione secondo cui all’interno della stessa Mythos vi fossero società in perdita o che avevano proceduto a formalizzare condoni: far emettere fatture da soggetti che comunque non pagheranno imposte non è certamente l’unica metodologia di frode fiscale, essendo anzi la più semplice (non solo da realizzare, ma anche da scoprire).

3.6 Le osservazioni svolte in ordine alle operazioni di dividend washing sono certamente riproducibili anche a proposito delle ulteriori fattispecie contestate, nelle quali si ipotizzano l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni altrettanto inesistenti, tutte caratterizzate – come si evince dalla ricostruzione offerta nella sentenza di primo grado, alle pagg. 9 e 10 – dalla singolare circostanza che “gli importi indicati nelle fatture non solo erano assai rilevanti”, ma risultavano altresì “coincidenti con i ricavi da abbattere della società destinataria”:

in sostanza, uno schema sovrapponibile a quello del ricorso a fogli di calcolo excel in cui il primo dato da impostare non riguarda gli utili realmente prodotti da una società, ma il risparmio fiscale che si intende realizzare per un’altra. Anche per le operazioni in argomento assumono significativamente (e ineccepibilmente) rilievo, per le sentenze di merito, la mancanza di personale ed uffici da parte delle società del gruppo Mythos che ne furono apparentemente protagoniste, la genericità e ripetitività delle causali delle presunte movimentazioni finanziarie (come l’imputazione ad attività di “intermediazione mobiliare” o “prestazioni di servizio”, in assenza di qualsiasi documentazione di supporto); nonchè, ancora una volta, le prove orali, fra cui le dichiarazioni del Be. e degli stessi M. e B..

Inequivoci risultano poi i riscontri offerti dalle comunicazioni via e-mail, parimenti riportate nel corpo della sentenza del Tribunale, dove si rinviene traccia di richieste di fatture di comodo a date vincolate, con mutamenti di numero di altre già formalizzate ed istanze esplicite di chiarimento sul tipo di causale da inserirvi (istanze provenienti da parte dell’emittente, vale a dire il soggetto che per primo dovrebbe conoscere quali attività ne costituiscano il fondamento); a mero titolo di esempio, il meccanismo fraudolento emerge con trasparenza assoluta dai due messaggi di posta elettronica riportati a pag. 13 della sentenza di primo grado, dove una dipendente della Mythos scrive ad un’altra di aver notato la registrazione di una fattura da Consortium a Nixe in data 15/12/2004, segnalando che occorrerebbe invece registrarla al 30 novembre o fare uno storno, perchè “quella fattura serve per abbattere il reddito della Nixe al 30/11/04”: nel giro di poche ore, la destinataria replica “Ok, spostata al 30/11”.

Su tali aspetti di chiara evidenza istruttoria, ancora una volta, i ricorrenti non si soffermano in alcun modo, contestando le argomentazioni dei giudici di merito su un piano di mera astrattezza.

Nè risultano formulate considerazioni di sorta sulla circostanza che all’interno del server del gruppo era stato rinvenuto un prospetto predisposto per le operazioni di management fee, ricostruite analiticamente dal Tribunale prendendone in esame passo per passo lo schema: operazioni parimenti connotate da elementi di palese fittizietà perchè realizzate mediante la costituzione di società ad hoc, con emissioni di fatture “di importo predeterminato “a tavolino” e funzionali al risparmio fiscale”, fatture che avrebbero dovuto documentare attività di consulenza prestate per un’intera annualità e che invece rimangono senza qualsivoglia supporto.

3.7 Anche a proposito del c.d. “prestito Moretti” di cui al capo E), ferma restando la necessità di prendere atto di una parziale prescrizione e di delimitare sul piano cronologico il concreto concorso del B., i ricorsi eludono le pacifiche emergenze a carico degli imputati.

Negli atti di impugnazione si rappresenta – prospettando peraltro una differente ricostruzione in fatto, alternativa a quella che i giudici di merito hanno ritenuto attinente al caso di specie – che non si trattò di un prestito fittizio, bensì di una normale operazione di portage; in ogni caso, tutti i passaggi successivi al primo, dove si sarebbe concretizzata la presunta frode, avrebbero dovuto considerarsi irrilevanti sul piano del diritto penale tributario.

In vero, per portage si intende comunemente la cessione di titoli di una società ad un terzo, a prezzo determinato e con accordo di riacquisto a data futura (a prezzo parimenti prestabilito), schema dunque non del tutto aderente all’ipotesi che qui si sarebbe verificata: di norma, la finalità di un portage deriva dalla necessità di liberarsi per un dato tempo di una partecipazione in perdita, oppure dalla prospettiva di concentrare su un gruppo più forte le espressioni di voto in occasione di assemblee chiamate a deliberare su eventi di grande rilevanza per la vita della società.

Non di meno, a prescindere dalle denominazioni formali, non si vede proprio dove possa intendersi realizzato un prestito nell’operazione documentalmente accertata, ricostruita con dovizia di particolari alle pagine 50 e seguenti della sentenza del Tribunale di Milano.

Il complesso giro finanziario parte infatti da un bonifico estero operato da una società del gruppo Mythos (Mythos Arkè) alla società portoghese Citalia, con sede a Madeira, a fronte di un presunto finanziamento, con un successivo e identico passaggio di denaro – per la stessa cifra, 6 milioni di Euro, ed ancora a titolo di apparente finanziamento con identici durata, tasso e cedole; a seguire, e sempre per un importo di 6 milioni di Euro, risultano:

l’emissione di assegni circolari da parte di Andromeda, versati su un conto della Moretti S.p.a.;

un bonifico da Moretti S.p.a. alla Holding Terra Moretti S.p.a.;

la restituzione di un finanziamento soci da Holding Terra Moretti S.p.a. a Mo.Vi. e be.ma.;

l’emissione di assegni circolari su richiesta di Mo.Vi., da un conto corrente a lui intestato;

il versamento di quegli assegni, a cura del B., su un conto intestato alla Mythos Arkè.

Se si tiene conto delle circostanze che il primo bonifico avvenne senza che Mythos Arkè disponesse della provvista necessaria, e che alla scadenza delle presunte cedole venivano realizzati ulteriori giri finanziari (in direzione inversa) parimenti descritti a pag. 53 della sentenza di primo grado, ecco che la ricostruzione dell’operazione come prestito in senso proprio – ma anche come portage – perde qualunque consistenza, non essendovi per tabulas alcun soggetto economico, tra i protagonisti dell’operazione medesima, che veniva ad acquisire disponibilità finanziarie: si trattava invece di un meccanismo che consentiva al Mo. di trasformare il reddito lordo di impresa, soggetto a tassazione ordinaria, in apparenti interessi attivi (tassati ben più favorevolmente come reddito da capitale, al 12,5%), come del resto confermato anche da testimonianze di soggetti interni al gruppo Mythos segnalati nelle pronunce di merito.

Ancora una volta, dunque, ci si trova dinanzi ad una operazione economica di cui non è necessario valutare la astratta legittimità o la sola strumentalità al risparmio tributario, giacchè – prima ancora – è assodato che non venne effettivamente realizzata come documentato nelle relative fatture: rilievo che si attaglia non soltanto alle prime transazioni, ma anche a tutte quelle volte a completare il giro finanziario così “innescato” (secondo una icastica terminologia adottata nelle e-mail riferite agli schemi in argomento, come parimenti evidenziato dai giudici milanesi).

3.8 Analoghe considerazioni valgono anche per la “operazione Renco”, su cui i difensori del M. sviluppano autonomi profili di doglianza che peraltro risultano specifici solo in ordine alle condotte contestate al capo F1), mentre in ordine al diverso addebito sub 16) le censure rimangono formulate sul piano dei rilievi generali già esposti in precedenza. Parlare di canoni di locazione e di interessi su effettivi prestiti obbligazionari, in un contesto nel quale è documentalmente provato – v. le pagg. 57 e 58 della sentenza di primo grado – che un diritto di usufrutto su una parte delle azioni della Renco S.p.a. (in quantità comprese tra l’1,85% ed il 7,55%) venne trasferito a varie società per soli 14 minuti, significa non tenere conto delle obiettive risultanze del processo;

nè può liquidarsi come apoditticamente inattendibile il tenore di comunicazioni via posta elettronica (in realtà, di solare evidenza per confermare la fittizietà delle operazioni) nelle quali c’era chi si preoccupava di “non sporcare tutte le società con la scrittura crediti v/Renco a debiti v/Renco”, così decidendo di “farla a tappo solo su tre società”. Vero è che le conseguenti istruzioni sul da farsi venivano impartite dallo Z., ma la motivazione adottata dal Tribunale e dalla Corte di appello di Milano circa la responsabilità del M. sui fatti contestati appare ineccepibile, facendosi tra l’altro riferimento alle stesse dichiarazioni dell’imputato sul considerarsi dominus del gruppo a dispetto dell’avere mantenuto o meno qualifiche formali all’interno delle singole società.

4. Le questioni relative al reato di cui all’art. 416 c.p..

4.1 Nell’interesse di vari imputati si è sostenuta l’impossibilità di ritenere comunque configurabile, nella fattispecie concreta, un delitto associativo: ferma restando – secondo le difese – la non ravvisabilità dei reati-fine, è stato rappresentato che non rileverebbero ad esempio le circostanze della stabilità dei contatti fra gli imputati intranei alla Mythos e soggetti operanti presso istituti di credito od uffici finanziari, l’accumulo di cariche negli stessi individui quanto all’amministrazione delle società del gruppo, il ricorso a programmi informatici standard.

Non c’è dubbio che, nello svolgere attività di consulenza fiscale, si debbano avere rapporti frequenti con banche ed Agenzia delle entrate, e che la predisposizione di documenti elaborati al computer costituisca la normalità, ma nella vicenda in esame è evidente la necessità di esaminare preventivamente le peculiarità dei reati- scopo in vista dei quali si ipotizza essere stato costituito il sodalizio. Trattasi di approccio ermeneutico assolutamente corretto, visto che la giurisprudenza di questa Corte ha recentemente avuto modo di ribadire che in tema di reati associativi “è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima” (Cass., Sez. 2^, n. 2740 del 19/12/2012, Di Sarli, Rv 254233).

Un conto è dunque l’episodico ricorso a modalità illecite per realizzare delitti, in un contesto di normale gestione contabile o di fisiologiche prestazioni professionali in favore di soggetti economici, tutt’altro è impostare quell’attività mirando in via esclusiva o principale a far sì che il risparmio delle imposte si produca mediante la frode: in altre parole, e per fermarsi ad uno solo degli indici su cui sono stati appuntati i rilievi delle difese, adattare un foglio di calcolo alle occasionali prospettive fraudolente di un cliente, anche suggerendogli quella possibilità, non equivale ad utilizzare sistematicamente un file di excel creato per consentire a qualunque cliente di frodare il fisco. In questo secondo caso, che è quello concretamente verificatosi nella fattispecie, il ricorso al file in questione costituisce – unitamente agli altri indici puntualmente segnalati nelle sentenze di merito – uno degli elementi da cui inferire “la predisposizione di un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza, da parte dei singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare per l’attuazione del programma criminoso comune” (Cass., Sez. 6^, n. 3886 del 07/11/2011, Papa, Rv 251562).

Nè coglie nel segno l’obiezione difensiva secondo cui l’istruttoria dibattimentale avrebbe fatto emergere una struttura piatta, e non verticistica, del gruppo Mythos: infatti, a tale constatazione rispondeva già la sentenza di primo grado a pag. 72, laddove veniva evidenziato che gli imputati avevano introdotto modifiche, funzionali alla commissione con modalità seriali di più delitti indeterminati in danno dell’Erario, alla preesistente struttura del gruppo, già dedita a finalità lecite; non vi era da nutrire dubbi “sul fatto che, nell’ambito dell’attività lecita, i singoli professionisti godessero di ampia autonomia nella gestione dei singoli progetti” (v.

la nota 108), ma l’associazione criminale di nuova costituzione aveva assunto, “indipendentemente dall’organizzazione lavorativa del gruppo Mythos riferibile all’attività lecita, una struttura spiccatamente piramidale”, all’apice della quale si doveva collocare il M. e – subito al di sotto – il di lui “socio storico e braccio destro B.”, giungendo poi allo Z., al Be. ed al G. (al di là delle considerazioni che dovranno comunque svolgersi sulla posizione di quest’ultimo, va ricordato che lo Z. ed il Be. definirono il processo a loro carico con sentenze di applicazione di pena su richiesta, anche in ordine al reato associativo).

4.2 Circa il ruolo dei singoli imputati all’interno del sodalizio, è stato già più volte ricordato che il non avere assunto o mantenuto cariche nelle varie società non ha alcuna incidenza sul ruolo di vertice da ascrivere al M., per cui non possono trovare accoglimento i motivi di ricorso formulati sul punto dai suoi difensori: è ancora la sentenza di primo grado a sottolineare come tutte le prove orali acquisite – ivi comprese le dichiarazioni dello stesso imputato – concorressero a indicare la Mythos nelle mani del M., trovando un decisivo ed insuperabile riscontro nelle frequentissime comunicazioni via e-mail che “lo vedevano destinatario, mittente o comunque coinvolto per conoscenza, da cui emerge che egli veniva costantemente e minuziosamente informato di tutti i passaggi delle singole operazioni, specie se illecite” (pag.

75).

Ancora a mero titolo indicativo, non va trascurato che il ricordato testimone con competenze matematiche, da cui era stato elaborato il foglio di calcolo excel che si è avuto occasione di tornare a menzionare poco fa, dichiarò di avere ricevuto proprio dal M. l’incarico di predisporre il file in questione.

In ordine al B., le censure della difesa afferenti la posizione dell’imputato nell’ambito del sodalizio non meritano parimenti accoglimento, giacchè da un lato investono profili di merito, e dall’altro segnalano profili di contraddittorietà della decisione impugnata che in realtà non sussistono.

E’ infatti logico ricostruire la partecipazione del ricorrente all’associazione muovendo dalla presa d’atto dei contributi da lui offerti alla realizzazione di singoli reati-fine (come segnala la giurisprudenza di questa Corte, sopra ricordata), mentre costituisce mera allegazione difensiva l’assunto che mancherebbe prova certa della consapevolezza da parte del B. circa la natura fraudolenta delle operazioni: a tal fine, la circostanza che egli svolgesse anche una parallela attività lecita all’interno del gruppo si rivela neutra, trattandosi di rilievo riferibile a tutti gli imputati, mentre spiegare gli episodi corruttivi (di cui proprio il B. era stato il principale protagonista) come iniziativa occasionale ed estemporanea, piuttosto che da correlare al programma del sodalizio, mira appunto a prospettare una ricostruzione nel merito differente da quella fatta propria dai giudici di primo e secondo grado, senza neppure tenere conto delle ragioni segnalate in quelle decisioni per giungere alla conclusione adottata.

Va considerato infine che la sentenza della Corte di appello, a proposito del B., riconosce particolare significatività sia alla titolarità da parte dell’imputato di deleghe bancarie che gli consentivano di operare sui conti di società interessate dalle operazioni ritenute evasive dell’imposizione tributaria, sia alla circostanza che egli risultava aver conseguito vantaggi fiscali a seguito di talune operazioni di dividend washing. Più delicata, e meritevole di approfondimento, è invece la posizione del G., peraltro condannato solamente quale presunto partecipe dell’associazione per delinquere, ed al contempo assolto in primo grado per difetto in capo a lui dell’elemento soggettivo concernente i presunti reati-fine contestatigli, sub F1), G1), G2), H1) e H2).

Come ricordato, la difesa dell’imputato ha diffusamente esposto le ragioni di presunta contraddittorietà e manifesta illogicità nella motivazione della sentenza della Corte di appello, ed in quella del Tribunale richiamata per relationem: alcune delle doglianze si risolvono ancora una volta in censure di mero fatto (non potendo rilevare in questa sede, fra l’altro, le osservazioni difensive sulla necessità di ritenere membri dell’associazione per delinquere, in luogo o comunque prima del G., altri soggetti intranei all’area fiscale del gruppo Mythos), ma quanto ad altre è lo stesso esito del processo di merito ad avvalorarle, considerando appunto che il prevenuto ha goduto di formula liberatoria in ordine ai reati fiscali non già per non averli commessi, bensì “perchè il fatto non costituisce reato”.

In concreto, dunque, è stato ritenuto che il G. fosse consapevole del generico piano di frode in danno dell’Erario, ma non colse – o, quanto meno, non sarebbe emersa prova sufficiente che la percepì – la specifica valenza che il suo contributo al sodalizio apportò anche in vista della realizzazione dei singoli reati fiscali: scrivono infatti i giudici di primo grado che, “pur avendo l’imputato contribuito anche ai delitti-scopo in questione, coordinando la redazione delle false perizie, non vi è prova che il medesimo fosse a conoscenza delle specifiche operazioni fiscali cui esse erano destinate. Tanto si risolve in un’assenza dell’elemento soggettivo, in quanto non è sufficiente essere meramente consapevole dell’attività criminosa dell’associazione di cui si è parte, ma in relazione ai singoli reati-fine è necessario un apporto personale consapevole alla realizzazione”.

Nel valutare la posizione del G., in definitiva, i giudici del Tribunale si mossero in una prospettiva inversa rispetto a quella tenuta presente per analizzare la posizione del B., dove la prova della partecipazione al sodalizio fu ricavata – anche e soprattutto – dalla verifica delle modalità con cui l’imputato concorse nei reati-scopo: e viene sostanzialmente affermato che, presiedendo alla elaborazione di presunte perizie di comodo, il responsabile dell’area aziendale poteva non rendersi conto di quali sarebbero state le specifiche operazioni fraudolente cui le perizie medesime erano strumentali. Affermazione non del tutto convincente sul piano logico, in verità: se chi cura od organizza la stesura di una perizia che sa essere fasulla è consapevole che quella stima compiacente servirà agli scopi di un sodalizio criminoso creato per frodare il fisco, è ragionevole desumerne che il soggetto in questione sia ancor prima edotto sul funzionamento del tipo di operazione che la perizia sottende (e, una volta che l’elaborato si riferisca ad un soggetto economico determinato, come è inevitabile, non si vede di quali informazioni ulteriori l’imputato avrebbe dovuto disporre, per essere considerato concorrente nel reato-fine).

Ciò premesso, appare per converso evidente che la sentenza di appello non fornisce risposta a buona parte dei profili di doglianza avanzati nell’interesse del G..

Il primo si riferisce appunto al tema delle perizie, appena ricordato come elemento che i giudici di primo grado avevano ritenuto decisivo per inferirne la partecipazione dell’imputato – responsabile dell’area aziendale al cui interno le perizie medesime venivano predisposte – all’ipotizzato sodalizio criminoso.

A riguardo, la Corte di appello non tiene conto delle osservazioni difensive:

a) sul rilievo che fino dal 1997 il gruppo faceva ricorso ad un numero limitato di periti con cui aveva rapporti di collaborazione consolidati, verosimilmente anche perchè ratificassero elaborazioni (affidabili o meno, ma) comunque già curate dagli organi interni alla Mythos. Veniva perciò contestato che quel metodo, già in atto da circa quattro anni prima rispetto alla data di costituzione dell’associazione per delinquere (come ricostruita nel capo d’imputazione), potesse assurgere a tratto distintivo della struttura parallela, visto che caratterizzava anche le attività lecite preesistenti;

b) sul mancato riferimento a specifici elaborati peritali, in ipotesi curati presso l’area aziendale facente capo al G., nella ricostruzione delle operazioni alle quali l’imputato – per quanto poi assolto – si riteneva avesse materialmente partecipato, e ciò sia nella descrizione offerta in dibattimento dai testimoni escussi, anche della Guardia di Finanza, sia nel tenore stesso della rubrica;

c) sulla esclusione di qualunque utilità o vantaggio fiscale per il G. a seguito delle operazioni anzidette, o comunque delle attività illecite in genere realizzate dal gruppo Mythos, a differenza di altri imputati.

Temi, quelli appena evidenziati, che avrebbero in effetti imposto una disamina compiuta, atteso che il Tribunale si era limitato a far presente che l’imputato – in qualità di capo dell’area aziendale – aveva sicuramente avallato la metodologia di lavoro in ordine alle perizie, coordinando gli addetti a quel settore: a riguardo, veniva richiamata “la mail da M. a G. sulla Coop 7, nonchè tutte le mail in argomento da M. o Z. a G.”.

La Corte di appello risulta avere affermato che il ruolo dell’imputato doveva intendersi analiticamente spiegato nelle motivazioni della sentenza del Tribunale, senza che nei motivi di gravame quegli argomenti potessero in qualche modo dirsi contrastati;

ribadisce che il “compito specifico” in cui veniva a sostanziarsi la partecipazione del prevenuto all’associazione criminosa derivava dalla sua posizione di dirigente del settore nel cui ambito erano organizzate le perizie di comodo, tutte da considerare “ideologicamente false poichè in esse il sottoscrittore attesta aver svolto personalmente tutta una serie di attività che in realtà risultavano svolte da altri o addirittura non svolte (quali sopralluoghi o riunioni di lavoro con i responsabili delle società conferenti, esame di documentazione)”. Nè poteva assumere rilievo, come sostenuto dalla difesa del G., la circostanza che il presunto perito compiacente, operante a Pesaro (tale P.), fosse stato assolto, giacchè la sentenza liberatoria nei confronti di quest’ultimo derivava dal fatto che egli “non era in grado di sapere a cosa le perizie servissero”.

Secondo la Corte territoriale, sarebbe da considerare provato che il capo area G. avesse avallato quella metodologia di lavoro e coordinato gli addetti al settore aziendale, come segnalato dai giudici di prime cure: sul punto, sì richiamano ancora – oltre ai dati logici derivanti dalla qualifica di dottore commercialista dell’imputato, e dalla pluriennale attività da lui prestata per il gruppo – i contenuti delle comunicazioni e-mail già ricordate, alcune delle quali inviate al G. dallo Z., indicato dai giudici di appello come “il soggetto maggiormente coinvolto a livello associativo con specifico riferimento alle operazioni di carattere fiscale”.

In realtà, dalla lettura delle pronunce di merito non emerge quale fosse il tenore delle mail in questione, ad eccezione di quella relativa alla “Coop 7”, su cui si tornerà fra breve. Appare invece rilevante quel che riferiscono i testimoni escussi in ordine all’attività dell’area aziendale, secondo quanto evidenzia il Tribunale di Milano: ad esempio, R.F., che nello stralcio della deposizione riportato nella sentenza, aveva affermato che “vi erano delle valutazioni, delle perizie che poi erano a supporto di operazioni straordinarie quali cessioni di quote previa rivalutazione delle partecipazioni stesse., per quanto riguarda la valutazione delle aziende vi era l’area predisposta che era l’area aziendale che appunto preparava le perizie, l’area aziendale faceva capo al Dott. G. e vi lavorava per esempio il Dott. C… l’area fiscale collaborava con l’area aziendale e quindi l’area fiscale determinava o comunque impostava un determinato valore che doveva essere il valore dell’azienda, lo passava all’area aziendale che valutava, faceva la valutazione dell’azienda e poi attraverso periti esterni, valutavano e procedevano con la valutazione della perizia … l’input era dell’area fiscale, io poi non so se l’area fiscale verificava o meno la congruità di tale valore, questo non lo so dire.. “.

I giudici di primo grado, a commento finale della testimonianza del R., segnalano: “da ultimo il teste ha chiaramente affermato che prima veniva stabilito quale fosse di volta in volta il vantaggio fiscale da ottenere e quindi, in funzione di esso, veniva determinato il valore da attribuire al conferimento piuttosto che al bene oggetto di perizia”. Approccio identico, dunque, a quello già riscontrato per altre operazioni, dove i fogli di calcolo excel erano predisposti in modo da impostare come primo dato il risparmio fiscale perseguito dal contribuente: ma quel che qui rileva è che il disegno offerto dal R. depone per un’attività compiuta in primis dall’area fiscale, facente capo al ricordato Z., cui quella aziendale fungeva da supporto tecnico successivo.

L’imputato P., vale a dire il perito “di comodo”, riferisce di avere conseguito per quelle attività un compenso modesto, e dichiara altresì – sempre nella ricostruzione offerta dal Tribunale “che gli era stato spiegato da Z. che la necessità di ricorrere a periti esterni al gruppo era finalizzata ad evidenziare ai clienti che l’operazione non era trattata interamente dal gruppo”. Ergo, ancora per quanto ora di interesse, risulta che il soggetto chiamato a ratificare stime fittizie avesse contatti con il responsabile dell’area fiscale, piuttosto che con quello dell’area aziendale.

C.G. viene indicato dal Tribunale di Milano come “diretto collaboratore di G.”, ed era colui che “si occupava di redigere le bozze delle perizie relative alle valutazioni dell’azienda”: sui valori indicati in tali bozze, secondo i giudici di primo grado, C. aveva riferito che il controllo di P. era del tutto formale, e che si trattava di importi “determinati da un commercialista dell’area fiscale”.

A pag. 7 della motivazione della pronuncia del Tribunale (in un passo poi richiamato dalla Corte di appello) si legge: “che C. avesse pochi contatti diretti con G. – e si interfacciasse piuttosto coi singoli professionisti dell’area fiscale – è circostanza di scarso rilievo, poichè è certo che il secondo – che coordinava l’area – si occupasse di perizie e fosse al corrente delle anomale modalità di esecuzione delle medesime. Ad esempio, si veda la mail inviata a G. da M. sull’operazione Coop 7 … C”..possiamo usare i nostri periti normali, P. va bene, ma ovviamente la perizia la facciamo noi coordinandoti con Z.”)”.

In un contesto da cui emerge che il C., diretto collaboratore del G., presiedeva ad attività illecite relazionandosi a chi operava in altro settore, la ricostruzione in fatto compiuta dai giudici di merito fonda perciò la prova della consapevole partecipazione dello stesso G. sul dato logico offerto da quella sola mail (si ribadisce che nelle motivazioni delle due pronunce non viene precisato quale contenuto abbiano le altre):

tuttavia, al pari di quelle non esplicitate, si tratta di una comunicazione ricevuta, che non si sa se abbia avuto risposta e quale, con cui al G. si dice che dovrà ricevere indicazioni dallo Z., e che il perito avrà il compito di avallare un contenuto predisposto. Ma allora, visto che il C. non aveva contatti diretti con il proprio capo area, rimane sfuggente la prova in concreto della presunta complicità concreta del G. quanto a tutto il resto delle operazioni, che risultano numerose e cui i dipendenti del suo settore cooperavano “interfacciandosi con singoli professionisti dell’area fiscale” e non già con lui; nè la presenza stessa di un responsabile dell’area aziendale appare decisiva per consentire il radicarsi nel gruppo Mythos della prassi di rivolgersi sempre ad un P. di turno, visto che – quando si trattava di indurre i periti a non esagerare con le proprie pretese sui compensi – il M. scriveva allo Z., non al G., che “se D. reclama, gli dici che abbiamo chi ce le fa a meno e senza reclamare” (v.

sempre pag. 7 della sentenza di primo grado).

Le considerazioni appena sviluppate rendono perciò evidente, ad avviso del collegio, la carenza di motivazione della sentenza impugnata nel non avere esaminato i profili dell’appello presentato nell’interesse dell’imputato, sopra enumerati da a) a e): quanto all’ultimo punto, del resto, basterà osservare che la Corte territoriale ritiene di sottolineare per il B. – al fine di considerarlo intraneo all’associazione – anche il particolare dei vantaggi fiscali che egli risultava avere personalmente conseguito, senza invece farsi carico di superare il contrario argomento che in quegli stessi termini era stato sostenuto dalla difesa del G..

Si impone pertanto, con riguardo a quest’ultimo, l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per un nuovo esame sugli aspetti evidenziati.

5. Le questioni relative alla applicazione delle norme penali tributarie.

5.1 Non può trovare accoglimento il nono motivo di ricorso presentato nell’interesse del M., relativo all’interpretazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3.

Scorrendo la rubrica, è agevole riscontrare che secondo l’impostazione accusatoria deve contestarsi – nei confronti di chi rappresenta di avere sostenuto costi – il reato di cui all’art. 2 del citato decreto, laddove la presunta frode consista nell’utilizzo di fatture che si intendano emesse per operazioni inesistenti, e l’art. 3 in presenza di altri artifici, che nella fattispecie sarebbero consistiti nell’accantonamento in contabilità di costi da imputare a fatture ancora da ricevere.

La tesi difensiva, secondo cui nel caso in esame non sarebbero ravvisabili i “mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento”, imposti dalla lettera della legge, non appare condivisibile. In proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha da ultimo affermato che un “mezzo fraudolento” “non può certo identificarsi in mere condotte di mendaci indicazioni di componenti attivi, già considerate dalla norma all’interno della “falsa rappresentazione”. Allo stesso tempo, non parrebbe possibile qualificare come mezzo fraudolento nemmeno la condotta di sottofatturazione dei ricavi, ricorrente allorquando venga … emessa una fattura avente un corrispettivo inferiore a quello reale: …

questa stessa Corte ha precisato come la semplice violazione degli obblighi di fatturazione e registrazione, pur se finalizzata ad evadere le imposte, non è sufficiente, di per sè, ad integrare il delitto in esame, dovendosi invece verificare, nel caso concreto, se essa, per le modalità di realizzazione, presenti un grado di insidiosita tale da ostacolare l’attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria …. E’ allora necessaria, per la realizzazione del “mezzo fraudolento”, la sussistenza di un quid pluris che, affiancandosi alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili e nella dichiarazione, consenta di attribuire all’elemento oggettivo una valenza di insidiosità, derivante dall’impiego di artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile ed a costituire ostacolo al suo accertamento. Ancor più chiaramente, si è detto che integra il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici qualsiasi comportamento del contribuente, maliziosamente teso all’evasione delle imposte ed accompagnato da una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie …. L’affermazione, già resa da questa Corte nella vigenza della normativa ex L. n. 516 del 1982, secondo cui i mezzi fraudolenti possono anche consistere in comportamenti di per se stessi leciti, che acquistano natura illecita solo per il contesto di mendacio contabile a cui sono collegati e per lo scopo fraudolento di impedire agli uffici fiscali la scoperta di detto mendacio …, va infatti ribadita anche con riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3″ (Cass., Sez. 3^, n. 2292 del 22/11/2012, Stecca, Rv 254136).

Ora, nel caso oggi in esame – prendendo spunto a titolo esemplificativo da una delle operazioni contestate ai sensi del menzionato art. 3 – il sistema prevedeva annotazioni in contabilità che richiamavano giustificazioni diverse a fronte delle fatture da emettere (“prestazioni per consulenza gestionale” da una parte, “proventi per intermediazione mobiliare” dall’altra), e soprattutto le società da cui le fatture venivano indicate come di successiva emissione erano del tipo descritto nella stessa premessa delle motivazioni delle sentenze di merito: Eldorado e Doride, fra le altre, avevano tutte sede legale presso lo stesso recapito, non avevano uffici propri nè personale e non risultavano mai avere effettuato, per le operazioni economiche di cui figuravano protagoniste, alcuna reale movimentazione finanziaria. Elementi, quelli appena segnalati, che pur non espressamente richiamati dalla decisione impugnata a sostegno della corretta applicazione della norma incriminatrice qui evocata, debbono intendersi dati per presupposti, e di sicura incidenza sulla configurabilità dei “mezzi fraudolenti” indicati dal testo di legge.

Nè si pone in concreto una duplicazione di contestazioni, non risultando in alcun caso che le fatture da ricevere, prese in esame ai fini degli addebiti ex art. 3 debbano intendersi le stesse poi considerate nei capi d’imputazione concernenti reati di cui al precedente art. 2 (in ipotesi, per gli esercizi successivi).

5.2 Con riguardo alla previsione di cui al D.Lgs. n. 74, art. 9 vari ricorrenti ne deducono l’inosservanza e l’erronea applicazione laddove gli imputati risultano essere stati condannati sia per delitti ex art. 2, che per fatti qualificati ai sensi dell’art. 8, condotte che invece l’art. 9 esclude possano essere addebitate ad un unico soggetto con riguardo alla stessa fattura (da un lato emessa e dall’altro utilizzata). A tal fine, richiamano le indicazioni offerte dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 27 del 25/10/2000, ric. Giordano, secondo le quali l’emittente la fattura non può concorrere nella condotta di successiva utilizzazione, nè l’utilizzatore in quella precedente di emissione, trattandosi rispettivamente di postfatti od antefatti privi di rilevanza penale.

Secondo la Corte territoriale, come pure già secondo il Tribunale di Milano, si deve però registrare che nel caso in esame alcuni soggetti (persone fisiche) risultano contemporaneamente legali rappresentanti sia della società emittente che di quella utilizzatrice la medesima fattura; inoltre, laddove non sia ravvisabile detta identità ed i titolari delle società in questione si debbano invece distinguere, gli imputati avrebbero comunque concorso materialmente con costoro in entrambe le condotte, apportando un contributo rilevante ex art. 110 c.p..

Le conclusioni cui sono pervenuti i giudici di merito appaiono corrette, ove si consideri che in sede di legittimità è stato recentemente precisato che “il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 9 contenente una deroga alla regola generale fissata dall’art. 110 c.p. in tema di concorso di persone nel reato, esclude la rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto emittente, ma non trova applicazione quando la medesima persona proceda in proprio sia all’emissione delle fatture per operazioni inesistenti, sia alla loro successiva utilizzazione” (Cass., Sez. 3^, n. 19247 del 08/03/2012, Desiati, Rv 252545). Nella motivazione di quest’ultima pronuncia, viene affrontato in termini assai analitici un problema di possibile coesistenza “di due fattispecie differenti cui conseguirebbero due diversi regimi giuridici; si tratta di fattispecie che possono essere sintetizzate come segue. La prima risulta integrata dall’ipotesi che due soggetti giuridici diversi e tra loro autonomi definiscano un accordo per la realizzazione di una frode fiscale mediante l’emissione di fatture false da parte di un soggetto e la loro utilizzazione da parte dell’altro. L’onerosità dell’operazione per il soggetto che simula prestazioni non effettuate (debito IVA e debito di II.DD. a fronte di incassi solo formali o seguiti da restituzione “in nero” di parte del pagamento) trova compensazione in vantaggi di natura extracontabile e si accompagna spesso a ulteriori meccanismi fraudolenti (mancata dichiarazione annuale; distruzione della documentazione; e simili). A sua volta, l’utilizzatore delle fatture irregolari si avvantaggia di costi e di debito IVA fittizi, in genere compensando l’emittente con una parte dei vantaggi derivanti dalla frode. Come si vede, si tratta di fattispecie che interessa due soggetti accomunati soltanto dalla prospettiva di un vantaggio economico che, in forme diverse, viene raggiunto mediante il ricorso a fatture che la terminologia corrente qualifica come “false” (f.o.i.), ovvero non corrispondenti ad operazioni effettive. La seconda risulta integrata dall’ipotesi che il soggetto giuridico che ha interesse a utilizzare la f.o.i. dia luogo a una serie di condotte preparatorie e dissimulatorie diverse.

Rientrano in questa ipotesi il meccanismo, tipico delle c.d. “frodi carosello”, che prevede la creazione di soggetti giuridici intermediari che operano come filtro; ma vi rientra anche l’ipotesi di ricorso a fatture irregolari “infragruppo”, nel quale vengono coinvolte società che fanno capo al medesimo controllante che può nei fatti condizionarne la gestione e le soluzioni contabili.

Avendo riguardo alla prima delle ipotesi descritte, deve rilevarsi che nell’operatività della L. n. 516 del 1982, il soggetto utilizzatore delle f.o.i. era considerato dalla giurisprudenza maggioritaria come l’effettivo beneficiario della frode e, dunque, colui che risultava titolare dell’interesse prioritario alla creazione delle fatture irregolari e alla realizzazione di un meccanismo di nascondimento della diversa realtà economica e contabile sottostante. Tale valutazione conduceva a ravvisare non solo una sua responsabilità per la condotta diretta di utilizzazione, ma anche un suo concorso morale nella condotta illecita di emissione posta in essere dal soggetto con cui egli aveva preso accordi, e ciò sotto il profilo della istigazione o del rafforzamento del proposito criminoso nei termini previsti dall’art. 110 c.p.. La disciplina introdotta dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ha inteso modificare tale profilo e ha espressamente previsto che l’utilizzatore non possa essere chiamato a concorrere col diverso soggetto che ha accettato di provvedere all’emissione delle f.o.i.

necessarie alla successiva realizzazione della frode che l’utilizzatore intende concretizzare mediante la presentazione di dichiarazioni infedeli. Sulla base del medesimo principio interpretativo, la persona che ha emesso le f.o.i. non può essere chiamata a rispondere a titolo di concorso con la diversa condotta di utilizzazione posta in essere dal soggetto che le fatture ha ricevuto, iscritto in contabilità e incluso nella dichiarazione annuale”.

A questo punto, esaminata la fattispecie concreta in quel momento sub judice, la decisione in esame rileva che l’attività contestata agli imputati (presunti meri utilizzatori le fatture) non era quella “di avere istigato il soggetto emittente o rafforzato il suo proposito illecito, condotta rilevante ex art. 110 c.p., e non procedibile D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 9, ma di avere emesso in proprio, seppure in concorso “interno” con altre persone, le fatture che poi la società utilizzatrice avrebbe ricevuto e immesso in contabilità per giungere alle dichiarazioni infedeli”. Giunge così a concludere che “si è in presenza, dunque, di una fattispecie non riconducibile alla sfera di applicazione del citato art. 9 …. Ciò che l’art. 9 citato intende evitare non è, in sè, la “doppia” punibilità della medesima persona fisica per la gestione delle medesime fatture, ma la punibilità della medesima persona una volta a titolo diretto per la propria condotta di utilizzazione delle f.o.i. e una seconda volta per concorso morale nella diversa e autonoma condotta posta in essere dall’emittente con cui ha preso accordi”.

A definitiva conferma della correttezza dell’approccio interpretativo così illustrato, la Sezione Terza evoca “l’ipotesi che l’amministratore della società utilizzatrice porti in contabilità una o più f.o.i. emesse da una ditta individuale di cui egli stesso è legale rappresentante. Un’impropria lettura dell’art. 9 citato condurrebbe ad affermare che la condotta di emissione di f.o.i.

D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 8, non può essere coperta da responsabilità penale, attesa l’identità del legale rappresentante del soggetto emittente e di quello utilizzatore, in ciò confondendo nell’unicità della persona fisica i diversi livelli di responsabilità giuridica che debbono, invece, essere tenuti distinti. Senza omettere di rilevare che in tale ipotesi sarebbe impossibile individuare un criterio fondato su basi obiettive per definire quale delle due condotte, di emissione e di utilizzazione, dovrebbe “cedere” rispetto all’altra e risultare non sanzionabile penalmente. Viceversa, una più corretta interpretazione deve condurre a ritenere la persona responsabile sia della condotta di emissione sia della diversa condotta di utilizzazione, con evidentemente probabile applicazione dell’istituto della continuazione fra i due reati ex art. 81 cpv. c.p.”.

Il collegio ritiene di prestare adesione alle argomentazioni appena riportate che, per completezza ed analiticità, meritano di essere pienamente condivise, senza che dall’esame della normativa o della giurisprudenza intervenute medio tempore risultino ragioni di sorta per discostarsi dai principi in quella sede affermati. E’ ictu oculi evidente, peraltro, come nella fattispecie oggi portata all’attenzione di questa Corte gli addebiti contestati debbano ricondursi alla seconda delle ipotesi formulate in via introduttiva nella motivazione adottata dalla Sezione Terza, sì da rendere rituale l’esclusione dell’operatività del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 9.

5.3 Sono invece fondati i motivi di ricorso relativi alla inosservanza ed erronea applicazione dello stesso D.Lgs. n. 74, art. 10 quater.

Come rilevato nell’interesse di più imputati, il Tribunale di Milano ha ritenuto la norma appena ricordata in rapporto di continuità normativa con l’art. 640 c.p., rispetto al quale conterrebbe previsioni sanzionatorie di maggior favore, dunque applicabili ai sensi dell’art. 2 c.p.; interpretazione da censurare, secondo i ricorrenti, già in base alle indicazioni offerte dalla più volte ricordata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, n. 1235 del 28/10/2010, ric. Giordano (nei ricorsi in esame viene spesso riportata la data del deposito).

Quest’ultima pronuncia, in vero, risulta avere affermato il principio espresso nella massima ufficiale Rv 248865 – secondo cui “è configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2 ed 8,) ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 c.p., comma 2, n. 1), in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni”. In motivazione, il massimo organo di nomofilachia ha precisato, dopo una diffusa disamina dei principi generali della dogmatica penale che non è questa la sede per ripercorrere, che “qualsiasi condotta di frode al fisco non può che esaurirsi all’interno del quadro sanzionatorio delineato dalla apposita normativa”, e che anche da plurime novelle legislative si ricava la conferma che “il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali”.

Discutendosi di frode fiscale, in definitiva, non c’è dubbio che oggi non siano correttamente ipotizzabili contestazioni ex art. 640 cpv. c.p., n. 1: debbono trovare applicazione, in via esclusiva e per effetto del ricordato rapporto di specialità, soltanto le previsioni di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8. Per converso, avuto riguardo ad ipotetiche condotte commesse prima dell’entrata in vigore di quest’ultimo testo di legge, vi sarebbe spazio sul piano concettuale per discutere di continuità normativa fra gli addebiti in esame, ma – nello specifico delle condotte di emissione od utilizzazione di fatture a fronte di operazioni inesistenti – esistevano già le fattispecie incriminatrici di cui al D.L. n. 429 del 1982, art. 4 convertito nella L. n. 516 dello stesso anno. Ne deriva che, con l’affermazione di principio in ordine alla autosufficienza del sistema repressivo apprestato dal diritto penale tributario (sia con il precedente che con l’attuale assetto normativo), la sentenza Giordano di fatto esclude che alle condotte di frode fiscale stricto sensu sia mai stata applicabile la norma generale sanzionatoria della truffa.

Occorre però chiedersi quali siano i limiti di portata applicativa dei principi espressi dalla suddetta sentenza con riguardo a figure criminose diverse, problema affrontato dalla Sezione Terza di questa Corte (sentenza n. 37044 del 30/05/2012, Agenzia delle Entrate di Roma) non già con riguardo al delitto D.Lgs. n. 74, ex art. 10 quater bensì a quello del precedente art. 10, relativo alle ipotesi di occultamento o distruzione di documenti contabili. Nella motivazione di detta pronuncia si è rilevato che la sentenza delle Sezioni Unite “espressamente affronta il tema del rapporto di specialità fra il delitto ex art. 640 c.p., comma 2, e quello/quelli di “frode fiscale” avendo come riferimento non tutte le disposizioni del citato D.Lgs., ma solo quelle che sanzionano la presentazione di dichiarazione infedele e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Richiamata la ratto della riforma dell’anno 2000 …, le Sezioni Unite hanno ritenuto che le condotte ex art. 2 ed art. 8, citati, comportando una fraudolenta esposizione di costi e ricavi tali da alterare l’ammontare delle imposte dovuto dagli autori del reato, contengono in sè tutti gli elementi propri della sottrazione di somme al bilancio statale e, dunque, escludono che per tale sottrazione gli autori possano rispondere anche ai sensi dell’art. 640 c.p., comma 2. Così fissato il rapporto di specialità esistente tra il delitto di truffa aggravata e quello di frode fiscale, appare evidente che la condotta il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 10 non presenta alcuna delle caratteristiche che rendono i suddetti artt. 2 e 8 “speciali” rispetto all’art. 640, comma 2, citato. La condotta di distruzione o occultamento della documentazione, infatti, non comporta da sola alcuna alterazione delle somme riportate in contabilità e nella dichiarazione annuale, così che non incide sui rapporti di debito/credito con l’Amministrazione finanziaria e rimane priva della natura di frode comportante un danno diretto per l’Erario. La condotta … costituisce, piuttosto, una delle operazioni artificiose funzionali alla dichiarazione fraudolenta e alla falsificazione dei dati contabili, avendo la finalità di ostacolare la ricostruzione dei dati contabili e dei fatti, di impedire l’identificazione degli autori delle frodi e, in altri termini, di creare uno schermo tra costoro e gli organi accertatori così da assicurare l’impunità alle persone e di impedire il recupero delle somme altrimenti evase. Non vi è, dunque, alcuna ragione per ritenere che i principi fissati dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite operino anche per il reato previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10″.

Ritiene il collegio che le osservazioni appena riportate siano certamente da condividere, atteso che la norma di cui all’art. 10 disegna una fattispecie che non appare ex se caratterizzata da frode:

basti considerare, infatti, che alla condotta tipica di occultamento o distruzione di documentazione contabile il fine di evasione delle imposte da una connotazione soltanto in termini di dolo specifico.

Ergo, visto che le Sezioni Unite limitarono doverosamente le proprie valutazioni al rapporto di specialità esistente fra i reati tributari con condotta fraudolenta e la truffa (nè avrebbe potuto essere diversamente, richiedendo quel delitto contro il patrimonio a forma vincolata la necessità di artifici o raggiri), nessuno spazio di applicazione dell’art. 15 c.p. potrebbe esservi in caso di contemporanea contestazione di violazioni all’art. 640 c.p. ed al D.Lgs. n. 74, art. 10. Coerentemente, affrontando lo stesso problema su un piano di diritto intertemporale, non si potrebbe ritenere già sanzionato ex art. 640 un comportamento di occultamento o distruzione di documenti che si assuma commesso prima del 2000.

A identiche conclusioni, ma per altra via, sembra peraltro doversi pervenire anche con riguardo al delitto di cui all’art. 10 quater introdotto soltanto nel 2006, perciò in epoca successiva rispetto alle presunte date di commissione dei reati qui contestati ai capi G2) ed H2), inizialmente qualificati ex art. 640 c.p., comma 2, n. 1:

ciò perchè, pur volendo dare una lettura estensiva della locuzione “condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale” utilizzata dalle Sezioni Unite nella sentenza Giordano, non sembra – come in effetti rilevato dalle difese dei ricorrenti – che la condotta tipica presa in esame dalla norma di nuova introduzione contempli un volontario atto di disposizione patrimoniale da parte del soggetto passivo, nel senso richiesto dalla fattispecie incriminatrice in tema di truffa.

Sono ancora una volta le Sezioni Unite (sentenza n. 155 del 29/09/2011, ric. Rossi) a chiarire che “nella formulazione dell’art. 640 c.p. la condotta tipica, consistente nella realizzazione di artifici o raggiri, introduce una serie causale che porta agli eventi di ingiusto profitto con altrui danno passando attraverso l’induzione in errore; e che l’induzione in errore pur rappresentando il modo in cui si manifesta il nesso causale, non lo esaurisce. Dottrina e giurisprudenza tradizionalmente concordano nel rilevare che il passaggio dall’errore agli eventi consumativi deve essere contrassegnato da un elemento sottaciuto dal legislatore, costituito dal comportamento “collaborativo” della vittima che per effetto dell’induzione arricchisce l’artefice del raggiro e si procura da sè medesimo danno. La collaborazione della vittima per effetto del suo errore rappresenta in altri termini il requisito indispensabile perchè ingiusto profitto e danno possano dirsi determinati dalla condotta fraudolenta dell’agente; e costituisce il tratto differenziale del reato in esame rispetto ai fatti di mera spoliazione da un lato, ai reati con collaborazione della vittima per effetto di coartazione dall’altro. Tradizionalmente codesto requisito implicito, ma essenziale, della truffa quale fatto di arricchimento a spese di chi dispone di beni patrimoniali, realizzato tramite lo stesso grazie all’inganno, è definito “atto di disposizione patrimoniale”.

La definizione è tuttavia imprecisa, nel senso che apparentemente evoca categorie civilistiche rispetto alle quali è impropria. Nulla nella formulazione della norma consente difatti di restringere l’ambito della “collaborazione carpita mediante inganno” ad un atto di disposizione da intendersi nell’accezione rigorosa del diritto civile e di escludere, all’inverso, che il profitto altrui e il danno proprio o di colui del cui patrimonio l’ingannato può legittimamente disporre, sia realizzato da costui mediante una qualsiasi attività rilevante per il diritto, consapevole e volontaria ma determinata dalla falsa rappresentazione della realtà in lui indotta. Più corretto e semplice è allora dire che per l’integrazione della truffa occorre, e basta, un comportamento del soggetto ingannato che sia frutto dell’errore in cui è caduto per fatto dell’agente e dal quale derivi causalmente una modificazione patrimoniale, a ingiusto profitto del reo e a danno della vittima. Se, insomma, il senso riposto dell’atto di disposizione è che il danno deve potersi imputare ad un’azione che viene svolta all’interno della sfera patrimoniale aggredita, causata da errore e produttiva di danno e ingiusto profitto, il profilo penalisticamente rilevante della cooperazione della vittima non deve necessariamente riposare nella sua qualificabilità in termini di atto negoziale e neppure di atto giuridico in senso stretto, bastando la sua idoneità a produrre danno. Il così detto atto di disposizione ben può consistere per tali ragioni in un permesso o assenso, nella mera tolleranza o in una traditio, in un atto materiale o in un fatto omissivo: quello che conta è che sia un atto volontario, causativo di ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall’errore indotto da una condotta artificiosa”.

In quella fattispecie concreta, veniva conclusivamente affermato che l’atto volontario richiesto dall’art. 640 c.p. può anche consistere in una “dazione di denaro effettuata nella erronea convinzione di dovere eseguire un ordine del giudice conforme a legge”. Non si trattava, dunque, di una semplice omissione od inerzia: e si deve ritenere, stando al dictum delle Sezioni Unite, che il “fatto omissivo” idoneo a concretizzare una disposizione patrimoniale rilevante, per potersi parlare di truffa, sia pur sempre il risultato immediato di una volontaria rinuncia ad un facere.

Analizzando allora il precetto disegnato dal D.L. n. 74 del 2000, art. 10 quater si deve senz’altro affermare che quella di non versare all’Erario somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti o inesistenti, appare condotta lato sensu fraudolenta, ma a tale elemento in fatto (ai fini della consumazione del reato) non è richiesto debba aggiungersi un atto di disposizione patrimoniale da parte della pubblica amministrazione. Anche sul piano cronologico, è evidente che la sequenza artificio – induzione in errore – atto di disposizione – profitto (e danno) tipica della truffa è qui del tutto stravolta, perchè si ha immediatamente il profitto all’atto del versamento della minor somma, o dell’omissione di qualunque versamento, poi (al più, contestualmente) l’artificio, consistente nella presentazione della dichiarazione in cui si dà atto dei presunti crediti da compensare; ciò del tutto indipendentemente dall’efficacia o dalla stessa evenienza di successivi controlli, in cui verrebbe a sostanziarsi la volontaria (per quanto frutto di errore indotto) partecipazione del soggetto passivo.

Il collegio non ignora, come del resto segnalato da alcuni ricorrenti, che secondo la sentenza n. 7662 del 14/12/2011 della Sezione Terza (ric. Mo.) la condotta sanzionata dall’art. 10 quater avrebbe dovuto intendersi già di rilievo penale, ancor prima del 2006, sotto altro profilo: in particolare, perchè rientrante nell’alveo della fattispecie incriminatrice ex art. 316-ter cod. pen. Non si ritiene tuttavia di condividere tale interpretazione.

Nella motivazione della pronuncia da ultimo ricordata, viene richiamato un ulteriore precedente delle Sezioni Unite (sentenza n. 16568 del 19/04/2007, ric. Carchivi), e si segnala che in quella occasione era stato affermato “il principio secondo cui integra il reato di indebita percezione di elargizioni a carico dello Stato previsto dall’art. 316 ter c.p., comma 1, e non quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 bis c.p., l’indebito conseguimento, nella misura superiore al limite minimo in esso indicato, del cosiddetto reddito minimo di inserimento previsto dal D.Lgs. 18 giugno 1998, n. 237. L’importanza della decisione sta … proprio nelle motivazioni della sentenza con cui sono state sottolineate l’autonomia e la complementarietà delle due figure criminose, rilevandosi in particolare che l’art. 316 ter è riservato a situazioni come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale. Rilevano infatti le Sezioni Unite come, in molti casi, il procedimento di erogazione delle pubbliche sovvenzioni non presuppone l’effettivo accertamento da parte dell’erogatore dei presupposti del singolo contributo, ma ammette che il riconoscimento e la stessa determinazione del contributo siano fondati, almeno in via provvisoria, sulla mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una fase successiva le opportune verifiche …. Ora, il nucleo comune delle due disposizioni (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater, e art. 316 ter c.p.) sta proprio nella falsità ideologica della dichiarazione, attestandosi nell’ipotesi del reato fiscale l’esistenza di crediti inesistenti da portare in compensazione. L’art. 10 quater citato richiede, peraltro, solo il dolo generico, senza l’ulteriore intento specifico di evasione”.

A riguardo, deve tuttavia prestarsi adesione alle censure sviluppate nel ricorso dei difensori del M.i: l’art. 316 ter c.p. riguarda il conseguimento indebito di “contributi, finanziamenti, mutui agevolati od altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee”, e non sembra affatto che il riconoscimento di un credito di imposta possa essere assimilato alle menzionate categorie di atti (questi sì) di disposizione patrimoniale. Come giustamente osservato nell’interesse del ricorrente, “il credito di imposta al socio è, semplicemente, la restituzione al socio dell’imposta pagata a monte dalla società, necessaria per il corretto calcolo dell’imposta a saldo. Non si tratta di un finanziamento o agevolazione, ma della restituzione di una imposta:

chi, ipoteticamente, commetta frodi in tale contesto, non froda per ottenere contributi, abusando delle norme che prevedono erogazioni agevolative e simili, ma, ed è cosa completamente diversa, cerca di pagare una minore imposta”.

Conclusivamente, deve pertanto affermarsi che con il D.L. n. 223 del 2006 si è introdotto un novum nel diritto penale tributario, prima non contemplato dalla normativa speciale: e quel comportamento non poteva intendersi già sanzionabile ex art. 640 c.p.. Ne deriva la conclusione dell’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, nei limiti dei fatti come sopra riqualificati, perchè insussistenti (non essendo previsti dalla legge come reato all’epoca della presunta commissione).

Va precisato che l’annullamento riguarda le condanne pronunciate con riferimento ai reati sub G2) ed H2): per quest’ultimo, però, la riqualificazione ai sensi dell’art. 10 quater non ha riguardato l’intera condotta contestata, ma solo quella di cui al secondo alinea, dove si richiamano comportamenti strumentali alla creazione di crediti di imposta inesistenti, onde neutralizzare mediante compensazione quanto dovuto dalla società cliente Moretti S.p.a.

(poi denominata Fruges S.p.a.). La prima parte dell’addebito si riferisce invece alla creazione di minusvalenze, e risulta riqualificata ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, già ricordato art. 3: sul punto, la sentenza non risulta oggetto di impugnazione.

5.4 In parte fondati risultano altresì i motivi di ricorso presentati nell’interesse del B. quanto alla declaratoria di responsabilità penale intervenuta nei suoi confronti in ordine ai reati-fine del sodalizio. Non possono condividersi, in vero, le doglianze mosse dai suoi difensori a proposito della mancanza di prova di un suo contributo materiale, ovvero di una sua partecipazione sul piano psicologico, nella realizzazione dei reati tributari contestatigli: come già ricordato, è proprio muovendo dalla verifica delle peculiarità dei singoli reati-scopo che, nel caso di specie, si è pervenuti da parte dei giudici di merito a delineare il sodalizio criminoso che vi era sotteso (sia pure con alcune distinzioni nel percorso argomentativo delle due sentenze, che comunque non alterano la comune ricostruzione in fatto). Ergo, le ragioni sopra evidenziate circa la sicura partecipazione del B. al reato associativo valgono anche per superare le obiezioni difensive qui in esame.

Non può altresì convenirsi con la difesa dell’imputato circa presunte carenze motivazionali della sentenza impugnata, a fronte dei motivi di appello presentati, avendo comunque la Corte territoriale fatto riferimento agli elementi che dovevano intendersi indicativi della partecipazione del B. alle varie condotte criminose (fra cui, a mero titolo di esempio, la circostanza che nella generalità delle comunicazioni via e-mail acquisite figurasse tra i destinatari un soggetto recante l’acronimo dell’imputato).

Meritano invece accoglimento le censure della difesa con riguardo alla contraddittorietà della motivazione della sentenza di secondo grado che, assolvendo il B. quanto al reato associativo limitatamente ad una sua partecipazione posteriore al 29/09/2005 (data del suo arresto, sopra ricordato), non ha ritenuto di trame analoghe conseguenze anche con riferimento ai reati-fine da collocare nello stesso ambito temporale, se non con riguardo al solo delitto contestato al capo B17). E’ verosimile che ciò derivi da una valutazione meramente erronea del dictum della sentenza del giudice di prime cure, avendo la stessa Corte affermato a pag. 31 che il Tribunale di Milano “ha operato una cesura temporale ed ha limitato la partecipazione del B. ai reati fiscali commessi prima del suo arresto”, quando così non era.

Ne deriva l’annullamento senza rinvio della sentenza medesima, anche con riferimento agli altri addebiti successivi alla data suindicata, meglio indicati in dispositivo, perchè non può ritenersi che il B. li abbia commessi.

6. Il ricorso presentato nell’interesse dell’ A..

La difesa dell’ A. contesta in primis che all’imputato debba riconoscersi la veste di pubblico ufficiale, non risultando dimostrato che gli spettassero le qualifiche di esattore o di messo notificatore, nè che comunque avesse in concreto esercitato dette funzioni.

La giurisprudenza di legittimità ha già da tempo segnalato che lo svolgimento di attività esattoriale implica l’esercizio di pubbliche funzioni, anche a prescindere dall’essere l’autore dipendente o meno dell’ente presso cui si trovi di fatto ad operare (v. Cass., Sez. 6^, n. 10609 del 05/10/1992, Cristofaro). Ed in realtà, stando alle indicazioni offerte dalla sentenza di appello, l’imputato doveva intendersi – quale dipendente dell’Esatri – equiparato ad un ufficiale esattoriale: secondo la ricostruzione dei giudici di merito, in sostanza, egli “quietanzava pagamenti effettuati dai contribuenti”. La contestazione della difesa in ordine a tale veste involge pertanto il fatto, sollecitando in sostanza questa Corte a rivalutare le acquisizioni istruttorie – intento chiaramente palesato con il secondo motivo di ricorso – per verificare se possa in concreto affermarsi che l’ A. quietanzasse pagamenti (fra l’altro, si fa rilevare che egli era preposto solamente allo sportello riservato alle pratiche di rimborso): ferma l’inammissibilità del gravame, limitatamente a tale aspetto, non sembra comunque possa esservi stato alcun travisamento della prova, ove solo si tenga presente che “Esatri” è acronimo di Esazione Tributi, ed è pertanto intuitivo che per un addetto allo sportello (se queste erano le mansioni del prevenuto) l’attestare un avvenuto pagamento od anche la presentazione di una istanza di rimborso costituissero attività tipiche, di palese contenuto certificativo.

Nello specifico delle pratiche cui il gruppo Mythos era interessato, egli non era chiamato a quietanzare alcunchè, visto che lo Z. si rivolgeva a lui per seguire appunto l’erogazione di rimborsi: ma, si ribadisce, si tratta di aspetto non rilevante in punto di ricostruzione della qualifica pubblicistica da riconoscere all’ A., che si trovò a compiere un atto – su sollecitazione del suddetto Z. – rientrante nelle competenze dell’ufficio di appartenenza, come più diffusamente rilevato nella sentenza del Tribunale. A pag. 70 della pronuncia di primo grado si sottolinea infatti che in relazione a quell’atto (lo sblocco delle pratiche) l’ A. “aveva qualche possibilità di ingerenza, sia pure di mero fatto”, ed aveva altresì “di fatto esercitato la sua influenza istituzionale, ad esempio telefonando a Ch.”, vale a dire il collega preposto al centro operativo di Pescara, presso cui le pratiche erano giacenti.

Assai significativo appare, del resto, il tenore di una e-mail parimenti riportata nella sentenza dei giudici di prime cure a pag.

67, inviata dallo Z. al M. il 28/04/2004 e che si conclude con la frase “resta comunque problema che dobbiamo convincere Esatri a telefonare a Pescara ma penso si possa fare”: che poi per Esatri si intendesse l’ A. è circostanza pacifica, visto che poche righe addietro lo stesso Z. aveva precisato apertis verbis al M. “in Esatri il rapporto con il nostro uomo (tale A.D.) è sempre buono, mi ha trattato molto bene”.

Nel sollecitare il disbrigo di quelle pratiche l’imputato si trovò pertanto a compiere un atto di ufficio, per quanto non contrario ai propri doveri (di qui la già intervenuta derubricazione dell’addebito in quello di corruzione impropria, peraltro susseguente): ciò in quanto “l’atto d’ufficio, inteso non in senso strettamente formale ma anche come comportamento materiale, per essere qualificato tale, a prescindere dalla sua contrarietà o conformità ai doveri, deve essere esplicazione dei poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente esercitata e presuppone – per così dire – la necessità di una congruità tra esso, in quanto oggetto dell’accordo illecito, e la posizione istituzionale del soggetto pubblico contraente” (v. Cass., Sez. 6^, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella).

In ordine al dolo, costituiscono mere allegazioni difensive le tesi secondo cui l’ A. non sarebbe stato consapevole che quella specifica attività da lui svolta rientrasse in un servizio disciplinato nelle forme della pubblica funzione, o che a seguito di quell’attivo interessamento lo Z. od altri lo avrebbero remunerato con un orologio o diversa utilità: proprio in quanto intraneo ad un ufficio preposto ad attività di esattoria, seppure non investito direttamente di funzioni decisorie sulle pratiche di interesse della Mythos, è in re ipsa che l’ A. si rendesse conto di quali regole dovessero presiedere ad una pratica di rimborso; inoltre, è pacifico che l’imputato fosse solito ricevere regalie più o meno periodiche, seppure di modesto valore, dalla stessa Mythos (profili della contestazione oggetto di parziale assoluzione), ed è quindi ragionevole ritenere che, almeno in punto di dolo eventuale, egli si prefigurasse una retribuzione correlata al grandissimo interesse che il gruppo dimostrava di coltivare verso le pratiche da sbloccare, trattandosi di somme decisamente importanti.

Tant’è vero che, ricevuto il donativo di un orologio del valore di circa 2.000,00 Euro, egli non manifestò alcuna riserva, affrettandosi invece a ringraziare lo Z. (che già il 29/12/2004, in una mail indirizzata al B. recante non a caso oggetto ” A.”, scriveva “mi ha chiamato per ringraziare, l’orologio è piaciuto molto).

7. Le questioni sul trattamento sanzionatorio.

In punto di entità delle pene irrogate, come pure sulla negazione delle circostanze attenuanti generiche, hanno presentato motivi di ricorso i difensori del M. e del B. (le doglianze esposte nell’interesse del G. debbono ovviamente intendersi assorbite dall’annullamento con rinvio della sentenza della Corte di appello di Milano, in parte qua).

Va ricordato tuttavia che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p., sicchè è inammissibile la censura che, nel giudizio di Cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità del trattamento sanzionatorio (v., ex plurimis, Cass., Sez. 3^, n. 1182 del 17/10/2007, Olia).

La sentenza di primo grado ha diffusamente argomentato sulla necessità di muovere, sia per il M. che per il B., da una pena base superiore al minimo edittale, evidenziando in proposito una pluralità di ragioni; mentre la sentenza della Corte territoriale ha ricordato l’impossibilità di far derivare da un pregresso stato di incensuratezza, in presenza degli elementi di contrario tenore esposti nella pronuncia in quella sede impugnata, un automatico giudizio di meritevolezza delle circostanze ex art. 62 bis c.p.. Nè, di fronte ad una parziale assoluzione come quella pronunciata per il B. quanto alla durata della sua partecipazione al reato associativo, poteva dirsi sussistente alcun obbligo di riduzione della pena in termini di proporzione matematica.

La giurisprudenza di questa Corte è peraltro consolidata nel senso che “la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62 bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purchè non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (v. Cass., Sez. 6^, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi). Peraltro, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole od all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Cass., Sez. 2^, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone).

8. I reati da considerare estinti per sopravvenuta prescrizione L’annullamento con rinvio della sentenza impugnata quanto alla posizione del G. è assorbente del quinto motivo di ricorso presentato nell’interesse di quest’ultimo, dove si invoca in subordine una declaratoria di estinzione del reato associativo perchè il contributo dello stesso G. dovrebbe farsi risalire ad epoca precedente rispetto a quella ritenuta in rubrica.

Nei riguardi degli altri imputati, occorre considerare che:

– al M. si addebitano i reati sub A, B7), B9), B13), B16), B17), C2), C3), C4), D1), D2), D3), E1), E3), E3-bis), E4), G1), G2), H1), H2), I1), I2), I3), I4) ed I6); fra questi, vi è stata declaratoria di parziale prescrizione in appello per i capi E1) (limitatamente alle fatture emesse da Mythos nel 2003, da Ma. ai fatti commessi fino al maggio 2005), G1) (limitatamente ai fatti commessi nel 2004) e H1) (limitatamente ai fatti commessi nel 2004); nei riguardi del solo M., i reati di cui ai capi B13) (limitatamente al fatto commesso nel 2004), C2), D1), D2), D3), I1), I3), I4) (limitatamente al fatto commesso nel 2004) e I6) (limitatamente al fatto commesso nel 2004);

l’unico reato ascritto all’ A., sub F2), da intendersi commesso nel dicembre 2004.

Per la rideterminazione delle pene si impone parimenti il rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano, visto che non in tutti i casi risulta chiarito dai giudici di merito se la singola articolazione della condotta contestata nei vari capi di imputazione costituisca segmento autonomamente valutabile ai fini del cumulo giuridico (ad esempio, con riguardo a fatture emesse in uno stesso esercizio). Resta comunque impregiudicato che, con riferimento ai reati non rientranti nella anzidetta declaratoria di prescrizione, la sentenza di condanna pronunciata nei confronti del M., del B. e del Br. deve intendersi passata in giudicato.

9. Le questioni civilistiche.

Stante il parziale annullamento della sentenza impugnata, conseguente al venir meno – non solo per prescrizione – di taluni addebiti, le disposizioni relative alle provvisionali disposte nei confronti del M., del B. e del Br. debbono essere conseguentemente annullate, con rinvio per l’eventuale rideterminazione ad altra sezione della Corte di appello di Milano.

Peraltro, con riguardo al solo B. e per effetto della parziale assoluzione pronunciata nei suoi confronti già all’esito del giudizio di secondo grado, sarebbe stato in effetti doveroso rivedere la misura della provvisionale, ovvero esplicitare le ragioni del mantenimento, sul punto, dello stesso dictum di cui alla sentenza di primo grado. Le ragioni di doglianza del G., di cui al sesto motivo di ricorso, debbono intendersi assorbite dal più volte ricordato annullamento con rinvio, già agli effetti penali.


P.Q.M.


1. Annulla senza rinvio le statuizioni della sentenza impugnata nei confronti di A.D., in ordine al reato sub F2) a lui ascritto, per essere detto reato estinto per intervenuta prescrizione;

2. annulla senza rinvio le statuizioni della sentenza impugnata:

nei confronti di M.A.A., B. G. e Br.Ca., quanto ai reati sub G2) ed H2) (limitatamente per quest’ultimo alla dichiarazione presentata da “Moretti S.p.a.”, poi “Fruges S.p.a.”), perchè i fatti non sussistono;

– nei confronti di B.G., quanto ai reati sub B9) (limitatamente al fatto commesso il 19/10/2005), B16), E1) (limitatamente ai fatti successivi al 29/09/2005), E3), E3-bis) (limitatamente ai fatti successivi al 29/09/2005), H1) (limitatamente ai fatti successivi al 29/09/2005) e H2) (quanto ai fatti ulteriori rispetto alla dichiarazione presentata da “Moretti S.p.a.”, poi “Fruges S.p.a.”), per non avere l’imputato commesso i fatti contestati;

– nei confronti di M.A.A. e B. G., quanto ai reati di cui ai capi B7), B9) (limitatamente al fatto commesso il 28/10/2004), E1) (limitatamente ai fatti commessi fino al maggio 2005), G1) (limitatamente ai fatti commessi nel 2004) e H1) (limitatamente ai fatti commessi nel 2004), per essere detti reati estinti per intervenuta prescrizione;

nei confronti di M.A.A., quanto ai reati di cui ai capi B13) (limitatamente al fatto commesso nel 2004), C2), D1), D2), D3), I1), I3), I4) (limitatamente al fatto commesso nel 2004) e I6) (limitatamente al fatto commesso nel 2004), per essere detti reati estinti per intervenuta prescrizione;

3. rigetta nel resto i ricorsi degli stessi M., B. e Br.;

4. annulla le statuizioni civili concernenti le provvisionali disposte a carico di M.A.A., B. G. e Br.Ca.;

5. rinvia il processo ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, per la rideterminazione delle pene rispettivamente inflitte a M.A.A., B.G. e B. C., nonchè dell’entità delle provvisionali, quanto alle contestazioni non incluse nell’annullamento senza rinvio di cui al punto 2;

6. annulla le statuizioni della sentenza impugnata nei confronti di G.M., in ordine al reato sub A) a lui ascritto, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, per nuovo esame sul punto.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2013