201411.26
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Cass., sez. trib., 26 novembre 2014, n. 25100 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., rappr. e dif.

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, elett. dom. nei relativi uffici, in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

Z.E.B., rappr. e dif. dall’avv. GUSSAGO ARTURO, con elezione di domicilio presso lo studio dello stesso in Brescia, via F.lli Ugoni n. 32;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza Comm. Trìbut. Reg. Lombardia, sez. distacc. Brescia 10.3.2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 25 settembre 2014 dal Consigliere relatore Dott. Massimo Ferro;

udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo – Motivi della decisione


IL PROCESSO. Agenzia delle Entrate impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale Lombardia, sezione distaccata Brescia, 10.3.2009 che, accogliendo in parte l’appello del contribuente Z.E. B. avverso la sentenza C.T.P. di Brescia 470/01/2008, ebbe dichiarare la illegittimità dell’avviso di accertamento relativo ad IRPEF, IRAP ed IVA per l’anno d’imposta 2003, avendo riguardo alla “ripresa relativa ai maggiori ricavi non dichiarati e al costo delle spese pubblicitarie”.

Invero la C.T.R. rilevò – per quanto qui di interesse – che l’accertamento in ordine ai maggiori ricavi si era fondato essenzialmente sul ‘criterio della redditività, senza però costituire una presunzione grave precisa e concordante, nè potendo basarsi su ripetute e gravi irregolarità contabili, tali da rendere inattendibili le scritture nel loro complesso. A sua volta, il contribuente aveva efficacemente confutato l’univocità del risultato dell’accertamento, conducendo a congruità i ricavi dichiarati rispetto ai parametri applicati. Patimenti, doveva riconoscersi la spettanza della deduzione per la spesa di sponsorizzazione, in quanto certamente sostenuta, collegata a contratto non richiedente la forma scritta e tale da non imporre il “criterio del ritorno in termini economici dell’investimento” a sicura misura della rilevanza fiscale dell’esborso.

Il ricorso è affidato a sette motivi ed è resistito con controricorso dal contribuente.

I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE. Con A primo motivo, il ricorrente ha dedotto la violazione di legge con riguardo al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, artt. 2727 e 2728 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo errato la C.T.R. ove non ha riconosciuto che l’applicazione al costo del venduto delle percentuali di ricarico utilizzate dall’Ufficio – nella specie, percentuale media ponderata aziendale per categoria di prodotto o, in difetto, quella dichiarata – non integrasse presunzione grave, precisa e concordante dell’esistenza di ricavi ovvero (ai fini IVA) corrispettivi risultanti dal prodotto delle due grandezze.

Con il secondo motivo, il ricorrente ha dedotto il vizio di motivazione su fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, avendo omesso la C.T.R. di dar conto che le percentuali di ricarico utilizzate erano state riferite, già nel processo verbale di constatazione, all’azienda del contribuente.

Con il terzo motivo, il ricorrente ha dedotto il vizio di motivazione su fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, avendo insufficientemente dato conto la C.T.R. di come, con calcoli del contribuente, si sarebbe potuto pervenire a risultati di ricarico e ipotesi di ricavi/corrispettivi inferiori a quelli accertati dall’Ufficio.

Con il quarto motivo, il ricorrente ha dedotto il vizio di motivazione su fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, avendo insufficientemente dato conto la C.T.R. di come sia stata ritenuta congrua dalla parte la somma dei ricavi dichiarati rispetto a supposti e non altrimenti precisati parametri ministeriali.

Con il quinto motivo, il ricorrente ha dedotto la nullità della sentenza, per ultrapetizione e violazione di legge con riguardo al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, e all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, avendo mal qualificato la C.T.R. il costo della sponsorizzazione, ritenuto inerente non quale spesa di pubblicità (contestata dall’Ufficio), bensì spesa di rappresentanza (domanda non proposta dalla parte).

Con il sesto motivo, il ricorrente ha dedotto il vizio di motivazione su fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, avendo insufficientemente dato conto la C.T.R. di come sia stata ritenuta la somma per spese di sponsorizzazione compatibile con la natura pubblicitaria dello stesso.

Con il settimo motivo, il ricorrente ha dedotto la violazione di legge con riguardo al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo errato la C.T.R. ove non ha riconosciuto la deducibilità della spesa di rappresentanza, da imputare all’esercizio 2003 solo per una quota, anzichè integralmente, con ripresa a tassazione almeno parziale, tenuto conto del criterio di deducibilità per 1/3 del suo ammontare per quote costanti quando è stata sostenuta e nei quattro esercizi successivi.

1. Va innanzitutto respinta l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, quale formulata dal controricorrente, in punto di nullità per mancato conferimento della procura ad litem, operando in tema il principio, cui questo Collegio intende dare continuità, per cui In tema di contenzioso tributario, l’Avvocatura dello Stato, per proporre ricorso per cassazione in rappresentanza dell’Agenzia delle entrate, deve avere ricevuto da quest’ultima il relativo incarico, del quale, però, non deve farsi specifica menzione nel ricorso atteso che l’art. 366 c.p.c., n. 5), inserendo tra i contenuti necessari del ricorso “l’indicazione della procura, se conferita con atto separato”, fa riferimento esclusivamente alla procura intesa come negozio processuale attributivo dello “ius postulando”, (peraltro, non necessario quando il patrocinio dell’Agenzia delle entrate sia assunto dall’Avvocatura dello Stato) e non invece al negozio sostanziale attributivo dell’incarico professionale al difensore. (Cass. 14785/2011). Va così ripreso l’orientamento statuito da Cass. s.u. 23020/2005 secondo cui Nell’ipotesi di rappresentanza processuale facoltativa degli enti pubblici da parte dell’Avvocatura dello Stato, non è necessario che l’ente rilasci una specifica procura all’Avvocatura medesima per il singolo giudizio, risultando applicabile anche a tale ipotesi, a norma del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 45, la disposizione dell’art. 1, secondo comma, del R.D. cit., secondo cui gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede senza bisogno di mandato.

(Fattispecie relativa ad agenzia fiscale, in rapporto alla quale il patrocinio facoltativo dell’Avvocatura dello Stato è previsto dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 72) (conf. in prosieguo Cass. 11227/2007, 3427/2010).

2. Ritiene poi il Collegio che debba procedersi a trattazione unitaria dei primi quattro motivi, stante la connessione degli stessi, con giudizio complessivo di loro fondatela. L’atto impugnato, pacificamente, procede da un processo verbale di constatazione, puntualmente riportato anche nella presente sede, sfociato in una proposta di riaccertamento in rettifica dei ricavi, e conseguentemente del reddito e della base imponibile ai fini IRAP ed IVA, per l’anno di esercizio 2003. Osserva questa Corte che la C.T.R. ha del tutto trascurato di esprimere un apprezzamento, ancorchè critico, sul metodo seguito dall’Ufficio, che appare ispirato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e, per la parte relativa alla corrispondente imposta IVA, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, ad un ricalcolo dei ricavi in virtù di una puntuale individuazione di una percentuale media ponderale di ricarico propria di ciascuna categoria di prodotto e secondo la medesima leva aziendale, ancora per media generale, in mancanza e dunque per categorie di merci residuali, alla stregua di quanto dichiarato per l’anno d’imposta dal contribuente stesso. In pari tempo, la sentenza censurata omette di dar conto di quali fossero i parametri, offerti in raffronto dall’appellante, e la cui invocazione di per sè avrebbe condotto a determinare la congruità dei ricavi dichiarati rispetto a quelli oggetto di accertamento analitico-induttivo. Per tale premessa, la decisione impugnata confligge con il principio, che qui si intende ribadire, per cui In tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa, consentito dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), sulla base del controllo delle scritture e delle registrazioni contabili, l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio e dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, e assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultante esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate,anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perchè proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo. (Cass. 14068/2014). Entrambe le norme applicate (in tema di rettifica delle dichiarazioni) operano sulla base della individuazione del maggior reddito, base imponibile e ricavi per effetto ài presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti e l’affidabilità logica della metodologia seguita promana dalla minuziosa indicazione da parte dell’Ufficio, e già in sede di accesso dei verificatori, dei criteri di calcolo della media ponderata, il cui riferimento – per la gran parte dei prodotti merceologicamente trattati e classificati in azienda – è diretto alla pratica seguita dallo stesso imprenditore destinatario dell’accertamento e per classi di merce, mentre per i prodotti residui la media, continuando ad essere desunta dai punti di ricarico aziendale spalmato sull’intera merce, assicura il rispetto, del tutto disatteso nella pronuncia impugnata, del più prudente indirizzo di legittimità in materia. Va infatti ricordato che In presenza di scritture contabili formalmente corrette, non è sufficiente, ai fini dell’accertamento di un maggior reddito d’impresa, il solo rilievo dell’applicazione da parte del contribuente di una percentuale di ricarico diversa da quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza – posto che le medie di settore non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma soltanto il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, risultando quindi inidonee, di per sè stesse, ad integrare gli estremi di una prova per presunzioni – occorrendo, invece, che risulti qualche elemento ulteriore, e, in ispecie, l’abnormità e l’irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore, incidente sull’attendibilità complessiva della dichiarazione. (Cass. 27488/2013). A sua volta, per Cass. 17952/2013 occorre considerare che In tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa, nel caso in cui sia consentito, a norma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 2, prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti, legittimamente l’amministrazione finanziaria determina il reddito sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali sono compresi il volume di affari dichiarato dallo stesso contribuente e la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento, ben potendo la rideterminazione del ricarico, sulla base di dati concreti, integrare operazione finalizzata alla ricostruzione del volume d’affari, salva la riduzione del maggior reddito così accertato ove il giudice ravvisi insufficienza o inadeguatezza del campione considerato. Orbene, nella fattispecie la C.T.R. ha del tutto trascurato che la media ponderale applicata dall’Ufficio era ancora più prudente di quella che, alle citate condizioni, consentirebbe le predette rettifiche, facendo essa riferimento, ben più di quella del settore economico-produttivo di appartenenza dell’imprenditore, proprio agli standards di ricalcolo (desunti dal sistema della formazione dei prezzi) interni all’azienda stessa, così determinandosi un indice di inaffidabilità del relativo scostamento, una concomitante irragionevolezza del mero richiamo di contrasto alla sola formale regolarità contabile e perciò, in ultima analisi, un’insufficiente sviluppo, ad opera del contribuente, dell’onere della prova cedente a suo carico, secondo il condiviso sistema presuntivo, fondato com’era dall’Ufficio su circostanze concrete ed adattate alla situazione economica accertata.

3. Quanto al sesto motivo, per come collegato al quinto motivo ed inerente alla deduzione delle spese sostenute per pubblicità ovvero per un contratto di sponsorizzazione, la disputa in tema – che involge la stessa nullità sul punto della sentenza, ove si riconosca una officiosa qualificazione nel secondo senso del costo stesso, a dispetto di una qualificazione operata dalla parte e dalla stessa C.T.P. nel primo senso – induce il Collegio innanzitutto ad esaminare il quadro giustificativo offerto dalla C.T.R. al fine di riconoscere la deducibilità della spesa stessa, al di là del nomen juris attribuito alla voce di costo. Tale affermazione appare superficiale e del tutto avulsa dalla fattispecie puntualmente riportata dal p.v.c. il quale, evidenziando una prestazione pubblicitaria consistente nell’esibizione del marchio di pretesa identificazione del committente (Zeta service) su due auto partecipanti ad un racing (European superdiesel challenge), ne ha sottolineato i plurimi aspetti di incongruenza in punto di disallineamento tra clienti del contribuente e generalità dei consumatori interessati alle corse automobilistiche di quel tipo, operatività del contribuente in ristretto ambito geografico (province di Brescia e Bergamo) a fronte di manifestazioni sportive effettuate in Croazia, Austria e altri Paesi non identificati, inidoneità del logo usato a ricondurre la potenziale clientela al contribuente, difettando un recapito corrispondente a Zeta service ovvero un indirizzo telefonico collegato. Si tratta di circostanze – che in tesi dovrebbero permettere il controllo della corretta applicazione dei principi, affermati da questa Corte, per cui in tema di imposte dei redditi e sul valore aggiunto, la menzionata deducibilità esige la previa dimostrazione, a carico del contribuente, del requisito dell’inerenza, consistente non solo nella giustificazione della congruità dei costi, rispetto ai ricavi o all’oggetto sociale, ma soprattutto nell’allegagione delle potenziali utilità per la propria attività commerciale o dei futuri vantaggi conseguibili attraverso la pubblicità svolta dall’impresa in favore del terzo (Cass. 24065/2001) ovvero che i costi di sponsorizzazione di un marchio sono deducibili anche da chi, pur non essendo titolare del marchio, tragga comunque un’utilità dallo sfruttamento del segno distintivo altrui, per il potenziale incremento della propria attività commerciale (Cass. 6548/2012) – su cui la sentenza censurata ha omesso il benchè minimo commento, confondendo il piano dell’utilità economica prospettica della spesa (apoditticamente riferita” al rischio d’impresa in sè) con la ragionevolezza ed attendibilità dell’inerenza dell’esborso rispetto all’attività economica, così eludendo il giudizio di non inerenza di tale costo quale oggetto di contestazione dell’Ufficio. Tale conclusione rende a sua volta assorbito – al pari del quinto – altresì il settimo motivo.

Ne conseguono l’accoglimento del ricorso, con riguardo ai primi quattro motivi ed al sesto, assorbiti il quinto ed il settimo, la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio a C.T.R. Lombardia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.


P.Q.M.


La Corte accoglie il ricorso, con riguardo ai primi quattro motivi ed al sesto, dichiara assorbiti il quinto ed il settimo; cassa la sentenza impugnata; rinvia a C.T.R. Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 settembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2014