202101.26
0

Cass., sez. trib., 26 gennaio 2021 (ord.), n. 1290 (testo)

Corte di Cassazione, sez. V Civile, ordinanza 20 ottobre 2020 – 26 gennaio 2021, n. 1290
Presidente Napolitano – Relatore Guida

Rilevato che:

lo Studio V. & Associati degli avv.ti G.V. e S.V. , e ciascuno degli associati, cioè V.G. e V.S. , impugnarono, innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano, gli avvisi di accertamento, ai fini IRPEF, IRAP e IVA, diretti rispettivamente all’Associazione e a ciascun legale, che recuperavano a tassazione, sulla base dell’apposito studio di settore, per il periodo d’imposta 2005, il maggiore reddito dell’Associazione, da imputare, per partecipazione, agli associati;
la CTP di Milano (con sentenza n. 370/44/2011) accolse il ricorso, con decisione che la Commissione tributaria regionale di Milano, sull’appello dell’ufficio, nel contraddittorio dei contribuenti, ha riformato in base alle seguenti considerazioni: (a) è legittimo l’accertamento di maggiori ricavi sulla base delle studio di settore che assume rilevanza presuntiva, nella specie non superata dagli elementi difensivi dedotti dai contribuenti, pure esaminati, in fase amministrativa, dall’organo di controllo; (b) in particolare, l’ufficio ha esaminato gli argomenti esposti dai ricorrenti sull’incidenza delle spese sostenute, rispettivamente dall’Associazione e da ciascuno degli associati, e tuttavia, in assenza di un criterio oggettivo di riparto, non ha condiviso “la pretesa diversa addebitabilità tra la associazione ed i due associati”; (c) non è persuasiva la motivazione del giudice di primo grado che, in adesione alla tesi difensiva dei contribuenti, ha affermato che “i ricorrenti chiarivano i motivi per cui le risultanze dello studio non erano idonee ad esprimere la realtà economica oggetto di accertamento in quanto i due componenti dello studio legale svolgono anche attività individuale, oltre che associata, per cui ai fini accertativi, occorreva sommare tutti i ricavi e spese. In tale caso le risultanze dello studio risultavano congrue”, in mancanza di disposizioni, tributarie o civilistiche, che impongano di sommare i ricavi dell’associazione con quelli degli associati, come pure le spese di tutti quanti tali soggetti per puoi giungere ad un importo congruo, sul piano impositivo; (d) nella specie, infatti, esistono tre posizioni fiscali dichiarate, ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, nonché tre distinte attività (con distinte partite IVA) e non v’è ragione di considerarle “un tutt’uno fiscale”; (e) non sono convincenti le sei elaborazioni di studi di settore presentate, nella fase della verifica fiscale, dai contribuenti, recanti nuove e diverse ipotesi di ripartizione di ricavi e spese, effettuate ex post rispetto alle dichiarazioni dei costi dell’Associazione e degli associati; (f) posta la valenza legale della determinazione dei ricavi (e dei redditi) sulla base degli studi di settore, in assenza di idonee e legittime prove documentali contrarie, il risultato reddituale dichiarato dallo studio associato è anomalo in quanto segna una perdita per cinque esercizi consecutivi, il che giustifica, in accordo con la giurisprudenza di legittimità sviluppatasi sul tema dell’antieconomicità dell’attività lucrativa, l’intervento dell’erario e la rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39;
l’Associazione e gli associati, con distinti atti, hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza della CTR, articolando tre motivi; l’Agenzia ha resistito con controricorso; i ricorrenti hanno depositato memorie.

Considerato che:

a. preliminarmente, è utile precisare che i tre distinti motivi d’impugnazione, contenuti nei ricorsi dei contribuenti (quello dell’Associazione professione e quello proposto da ciascun associato), sono esaminati una sola volta, perché sono identici in ciascun ricorso e riguardano la stessa sentenza della CTR;

  1. con il primo motivo del ricorso (“1. Illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici hanno rigettato la doglianza afferente all’illegittimità degli atti impositivi derivante dalla circostanza che l’Ufficio ha apoditticamente disatteso le ricostruzioni prodotte dal contribuente nella fase del contraddittorio ed elaborate sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso Ufficio. La sentenza è “in parte qua” viziata, per violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 3 bis; 3, comma 1, ultimo periodo, L. 7 agosto 1990, n. 241 e L. n. n. 241, citata, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″), i ricorrenti censurano l’errore di diritto della sentenza impugnata, per avere trascurato che, in base alle citate disposizioni, nel caso in cui il contribuente, in sede di contraddittorio endoprocedimentale, esponga le ragioni per le quali le risultanze dello studio di settore non sono idonee a rappresentare la realtà economica in verifica e produca al riguardo documentazione, l’ufficio deve prendere in esame gli argomenti difensivi della parte privata e, nella misura in cui ritenga di non accoglierli, deve puntualmente illustrare le ragioni, in fatto e in diritto, per le quali gli stessi non appaiono convincenti, e non può invece limitarsi a disattendersi sulla base di affermazioni tautologiche o apodittiche;
    1.1. il motivo è infondato;
    1.1.1. vanno riassunti alcuni enunciati della giurisprudenza di questa Sezione tributaria, in punto di studi di settore, ai quali il Collegio intende aderire:
    (a) la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale fase, infatti, quest’ultimo ha la facoltà di contestare l’applicazione dei parametri provando le circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l’ufficio – ove non ritenga attendibili le allegazioni di parte – ad integrare la motivazione dell’atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento”. (Cass. 30/10/2018, n. 27617);
    (b) da tali principi si evince che l’indefettibile esigenza di adeguare il semplice scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” alla realtà reddituale del singolo contribuente si attua attraverso l’essenziale ed imprescindibile contraddittorio procedimentale e si traduce nella necessità per l’ufficio di fornire una motivazione rafforzata: non basta, in altri termini, il mero rilievo dello scostamento dai parametri, ma occorre, anche sotto il profilo probatorio, che l’ufficio indichi le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio, potendo solo così emergere i caratteri di gravità, precisione e concordanza attribuibile alla presunzione basata sui suddetti parametri, idonei a commisurare la presunzione stessa alla concreta realtà economica dell’impresa. (Cass. 18/12/2017, n. 30370; 07/06/2017, n. 14091);
    1.2. nella fattispecie, la CTR si è conformata a questi principi di diritto, laddove ha dato atto che: da un lato, l’ufficio, nel contraddittorio svoltosi nella fase amministrativa, ha esaminato gli argomenti difensivi dei contribuenti e li ha ritenuti non persuasivi; dall’altro, negli avvisi di accertamento, erano indicate le ragioni su cui poggiavano i recuperi fiscali, riconducibili, in sostanza, all’assenza di un criterio oggettivo che giustificasse una diverso modo di riparto delle spese tra l’ente collettivo e i due associati;
    è utile infine mettere in rilievo che la condivisione, da parte della CTR, del fondamento della verifica fiscale, costituisce un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità;
  2. con il secondo motivo (“2. Illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato, ritenendola fondata, la pretesa fiscale, in quanto emessa in violazione e falsa applicazione del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, e art. 53 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”), i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per non avere fatto corretta applicazione delle norme che disciplinano l’utilizzo degli studi di settore, quale strumento su cui fondare l’azione accertatrice, nonché del principio della capacità contributiva “effettiva” sancito dall’art. 53 Cost.;
    assumono che: primo, l’Associazione (il cui reddito è imputato, ai fini dell’imposizione reddituale, agli associati in misura proporzionale alle rispettive quote di partecipazione), sostiene la maggiore parte dei costi di struttura (canoni di locazione, personale, utenze e ammortamento dei beni strumentali) e consegue ricavi inerenti, principalmente, all’attività di recupero crediti per conto dei clienti dello studio; ciascun associato, invece, fattura e dichiara individualmente le prestazioni professionali di consulenza e patrocinio legale, sostenendo in proprio soltanto alcuni costi correlati all’attività professionale (mentre gli altri vengono sopportati dall’Associazione); secondo, la congruità dei ricavi, come anche l’economicità dell’attività esercitata, non possono che essere valutate considerando, nel suo complesso, l’attività svolta, cioè sommando i dati numerici (che i contribuenti hanno indicato in fase amministrativa), dei costi e dei ricavi riferibili alle tre posizioni, le quali concorrono ad integrare la medesima realtà economica. Sicché lo studio di settore, ove “atomisticamente” applicato, come pretende l’ufficio, alla posizione della sola associazione o del solo associato, non costituisce un valido criterio di quantificazione presuntiva dei compensi, estrinsecandosi nell’applicazione dello strumento statistico ad una situazione disomogenea rispetto a quella del campione di riferimento;
    ascrivono alla CTR di avere male interpretato le norme che disciplinano l’impiego degli studi di settore, le quali prevedono la necessità che siano vagliati tutti gli elementi di “controanomalia” (eventualmente evidenziati dal contribuente, nelle singole fattispecie), che, proprio in quanto diretti a dimostrare che, in concreto, detti parametri statistici non rappresentano uno strumento idoneo a consentire una ricostruzione affidabile dei ricavi conseguiti dal singolo contribuente, non sono suscettibili di tipizzazione normativa;
    tale erroneo approccio ermeneutico alla disciplina degli studi di settore – osservano da ultimo i ricorrenti – ha condotto la CTR a valorizzare esclusivamente i risultati negativi conseguiti dall’Associazione, isolatamente considerata, nell’esercizio oggetto d’accertamento e in quelli successivi, ed a trascurare che si trattava di risultati parziali, inidonei a rappresentare la complessiva realtà economica (comprensiva delle posizioni individuali degli associati), la quale si presentava (e questo aspetto non era contestato dall’ufficio) non soltanto produttiva di risultati positivi, nel 2005 e nella quasi totalità degli esercizi successivi, ma anche “congrua” agli studi di settore;
    2.1. il motivo è infondato;
    2.1.1. va premesso che i redditi dell’Associazione professionale (o studio associato), determinati secondo il regime analitico di cui agli artt. 53 e 54, t.u.i.r., sono imputati ai soci/associati in base al principio della trasparenza fiscale (art. 5, t.u.i.r.), in proporzione alle rispettive quote di partecipazione agli utili, come se si trattasse di una società semplice;
    correlativamente, anche le perdite e costi delle Associazioni professionali sono deducibili dal reddito complessivo di ciascun socio o associato in proporzione alla quota di partecipazione agli utili (art. 8, comma 2, t.u.i.r.);
    l’ente collettivo è un soggetto strumentale, proiettato alla produzione del reddito che, immediatamente, viene attribuito (imputato) ai soci/associati; sebbene privo di personalità giuridica, esso è destinatario dell’azione accertatrice dell’A.F. – i cui controlli possono svolgersi anche mediante l’utilizzo degli studi di settore – ed è dunque gravato degli obblighi di chi produce un reddito (come, per esempio, quello di tenere le scritture contabili), mentre gli accertamenti dell’eventuale maggiore reddito si rifrangono, per trasparenza, sui singoli soci/associati;
    dal punto di vista fiscale non è consentito imputare all’Associazione i costi dell’autonoma, diversa attività individuale del professionista. Infatti, ove si verifichi una simile evenienza contabile, come è accaduto nel caso all’esame in cui i due professionisti hanno fatto dichiarare all’Associazione i “costi di struttura” (compresa la parte di essi che, invece, era imputabile alle rispettive attività professionali, autonome ed individuali, distinte dagli affari dello studio associato), si scinde, illegittimamente, la necessaria correlazione tra costi (effettivi e reali) e ricavi (del pari effettivi e reali), funzionale alla rappresentazione veritiera della situazione reddituale da una parte dell’Associazione professionale e dall’altra dei singoli soci/associati (i quali, nell’ottica tributaria, sono le due facce di una stessa realtà economica);
    2.1.2. nella fattispecie, è giustificato il ricorso, da parte del fisco, allo strumento dello studio di settore ai fini della ricostruzione, secondo parametri statistici, del reddito dell’ente collettivo e del reddito di partecipazione degli associati;
    così come non è consentito attribuire allo studio legale costi ad esso estranei in quanto non correlati al reddito prodotto dai professionisti associati, del pari – passando dal piano contabile a quello dell’accertamento fiscale – non è condivisibile la pretesa, che è poi l’epicentro della critica dei ricorrenti, di apportare dei correttivi al risultato dell’applicazione dello studio di settore, considerando come “uno stesso “unicum””, l’Associazione (vale a dire i professionisti che vi partecipano, in relazione all’attività svolta in forma associata) e ciascuno dei legali, in relazione alla propria attività, svolta in forma individuale;
    2.1.3. la CTR, senza commettere alcun errore di diritto, ha disconosciuto (ritenendola “singolare e curiosa”) la sottile costruzione suggerita dai contribuenti e i connessi correttivi ai risultati dello studio di settore, ed è pervenuta all’ineccepibile epilogo giuridico della legittimità dell’accertamento fondato esclusivamente sullo studio di settore, senza alcun correttivo, in quanto l’Associazione e i due professionisti (con riferimento all’”attività forense personale” svolta, individualmente, da ciascuno dei essi), non sono “un tutt’uno fiscale” (come prospettato dai ricorrenti), ma sono tre soggetti autonomi e indipendenti ai fini impositivi;
  3. con il terzo motivo (“3. Nullità della sentenza impugnata nella parte in cui ha omesso di pronunciarsi in merito alla doglianza, avente carattere subordinato, afferente alla applicazione, da parte dell’Ufficio, dello studio di settore TKO4U in luogo di quello “evoluto” UKO4U. La sentenza è “in parte qua” viziata per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4″), i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere omesso di pronunciarsi sulla doglianza (non esaminata dalla CTP di Milano, in quanto assorbita per effetto della decisione di annullamento integrale della pretesa fiscale), riproposta in subordine nelle controdeduzioni in appello, con la quale si chiedeva l’annullamento parziale degli accertamenti, per effetto della riduzione degli imponibili e delle imposte in base all’applicazione retroattiva dello studio di settore evoluto UKO4U, entrato in vigore nel 2006, che risultava più favorevole ai contribuenti;
    3.1. il motivo è fondato;
    la CTR ha omesso di pronunciarsi sulla domanda subordinata, proposta dagli appellanti (vittoriosi in primo grado) nelle rispettive controdeduzioni, d’applicazione retroattiva dello studio UKO4U, ad essi più favorevole, aspetto, in relazione al quale, va data continuità all’indirizzo di legittimità, secondo cui l’accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri e degli studi di settore costituisce un sistema unitario, frutto di un progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività per categorie omogenee di contribuenti, per cui si giustifica l’applicazione retroattiva dello strumento più recente, che prevale rispetto a quello precedente, in quanto più raffinato e più affidabile (Cass. 07/08/2019, n. 21064; conf.: 18/11/2015, n. 23554; sez. un. 18/12/2009, n. 26635);
  4. in definitiva, rigettati il primo e il secondo motivo, accolto il terzo motivo, la sentenza è cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, la quale dovrà anche valutare, ove ne ricorrano i presupposti, se debba applicarsi o meno lo ius superveniens introdotto dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, in punto di regime sanzionatorio, come richiesto, in via subordinata, dai ricorrenti nelle memorie depositate per l’adunanza camerale; infine, è rimessa al giudice del rinvio anche la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie terzo motivo dei tre riscorsi, rigetta il primo e il secondo motivo di ciascun ricorso, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.