201909.23
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Cass., sez. trib., 23 settembre 2019 (ord. interl.), n. 23549 (testo)

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 2 luglio – 23 settembre 2019, n. 23549
Presidente De Masi – Relatore Stalla
Rilevato che:
1.1 La Saint Gobain Distribuzione srl con socio unico propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 142/43/13 del 19 novembre 2013, con la quale la commissione tributaria regionale della Lombardia, a conferma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione per imposta proporzionale di registro notificatole dall’agenzia delle entrate in esito a riqualificazione giuridica D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, in termini di cessione di azienda, della seguente operazione:

  • 15 settembre 2008, costituzione della D.T. srl a socio unico da parte della D.T. srl (ora Saint Gobain Distribuzione srl);
  • 28 novembre 2008, delibera di aumento di capitale della neocostituita D.T. srl, da liberarsi con conferimento in natura di tre rami di azienda;
  • 28 novembre 2008, conferimento in essa del proprio ramo d’azienda da parte di D.T. srl (già socio unico della conferitaria, poi divenuta Sagedi Real Estate srl), di Annatore Real Estate srl (già Intern Make srl) e di Gediva Real Estate srl (già Studio srl);
  • 29 dicembre 2008, cessione alla Saint Gobain Distribuzione srl a s.u. delle quote di partecipazione così acquisite nella D.T. srl da parte delle conferenti Sagedi, Annatore e Gediva.
    La commissione tributaria regionale, in particolare, ha rilevato che:
  • la riqualificazione ex art. 20 cit., era legittima dal momento che, per quanto articolata mediante plurimi atti negoziali, l’operazione in esame doveva ritenersi sostanzialmente unitaria, e con oggetto la cessione dei rami aziendali a favore della Saint Gobain in veste di cessionaria finale delle quote;
  • non erano nella specie applicabili le tutele procedimentali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, relativo alle sole imposte dirette;
  • nel caso di specie, la riqualificazione poteva anche prescindere dalla contestazione di abuso del diritto, posto che l’amministrazione finanziaria si era limitata alla riqualificazione giuridica degli atti sottoposti a registrazione assoggettandoli ad aliquota proporzionale sulla base della stessa base imponibile (non rettificata) indicata dalle parti, perché desumibile dagli atti stessi.
    Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate.
    La società ricorrente ha depositato memoria 25 giugno 2019 con la quale invoca lo jus superveniens costituito sia dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, (L. di bilancio 2018), sia L. n. 145 del 2018, comma 1084, (L. di bilancio 2019); allega inoltre la risposta ad interpello n. 196 del 18 giugno 2019, con la quale la stessa agenzia delle entrate, in fattispecie similare, sarebbe orientata ad escludere la rilevanza D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, (nella formulazione risultante dal suddetto jus superveniens) di atti collegati ed elementi extratestuali.
    1.2 Con il primo motivo di ricorso la società lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, dal momento che questa norma consentirebbe all’amministrazione finanziaria di riqualificare il solo atto presentato alla registrazione, non anche gli atti a questo esterni, ed asseritamente collegati (imposta d’atto); inoltre l’ordinamento tributario escluderebbe espressamente (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, comma 3), che operazioni quali quella in esame possano concretare abuso del diritto perché finalizzate al mero risparmio fiscale.
    Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della stessa norma sotto il profilo che, nella specie, si trattava di operazione rispondente a reali esigenze di riorganizzazione aziendale attraverso atti che si mantenevano soggettivamente, oggettivamente e finalisticamente distinti ed autonomi; inoltre, la riqualificazione ex art. 20, muoveva testualmente dalla considerazione dei soli effetti “giuridici” dell’atto, non anche di quelli “economici”, invece presi in esame dall’amministrazione finanziaria nell’avviso opposto.
    Con il terzo e il quarto motivo di ricorso si deduce violazione di legge con riguardo al principio del contraddittorio L. n. 212 del 2000, ex artt. 6 e 12, L. n. 4 del 1929, art. 24, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, ed al principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.. Per non avere la Commissione Tributaria Regionale rilevato che l’avviso di liquidazione in oggetto non era stato preceduto dalla elevazione di un verbale di constatazione della condotta abusiva; nè, ad ogni modo, dall’instaurazione di un contraddittorio preventivo in attuazione di un principio che doveva ritenersi immanente nell’ordinamento tributario, anche in conformità alla giurisprudenza CGUE in materia. Neppure, infine, l’amministrazione finanziaria aveva osservato le garanzie procedimentali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, commi 4 e 5.
  1. Il dato normativo di partenza, quello sul quale si è poggiato l’avviso di liquidazione opposto, è costituito dal previgente D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, (Testo Unico imposta di registro): “Interpretazione degli atti.
  2. L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
    La già citata legge di bilancio previsionale per l’anno 2018 (L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a)), è intervenuta su questa norma, la quale trova oggi una più circoscritta definizione: “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesi o, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
    Fermo restando il principio basilare di prevalenza della sostanza sulla forma, l’intervento legislativo in questione ha significativamente ristretto l’oggetto dell’interpretazione negoziale al solo atto presentato alla registrazione, ed agli elementi soltanto da quest’ultimo desumibili; non rilevano quindi più, come espressamente indicato dal legislatore, gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali.
    Quanto all’efficacia temporale di quest’ultima disposizione (se applicabile solo per il futuro, ovvero anche agli atti registrati prima della sua entrata in vigore ed ancora in corso di accertamento o sub judice), questa corte di legittimità ha maturato, nel corso del 2018, un monolitico orientamento in questo senso: “in tema di imposta di registro, la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), modificativo del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, con effetto dal 1 gennaio 2018, non ha natura interpretativa, ma innovativa, in quanto introduce limiti all’attività di riqualificazione della fattispecie precedentemente non previsti: ne deriva che tale disposizione non ha efficacia retroattiva e, pertanto, gli atti antecedenti alla data della entrata in vigore della stessa continuano ad essere assoggettati all’imposta secondo la disciplina contemplata dal detto D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nella previgente formulazione” (Cass. 2007/18; così Cass. nn. 4407/18; 5748/18; 7637/18; 8619/18; 13610/18 ed altre).
    Non è però utile qui soffermarsi sugli argomenti addotti a sostegno di questo indirizzo, dal momento che il legislatore è nuovamente intervenuto con la, pure già citata, legge di bilancio previsionale per l’anno 2019, stabilendo (L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084), che: “La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), costituisce interpretazione autentica del testo unico di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, comma 1”.
    Si tratta di disposizione con la quale il legislatore ha palesato la volontà di attribuire portata retroattiva alla formulazione dell’art. 20, risultante dalla L. bilancio 2018, quale effetto normalmente riconducibile alla norma di interpretazione autentica ed alla sua natura prettamente dichiarativa di un significato fin dall’inizio contenuto nella norma interpretata.
    Ebbene, si ritiene che la nuova e più ristretta formulazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, così risultante, ponga una rilevante e non manifestamente infondata questione di legittimità costituzionale.
  3. In punto rilevanza, non è possibile decidere la controversia senza fare applicazione – appunto retroattiva – della norma in esame.
    Norma che, come detto, l’amministrazione finanziaria ha posto a fondamento esclusivo di un avviso di liquidazione (per imposta proporzionale di registro, in luogo di quella autoliquidata dalla società in misura fissa) che, proprio all’esito della riqualificazione giuridica di un complesso di atti negoziali collegati ed asseritamente costituente un’operazione unitaria, individua in quest’ultima la sostanza di una cessione aziendale, sebbene indirettamente realizzata attraverso il previo conferimento di rami aziendali in una società costituita ad hoc e la cessione alla odierna ricorrente delle, così liberate, quote sociali della conferitaria.
    È vero che la ricorrente, aldilà della stretta questione interpretativa dell’art. 20 cit., oppone anche profili diversi e potenzialmente assorbenti, perché per altra ragione invalidanti l’avviso di liquidazione opposto.
    Questi profili – dedotti nei motivi di ricorso diversi dal primo – non sembrano però condivisibili:
  • non quello concernente l’esclusione, nella specie, di qualsivoglia collegamento negoziale, dal momento che il giudice di merito, con valutazione argomentata e qui non sindacabile, ha invece positivamente riscontrato, nell’ambito di un tipico accertamento fattuale di sua competenza (qual è quello in questione: Cass. n. 22216/18 ed altre), il requisito del collegamento negoziale, assumendo come dato imprescindibile di causa proprio l’unitarietà dell’operazione realizzata e l’univocità del suo scopo finale (tanto più corroborate, egli ha ritenuto, dal coordinamento imprenditoriale delle varie società coinvolte e dalla strettissima contestualità temporale del tutto);
  • non quello con cui si assume la mancata previa elevazione di processo verbale di constatazione e la mancata osservanza della procedura di tutela prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, (allora vigente) in caso di contestazione di condotte fiscalmente abusive, dal momento che, come meglio si avrà modo di dire (§ 4.3), il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, ha a che vedere con la riqualificazione giuridica dell’atto da registrare, e non con la contestazione di condotte abusive od elusive, sicché: “(…) i motivi di ricorso incidentale sono infondati, in quanto si basano sull’assunto per cui la commissione avrebbe dovuto rilevare la mancata applicazione, da parte della amministrazione finanziaria, delle garanzie di contraddittorio endoprocedimentale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, (oggi L. n. 212 del 2000, art. 10-bis); assunto che è errato essendosi, nel caso di specie, fatta applicazione, da parte del fisco, del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, che detta una regola interpretativa e non antielusiva, il cui impiego non è condizionato al rispetto delle suddette garanzie” (Cass. n. 13610/18; così Cass. nn. 313/18; 6758-6759/17 e molte altre); il che al contempo rende del tutto ininfluente, ai fini della decisione, tanto che l’operazione qui dedotta potesse non presentare alcun connotato abusivo o distorsivo rispondendo piuttosto, come pure sostenuto dalla società, a “reali esigenze di riorganizzazione aziendale”, quanto che il conferimento di azienda seguito dalla cessione delle quote non sia, a certe condizioni, considerato abusivo ai fini delle imposte sul reddito (TUIR, art. 176, comma 3);
  • e neppure quello relativo al mancato contraddittorio preventivo in sede amministrativa, non in applicazione di una specifica previsione legislativa (insussistente), ma quale espressione di un principio generale ed immanente nell’ordinamento; dal momento che qui si discute di imposta “non armonizzata” di registro, e che l’orientamento di legittimità sul punto si è ormai saldamente attestato, a superamento di un diverso indirizzo, nel senso che: “in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito” (Cass. SSUU 24823/15, ed innumerevoli altre).
    4.1 In punto non manifesta infondatezza, sussistono consistenti dubbi di incompatibilità del “nuovo” art. 20, con quanto prescritto dagli artt. 53 e 3 Cost..
    Nella disciplina dell’imposta di registro – ma il discorso può riferirsi alla fiscalità nella sua interezza, e nei suoi risvolti tanto nazionali quanto sovranazionali – quello di prevalenza della sostanza sulla forma è principio imprescindibile ed anche storicamente radicato.
    Esso trova la propria origine, nell’ordinamento postunitario, con la L. n. 585 del 1862, art. 7, secondo cui: “la tassa è applicata secondo l’intrinseca natura degli atti e non secondo la loro forma apparente”; disposizione poi trasfusa nel R.D. n. 3269 del 1923, art. 8, in base al quale: “le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti dei trasferimenti, se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”. Il D.P.R. n. 634 del 1972, art. 19, poi recepito dal vigente TUR, art. 20, ha tenuto ferma questa impostazione di fondo, introducendo – a sintesi di un acceso dibattito dottrinale – l’attribuzione “giuridici”, riferita agli effetti dell’atto che vanno considerati nell’opera di riqualificazione.
    Si tratta di principio che è stato costantemente valorizzato, nell’interpretazione della norma in esame, dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale – all’esatto contrario di quanto oggi portato dall’attuale formulazione dell’art. 20, – la qualificazione dell’atto secondo parametri di tipo sostanzialistico, e non nominalistico o di apparenza, comporta la necessaria considerazione anche di elementi esterni all’atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti eventualmente collegati con quello presentato alla registrazione.
    Unica voce dissonante in un panorama giurisprudenziale di legittimità vastissimo e del tutto consolidato sul punto specifico (da Cass. nn. 10743/13, 6405/14, 25001/15, fino a Cass. nn. 2050/17, 4404/18, 5748/18, 5755/18, 14999/18, 881/19 ed innumerevoli altre) è costituita da Cass. n. 2054/17 la quale, pur affermando che l’amministrazione finanziaria non è tenuta a conformarsi alla qualificazione giuridica attribuita al contratto dalle parti, ha poi stabilito che essa non può operare la riqualificazione del medesimo – ex art. 20, – travalicando “lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta inquadrabile, salva la prova, da parte sua, sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione ed alterazione degli schemi negoziali classici”. Tanto che, in assenza di prova di intento elusivo e strumentale, la cessione dell’intera partecipazione societaria non potrebbe essere riqualificata in termini di cessione aziendale. E tuttavia, la posizione così isolatamente espressa – per quanto rispondente a posizioni sostenute con forza dalla dottrina ed anche da alcune pronunce di merito – non ha avuto seguito, risultando infatti poco dopo esaminata da Cass. n. 11873/17 la quale, prendendo espressamente posizione sulla suddetta pronuncia, ha ritenuto di doverla infine disattendere confermando e recuperando il suddetto orientamento.
    Orientamento i cui i passaggi essenziali possono così ricapitolarsi:
  • la natura di “imposta d’atto” propria dell’imposta di registro (e confermata dal TUR, art. 1, secondo cui l’oggetto dell’imposta è costituito appunto dall’atto soggetto a registrazione e da quello che sia volontariamente presentato per la registrazione) non osta alla valorizzazione complessiva di elementi interpretativi esterni e di collegamento negoziale; dal momento che l’”atto presentato alla registrazione” non si identifica con il sostrato materiale o cartaceo che lo contiene e veicola (“atto-documento”), bensì con l’insieme delle previsioni negoziali preordinate, anche mediante collegamento e convergenza finalistica, al perseguimento di una programmata regolazione unitaria degli effetti giuridici derivanti dai vari negozi collegati (“atto-negozio”); indiretta conferma di ciò si ha anche in tutte quelle previsioni, che potremmo definire satelliti del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, che stabiliscono (indipendentemente dalla formulazione e, talvolta, persino dall’esistenza stessa di un sostrato documentale o cartaceo) la registrazione dei contratti verbali (art. 3); l’autonoma e plurima registrazione di più disposizioni negoziali tra loro indipendenti, ancorché contenute in un unico atto complesso (art. 21); l’imponibilità di disposizioni negoziali puramente enunciate (art. 22);
  • il recupero di elementi negoziali esterni e collegati all’atto presentato alla registrazione risponde all’esigenza di evidenziare, appunto in attuazione della regola per cui la sostanza vince sulla forma, la causa reale di tale atto, assunta quale criterio ispiratore di un’attività (quella di qualificazione negoziale volta all’emersione della materia imponibile) che, per sua natura, non può essere lasciata alla discrezionalità delle parti contribuenti nè a quello che le parti abbiano dichiarato (sulla “indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali”: Cass. 2009/18); tanto che, a riprova, analoga esigenza non si pone con riguardo alla registrazione di atti di natura non dispositiva e negoziale ma decisionale, come una sentenza o un lodo arbitrale, in ordine ai quali occorre invece fare stretto riferimento al solo contenuto ed ai soli effetti che emergano dalla pronuncia stessa, “senza possibilità di utilizzare elementi ad essa estranei, nè di ricercare contenuti diversi da quelli su cui si sia formato il giudicato” (Cass. 15918/11);
  • un simile processo di riqualificazione è reso possibile, e normale, dal richiamo a scopo qualificatorio degli istituti civilistici generali, già da tempo enucleati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, della “causa concreta” del contratto (focalizzata fin da Cass. n. 10490/06) e del “collegamento negoziale”, definibile nella risultante di un elemento oggettivo di connessione e di un elemento soggettivo di perseguimento di un “fine ulteriore” rispetto a quello raggiungibile dai singoli negozi isolatamente considerati; così da dar vita ad un “meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico complesso, che viene realizzato, non attraverso un autonomo e nuovo contratto, ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è concepito, funzionalmente e teleologicamente, come collegato con gli altri, cosicché le vicende che investono un contratto possono ripercuotersi sull’altro. Ciò che vuol dire che, pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti legati dal loro collegamento funzionale sono finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi” (tra le molte, Cass. 11914/10; 7255/13; 19161/14; 20726/14; 10722/17; 22216/18 cit.);
  • la circostanza che la qualificazione dell’atto debba avvenire secondo gli effetti “giuridici” del medesimo, e che sempre in ragione di tali effetti “giuridici” sia in pratica applicata la tariffa d’imposta, non preclude che si attribuisca rilevanza, visto anche il sostrato prettamente economico del principio di capacità contributiva, a quello scopo economico unitario ed ultimo infine raggiunto dalle parti proprio attraverso la combinazione ed il coordinamento degli effetti giuridici dei singoli atti; ché proprio in questo si realizza la causa concreta (o “reale” che dir si voglia) dell’atto e si disvela la sua “intrinseca natura”.
    Ora, il convincimento per cui il criterio di qualificazione sostanziale dell’atto presentato alla registrazione non confligge con la considerazione dell’eventuale collegamento negoziale (il cui accertamento, anzi, sollecita) ha prodotto una casistica giurisprudenziale estremamente diffusa ed eterogenea di qualificazione giuridica ex art. 20, secondo cui, solo per citare qualche esempio più ricorrente:
    è vendita il conferimento di aziende o immobili, anche gravati da mutui ipotecari accollati dalla società conferitaria, collegato alla successiva cessione a terzi delle quote di quest’ultima: tra le altre, Cass. nn. 12909/18; 5748/18; 4590/18; 6758/17; ha rilevato Cass. 13610/18 che “il conferimento societario di un’azienda e la successiva cessione dal conferente a terzi delle quote della società devono essere qualificati come cessione di azienda se il fisco riconosca nell’operazione complessiva, in base alle circostanze obiettive del caso concreto, la causa unitaria della cessione aziendale”;
  • è vendita la fattispecie di collegamento negoziale tra mutuo ipotecario e conferimento alla società dell’immobile su cui grava l’ipoteca: Cass. 4589/18; Cass. ord.7637/18;
  • è cessione di azienda la vendita separata, ma collegata, di tanti beni singolarmente considerati, ma funzionalmente suscettibili di destinazione ed organizzazione produttiva unitaria: Cass. nn. 15175/16; 1955/15; 17965/13; nonché Cass. 31069/17, secondo cui: “la nozione di cessione d’azienda assunta ai fini dell’imposta di registro induce a riaffermare la centralità dell’elemento funzionale, ossia del legame fra singolo elemento aziendale ed impresa, che conferisce l’attributo aziendale a ciascuno degli elementi che la compone, e che non viene meno nelle cessioni “scomposte” di beni aziendali, con formula cosiddetta “spezzatino” o “a gradini”; ha osservato Cass. ord.21767/17 che: “in ambito tributario, a fini della determinazione dell’imposta applicabile, la qualificazione di un negozio come cessione d’azienda postula una valutazione complessiva dell’operazione economica realizzata, assumendo rilievo preminente la causa reale di essa, alla luce dell’obiettivo economico perseguito e dell’interesse delle parti alle prestazioni”;
  • è vendita di area edificabile la cessione di un terreno con entrostante fabbricato vetusto, collegata alla successiva richiesta, da parte dell’acquirente, di concessione edilizia per la demolizione e la ricostruzione: Cass. 24799/14; Cass. 12062/16; Cass. n. 313/18;
    l’imposta agevolata sostitutiva di quelle di registro, bollo ed ipotecaria sulle operazioni di credito a medio-lungo termine (D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15), non si applica, non solo quando il contratto di finanziamento contenga una clausola che renda discrezionale il recesso unilaterale della banca prima dei 18 mesi, ma anche quando tale clausola sia contenuta in un contratto di conto corrente con apertura di credito al quale il contratto di finanziamento risulti collegato: Cass. 7254/16 e 6505/18.
    4.2 Gli odierni dubbi di legittimità costituzionale di una disposizione che vieti la qualificazione giuridica dell’atto (anche) in ragione di atti collegati trovano radice, giustificazione e logica conseguenzialità proprio nell’orientamento di legittimità che si è sinteticamente riassunto.
    Si tratta infatti di indirizzo interpretativo che, da un lato, ha escluso qualsiasi menomazione ed incidenza, ex art. 41 Cost., sulla libera iniziativa economica e sull’autonomia negoziale delle parti, posto che la ri-qualificazione del contratto per intrinseco ed in forza di collegamento negoziale lascia comunque intatta la validità e l’efficacia del contratto stesso e dello schema negoziale liberamente prescelto dalle parti, risolvendosi unicamente nell’applicazione della disciplina impositiva più appropriata al caso e secondo un criterio di tassatività e predeterminazione impositiva che resta aderente all’art. 23 Cost.; e che, dall’altro, ha paventato che proprio una opposta lettura dell’art. 20, (cioè nel senso poi adottato dal legislatore del 2018) si sarebbe posta in disaccordo con l’art. 53 Cost., (cosicché l’interpretazione dominante nella giurisprudenza di legittimità risultava, per così dire, non solo consentita, ma addirittura imposta dal criterio generale dell’interpretazione costituzionalmente conforme).
    Si è in proposito osservato che quella di registro – da tempo – non è più (se non in minima parte) una semplice tassa con funzione corrispettiva del servizio di registrazione, conservazione ed attribuzione di data certa all’atto presentato, per assumere invece i connotati della vera e propria imposta che trova nell’atto stesso il presupposto rivelatore di una determinata “forza economica” e, per tale via, un tipico indice di capacità contributiva: tra le altre, Cass. nn. 2713/02, 14150/13 e, più recentemente, Cass. nn. 362/19 e 1962/19.
    Il netto superamento della funzione primigenia di mera remunerazione di un servizio pubblico, a favore di un ruolo di imposizione (con metodo tariffario e per famiglie di effetti negoziali) della ricchezza espressa dall’atto, iscrive a pieno titolo l’imposta di registro nell’ambito dei principi impositivi di matrice costituzionale e, segnatamente, nella previsione di cui all’art. 53 Cost..
    E, d’altra parte, non si discute del fatto che la pregnante esigenza di attuazione del principio di capacità contributiva sia sottesa anche all’art. 20, pur nella sua attuale ridotta portata; non essendoci dubbio alcuno che anche l’attuale formulazione della norma imponga, proprio al fine di far emergere l’effettiva ricchezza imponibile, di non fermarsi al “nomen” attribuito al contratto dalle parti, per accedere invece al contenuto reale ed alla natura sottostante dell’atto.
    Sennonché, una volta ribadita questa esigenza, non appare poi del tutto lineare nè coerente – proprio sul piano costituzionale – che l’opera di emersione si debba per forza arrestare alla disamina del solo atto presentato, esclusa ogni considerazione di quegli (eventuali) elementi meta-testuali e di collegamento negoziale attraverso i quali può invece aversi (ed in certi casi, soltanto si ha) piena contezza e ricostruzione della forza economica e della capacità contributiva espresse dall’operazione.
    È vero che (C. Cost. 156/01, sull’Irap): “è costante nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo la quale rientra nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale: sentenze n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143 del 1995, n. 159 del 1985)”; e, inoltre, che (C. Cost. 249/17 in tema di revisione catastale) “la capacità contributiva, desumibile dal presupposto economico al quale l’imposta è collegata, può essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità, sotto il profilo della palese arbitrarietà e manifesta irragionevolezza (sentenza n. 162 del 2008)”.
    E tuttavia, nel caso di specie il dubbio verte proprio sul corretto esercizio della discrezionalità legislativa e sulla corretta applicazione del principio per cui le scelte del legislatore tributario non devono risultare irragionevoli o ingiustificate; doveroso essendo il controllo sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare “la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico (…)” (C. Cost. nn. 111/97 cit.; 223/12; 116/13, riprese anche da 10/2015).
    Là dove, tornando all’art. 20, l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produce l’effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva. Nè sembrano individuabili altri principi di rango costituzionale, o anche soltanto preminenti esigenze di sistema, idonei a giustificare e rendere razionale la “disapplicazione” nel caso di specie del principio di capacità contributiva.
    Il che rileva tanto nelle ipotesi – che sono poi quelle prese perlopiù in esame dalla casistica giurisprudenziale – nelle quali il collegamento negoziale implichi un maggior carico fiscale per il contribuente (e dunque un maggior gettito per l’erario), quanto nelle situazioni in cui (come pure è concepibile) dalla considerazione del collegamento negoziale possa invece scaturire una qualificazione giuridica dell’atto comportante una minore imposizione.
    Si è poi affermato (C. Cost. 155/01) che, perché sussista capacità contributiva, è necessario e sufficiente “che vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione, in termini di forza e consistenza economica dei contribuenti”, e non può negarsi che il collegamento impositivo così instaurato possa (debba) scaturire anche dalla considerazione del collegamento negoziale in sede di registrazione dell’atto.
    Il fatto che tutti siano tenuti a concorrere alle spese pubbliche “in ragione” della loro capacità contributiva fa sì che la forza economica espressa dall’atto (la cui considerazione in termini sostanziali e di effettività è, come detto, indubitabilmente insita anche nell’attuale formulazione dell’art. 20), costituisca, al tempo stesso, fondamento e limite dell’imposizione, di cui definisce sia la legittimazione solidaristica sia la misura esigibile.
    Oltre che sul piano della effettività dell’imposizione, tutto ciò provoca ripercussioni anche sul principio di uguaglianza, dal momento che a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non possono corrispondere imposizioni di diversa entità: a seconda, per esempio, che si tassi la cessione unitaria di azienda ovvero i vari atti di dismissione dei singoli cespiti strumentali che la compongono; ovvero ancora, per restare alla fattispecie, che si tassi l’acquisizione dell’azienda a seconda che ad essa si pervenga attraverso una cessione diretta invece che mediante l’articolazione di un conferimento societario e di una successiva cessione di quote.
    Altrimenti detto, le manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non sembrano razionalmente differenziabili a seconda che le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale, piuttosto che con più atti collegati. Diversamente ragionando, si verrebbe a determinare una disparità di imposizione (tra contribuenti di un solo atto e contribuenti di più atti collegati) in conseguenza dell’adozione di un criterio di qualificazione giuridica inidoneo – perché, a ben vedere, ancora labiale, estrinseco e condizionato da un’opzione di tecnica negoziale – a dare contezza della ricchezza imponibile insita nell’operazione.
    Non sembra dunque che il collegamento negoziale possa – di per sé rappresentare un indice di diversificazione di fattispecie legittimante un trattamento non omogeneo delle due situazioni prese a comparazione.
    4.3 Occorre dar conto dell’obiezione secondo cui l’ordinamento consente oggi espressamente all’amministrazione finanziaria di contestare il collegamento negoziale quando quest’ultimo sia sintomatico di abuso, con ciò mostrando di attribuire rilevanza alla fattispecie solo allo scopo della repressione dell’elusione fiscale, non anche di semplice qualificazione giuridica dell’atto.
    Il riferimento è alla L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015, il quale – come è noto – contiene la disciplina generale dell’abuso e dell’elusione fiscale concernente ogni tributo.
    L’obiezione (a parte il fatto che si basa su una disposizione di legge non applicabile alla presente fattispecie, perché sopravvenuta all’avviso di liquidazione opposto) non è dirimente.
    Va detto che sul punto specifico – ed a differenza del diverso aspetto del collegamento negoziale – l’orientamento di legittimità è stato, all’analisi diacronica, effettivamente oscillante.
    Questa corte ha in una prima fase affermato che anche il TUR, art. 20, dovrebbe trovare applicazione alla luce del principio generale antielusivo, fungendo anzi nell’ambito dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale – quale vera e propria “norma antiabuso”; è per questo che – si è osservato – “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscono a semplici elementi della fattispecie tributaria” e, inoltre, che “l’autonomia contrattuale e la rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi restano necessariamente circoscritti alla regolamentazione formale degli interessi delle parti, perché altrimenti finirebbero per sovvertire i detti criteri impositivi” (tra le molte: Cass. nn. 11457/05; 10273/07; 13580/07; 17965/13; 5877/14).
    E tuttavia, l’indirizzo più recente – anche successivo all’introduzione dell’art. 10 bis, – ha definitivamente abbandonato questo approccio, concludendo nell’opposto senso della indifferenza dell’art. 20, all’abuso del diritto ed alla elusione fiscale.
    Sono infatti ormai ricorrenti le affermazioni di segno fermamente contrario, secondo le quali il fatto che la norma in questione attribuisca preminente rilievo alla “intrinseca natura” ed agli “effetti giuridici” dell’atto, rispetto al suo “titolo” ed alla sua “forma apparente”, non presuppone necessariamente che l’operazione oggetto di riqualificazione abbia carattere elusivo, men che meno evasivo o fraudolento (tra le altre: Cass. nn. 18454/16; 25487/15; 24594/15, ord.); con la conseguenza, tra il resto, che “non grava sull’Amministrazione l’onere di provare i presupposti dell’abuso del diritto, atteso che i termini giuridici della questione sono già tutti desumibili dal criterio ermeneutico di cui all’art. 20,” (Cass. 3481/14).
    Ben si comprende, allora, come l’art. 20, – depurato da qualsiasi requisito di non genuinità dell’atto – neppure abbia a che fare “con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel dato collegamento negoziale, e ciò perché quello che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi” (Cass. ord. 5748/18 cit.).
    Aggiunge quest’ultima pronuncia che: “In tema di imposta del registro, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017), non è norma predisposta al recupero di imposte “eluse”, dando rilievo, in sede di qualificazione giuridica degli atti negoziali presentati a registrazione, non già all’abuso” in relazione a determinate operazioni economiche, che non rileva a fini impositivi, bensì all’effetto giuridico finale oggettivamente prodotto dagli atti registrati, il cui contenuto economico è indice di capacità contributiva, con la conseguenza che non è richiesta la prova dell’esistenza di valide ragioni economiche dell’operazione”.
    Si tratta di affermazione in linea con Cass. n. 6758/17 cit., secondo cui: “in tema di imposta di registro, l’applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, che detta una regola interpretativa e non antielusiva, non è soggetta al contraddittorio endoprocedimentale previsto per l’utilizzazione delle disposizioni antielusive (del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, oggi L. n. 212 del 2000, art. 10-bis), traducendosi nella qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva, a prescindere dall’eventuale disegno o intento elusivo delle parti, sicché il conferimento societario di un’azienda e la successiva cessione dal conferente a terzi delle quote della società devono essere qualificati come cessione di azienda se il fisco riconosca nell’operazione complessiva – in base alle circostanze obiettive del caso concreto – la causa unitaria della cessione aziendale, senza la necessità di dimostrare un disegno elusivo del contribuente”.
    Concludendo sul punto, l’espressa inclusione nella L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, comma 2, lett. a), della fattispecie di collegamento negoziale (invece mancante nella struttura testuale dell’art. 20):
    consente all’amministrazione finanziaria, nell’esercizio dei poteri estesi di accertamento dell’imposta di registro conferitile dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, e previa l’osservanza delle tutele procedimentali contenute nella legge, di disconoscere gli effetti degli atti collegati in quanto elusivi e, come tali, privi di sostanza economica diversa dal mero risparmio d’imposta (altrimenti legittimo ai sensi dell’art. 10 bis, comma 4, in parola);
    non esclude che il collegamento negoziale continui purtuttavia a rilevare, D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, anche al di fuori del contesto elusivo e sanzionatorio, e dunque anche quando esso emerga sul piano obiettivo della mera qualificazione giuridica e come opzione negoziale effettivamente rispondente ad esigenze pratiche sostanziali, nel senso di non deviate nè strumentali nè unicamente orientate al risparmio d’imposta.
  1. In definitiva, si ravvisano tutti i presupposti per demandare al giudice delle leggi il vaglio di legittimità, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nei termini di cui in dispositivo.
    Da quanto si è finora osservato, risulta evidente come questa estrema soluzione non possa evitarsi attraverso un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata, visto che questa:
  • per lettera, ratio e contesto di emanazione, è assolutamente inequivoca ed invalicabile nel prescrivere l’estromissione degli elementi extratestuali e degli atti collegati dall’opera di qualificazione negoziale;
  • l’ipotetica interpretazione conforme (come già costantemente adottata da questa corte di legittimità) dovrebbe alternativamente identificarsi proprio con quella così espulsa dall’ordinamento.
    P.Q.M.
    La Corte:
  • visto l’art. 134 Cost., e della L. n. 87 del 1953, art. 23;
  • dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come risultante dagli interventi apportati dalla L. n. 205 del 1917, art. 1, comma 87, (L. di bilancio 2018) e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, (L. di bilancio 2019), nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”;
  • dispone la sospensione del presente giudizio;
  • ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio di cassazione, al pubblico ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei Ministri; ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata dal cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;
  • dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale.