201712.13
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Cass., sez. trib., 13 dicembre 2017 (ord.), n. 29886 (testo)

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, ordinanza 27 settembre – 13 dicembre 2017, n. 29886
Presidente Cappabianca – Relatore Terrusi

Rilevato che

l’associazione Chiesa di S.C.C. impugnò un avviso di accertamento col quale, a seguito di un processo verbale di constatazione della guardia di finanza, l’ufficio distrettuale II.DD. di Firenze, ritenuta l’omissione della compilazione della dichiarazione e delle scritture contabili obbligatorie, aveva rideterminato il reddito imponibile ai fini Irpeg e Ilor per l’anno 1986 sulla base di ricavi accertati e non contabilizzati;
l’adita commissione tributaria rigettò il ricorso ritenendo non raggiunta la prova che le cessioni dei beni e le prestazioni dei servizi fossero state effettuate in conformità ai fini istituzionali dell’associazione, come da quest’ultima rivendicato;
l’appello della contribuente fu dichiarato inammissibile dalla CTR della Toscana, con sentenza che tuttavia venne cassata da questa Corte Suprema, con rinvio ad altra sezione della medesima CTR per l’esame nel merito;
riassunta la causa, la CTR della Toscana, con sentenza in data 26-5- 2009, ha rigettato l’appello a suo tempo proposto contro la decisione di primo grado, disattendendo l’eccezione di litispendenza, non reputando formato alcun giudicato esterno in virtù di anteriori decisioni in materia di Iva e confermando il giudizio della commissione di primo grado in ordine alla natura commerciale delle prestazioni svolte dall’associazione in favore di soggetti terzi, mediante ricerche “porta a porta”, predisposizione di cataloghi e di pacchetti di corsi a prezzi scontati;
l’associazione ha proposto ricorso per cassazione anche nei confronti della detta sentenza, affidandosi a sei motivi ai quali l’amministrazione resiste con controricorso.

Considerato che

col primo mezzo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 e 67 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 21 del d.P.R. n. 636 del 1972, in quanto, in pendenza del giudizio sulla validità della notificazione dell’avviso di accertamento, l’amministrazione avrebbe potuto procedere alla rinnovazione dell’atto e della sua notifica solo prestando acquiescenza alla decisione concernente l’invalidità del primo atto, previo annullamento di questo in autotutela, altrimenti incorrendo in violazione del principio di doppia imposizione anche in relazione all’art. 39 cod. proc. civ.;
col secondo mezzo è poi dedotta l’omessa o insufficiente motivazione sul profilo suddetto, avendo la CTR preteso di risolvere la questione giuridica solo in relazione all’art. 39 cod. proc. civ., senza considerare – o comunque congruamente motivare – la ragione giuridica per cui la nullità o meno della notificazione dell’avviso di accertamento non comportasse, alternativamente, la decadenza dal diritto impositivo o l’inammissibilità per tardività dell’opposizione del contribuente;
i motivi attengono a questione comune e quindi possono essere trattati congiuntamente;
il secondo motivo è inammissibile perché vertente su questione giuridica: questa Corte ha più volte chiarito che il vizio di motivazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche; l’eventualità di un vizio di motivazione su questione di diritto non ha in sé alcun rilievo, ove il giudice abbia poi deciso correttamente la questione sottoposta al suo esame, giacché la motivazione può essere corretta ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ. (v. tra le tantissime Cass. n. 11883-03, Cass. n. 3038-05, Cass. n. 13435-06);
il primo motivo è a sua volta inammissibile perché vertente su questione per la prima volta prospettata in sede di rinvio, e in tal senso va corretta la motivazione dell’impugnata sentenza;
il giudizio di rinvio è soggetto alle comuni regole del codice di procedura civile;
lo è anche in materia tributaria;
va ribadito che nel giudizio di rinvio è in ogni caso preclusa la proposizione di questioni (domande o eccezioni) nuove, attesa la natura di giudizio a struttura chiusa;
consegue che il giudice rimane investito del potere-dovere di riesaminare il merito della causa sulla base di quanto acquisito sino al momento della emissione della sentenza cassata, fermo restando, per le parti, il limite posto dall’art. 394 cod. proc. civ., con conseguente impossibilità, tra l’altro, di prendere nuove conclusioni (cfr. Cass. n. 8872-14, Cass. n. 2085-02; e v. pure, per il processo tributario, Cass. n. 9224-07, secondo cui, anche ex art. 57 del d.lgs. n. 546-92, l’esclusione della possibilità di introdurre eccezioni o tematiche nuove non consente, in sede di rinvio, l’ampliamento della materia del contendere neppure attraverso la produzione di documenti);
è allora risolutivo osservare che la questione di cui si tratta risulta, in base alla sentenza, per la prima volta prospettata col ricorso in riassunzione; sicché la stessa era semplicemente inammissibile;
pure i restanti motivi sono suscettibili di unitario esame; col terzo motivo invero è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ. a proposito del principio per cui il giudicato esterno preclude il riesame dello stesso punto di fatto e di diritto previamente accertato quale presupposto dell’imposizione, che torni in rilievo nel contenzioso relativo a differenti imposte;
col quarto mezzo viene denunciato un vizio di motivazione sul profilo appena detto;
col quinto mezzo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 20 del d.P.R. n. 598 del 1973 vigenti pro tempore, anche in relazione agli artt. 2697 cod. civ., 112, 115 e 116 cod. proc. civ. e 24 della I. n. 456 del 1992, essendo nella specie rilevanti – secondo la ricorrente – non le modalità della avvenuta commercializzazione dei beni e servizi dell’associazione e l’esistenza o meno dei corrispettivi, sebbene esclusivamente la conformità dei servizi e delle cessione ai fini istituzionali dell’associazione stessa;
col sesto motivo è denunciato il vizio di motivazione sul corrispondente punto;
tutti i surriferiti motivi sono in parte inammissibili e in parte infondati;
è stato già da questa Corte chiarito che, in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 598, come modificato, con effetto retroattivo al primo gennaio 1974, dall’art. 2 del d.P.R. 28 dicembre 1982 n. 954, le pubblicazioni di un’associazione religiosa, se prodotte per la vendita, costituiscono attività commerciale con una sola eccezione: che la loro cessione avvenga prevalentemente nei confronti degli associati (v. Cass. n. 1753-97);
tale principio assume concreta rilevanza nel caso di specie, perché la CTR ha affermato, con accertamento di fatto istituzionalmente a lei rimesso e non sindacabile in questa sede in quanto sorretto da congrua motivazione, che l’associazione – mediante individuazione dei destinatari attraverso un’attività di ricerca “porta a porta”, con predisposizione di cataloghi e relativi prezzi e di pacchetti di corsi a prezzi scontati – “richiedeva a terzi, ancora non associati, un corrispettivo predeterminato per la fornitura delle prestazioni e la formalizzazione dell’adesione all’associazione”;
tale accertamento ha giustificato l’inferenza che, “parallelamente alla propria attività religiosa”, l’associazione conducesse “un’attività sostanzialmente di carattere commerciale rivolta a terzi ricavandone un reddito”;
non giova insistere sul connotato di ente religioso dell’associazione Chiesa S., che sarebbe ricavabile dal giudicato richiamato nel terzo motivo e afferente all’Iva; non giova perché – anche a voler prescindere dall’evidente astrattezza del quesito di diritto composto a conclusione del mezzo – la questione decisiva non era affatto risolvibile mediante la mera attribuzione alla contribuente della qualifica formale di associazione senza fini di lucro;
resta infatti fermo il principio per cui la riconducibilità di una certa organizzazione nel novero degli enti religiosi, ai fini dell’assoggettabilità al trattamento tributario speciale riservato a questi ultimi dall’art. 2 del d.P.R. 29 novembre 1973, n. 598, deve essere poi riscontrata sulla base degli elementi di fatto in ordine al concreto esercizio dell’attività (cfr. per riferimenti Cass. n. 1633-95 e anche Cass. n. 12871-01; da ultimo Cass. n. 25586-16); e a tal fine non è sufficiente che gli enti di volta in volta considerati siano sorti con gli enunciati fini, ma occorre altresì accertare, alla stregua del d.P.R. n. 598 del 1973, che l’attività in concreto esercitata non abbia avuto carattere commerciale, in via esclusiva o principale, e inoltre, in presenza di un’attività commerciale di tipo non prevalente, che la stessa sia in rapporto di strumentalità diretta e immediata con quei fini, e quindi, non si limiti a perseguire il procacciamento dei mezzi economici al riguardo occorrenti;
il punto decisivo è che l’affermazione della CTR, secondo la quale l’associazione aveva posto in essere una vera e propria attività commerciale al fine di ricavarne un reddito, mediante vendita di pubblicazioni e organizzazione a pagamento di corsi a beneficio di soggetti non associati, si basa su un corrispondente accertamento di fatto e non è efficacemente contrastata: non lo è nei motivi terzo e quarto, che si soffermano – peraltro con quesiti generici – su questione non risolutiva, quale quella degli effetti del giudicato in materia d’Iva sulla astratta veste non commerciale dell’associazione medesima; non lo è nei motivi quinto e sesto nei quali si assume la conformità dei servizi e delle cessioni ai fini istituzionali dell’associazione con chiaro tentativo di sovvertimento della difforme ricostruzione operata dal giudice di merito;
in conclusione, il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata alle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.