201701.20
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Cass., sez. trib., 20 gennaio 2017, n. 1510 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 10249/2013 R.G. proposto da:

G.A.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via Sicilia, n. 66, presso lo studio del Prof. Avv. Augusto Fantozzi e dell’Avv. Francesco Giuliani, che la rappresentano e difendono giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, entrambi elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 304/1/12, depositata il 28/05/2012.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16 novembre 2016 dal Relatore Cons. Dott. Emilio Iannello;

udito per la ricorrente l’Avv. Daniela Cutarelli, per delega;

udito l’Avvocato dello Stato Bruno Dettori per la controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa DE MASELLIS Mariella, la quale ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto.


Svolgimento del processo


1. Con sentenza depositata in data 28/5/2012 la C.T.R. della Campania, accogliendo l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, affermava la piena legittimità della rettifica del reddito operata dall’Ufficio nei confronti di G.A.M., a fini Irpef per gli anni dal 2002 al 2005, con metodo sintetico, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, commi 4 e 5, in ragione dell’attribuzione per la quota di un quinto per ciascuno dei detti anni del maggior reddito presuntivamente calcolato sulla base di spese per incrementi patrimoniali sostenute dalla contribuente nel 2006 (si trattava in particolare dell’acquisto di un immobile effettuato attraverso un esborso di Euro 428.093,00).

A fondamento di tale decisione rilevavano i giudici d’appello che la contribuente, “pur avendo dimostrato l’esistenza di ulteriori redditi di cui ha goduto il nucleo familiare, conseguiti da E.M., madre del coniuge della ricorrente, non ha indicato analiticamente le movimentazioni finanziarie utilizzate per dimostrare l’effettivo utilizzo delle risorse finanziarie dei componenti del nucleo familiare”; infatti, secondo i predetti giudici, “è condizione necessaria ma non sufficiente” che la contribuente fornisca “idonea documentazione dalla quale emergano elementi tali da giustificare la disponibilità dell’importo pagato a titolo di corrispettivo”.

2. Avverso tale decisione G.A.M. propone ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, cui resiste l’Agenzia delle Entrate depositando controricorso.

La contribuente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..


Motivi della decisione


3. Con il primo motivo di ricorso la contribuente deduce la nullità della sentenza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – per avere la C.T.R. omesso di rilevare il giudicato interno asseritamente formatosi (per omessa specifica impugnazione da parte dell’Ufficio) sulla decisione dei giudici di primo grado nella parte in cui questa, accogliendo il ricorso di essa contribuente, aveva affermato che, a superare la presunzione di maggior reddito, valesse la considerazione degli ulteriori redditi di cui aveva goduto il nucleo familiare, conseguiti da E.M., suocera della ricorrente, nonchè del disinvestimento da parte del coniuge, nel 2006, di fondi per complessivi Euro 102.000 solo in parte (per Euro 59.000) destinati al conferimento di quote nella Pilot S.r.l..

Rileva la ricorrente che tali statuizioni, in punto di fatto, non sono state impugnate dall’Ufficio che, con l’atto d’appello, ha contestato solamente l’idoneità della documentazione prodotta dalla contribuente a dimostrare i redditi agrari percepiti dal coniuge.

4. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 32 e 38 e degli artt. 2729 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto legittimo l’accertamento sintetico solo perchè la contribuente, pur avendo dimostrato il godimento da parte del nucleo familiare di ulteriori redditi, conseguiti da E.M., ha tuttavia omesso di indicare analiticamente le movimentazioni finanziarie dei componenti il nucleo familiare e non ha fornito “documentazione idonea a giustificare la disponibilità dell’importo pagato a titolo di corrispettivo”.

Sostiene la ricorrente che, così argomentando, la C.T.R. ha illegittimamente posto a suo carico un onere della prova non richiesto dalla norma e del tutto sproporzionato alla funzione e alla ratio dell’accertamento sintetico.

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione delle stesse suddette norme, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. omesso di considerare la natura agraria dei redditi conseguiti dal marito e dalla suocera. Sostiene che la commissione regionale, in luogo di richiedere la dimostrazione delle movimentazioni finanziarie, avrebbe dovuto accertare se il nucleo familiare della contribuente risulti titolare di un maggior reddito derivante dalla stessa attività di coltivazione del fondo oppure da fonti diverse.

6. Con il quarto motivo di ricorso la contribuente denuncia ancora violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, artt. 2697 e 2909 c.c., art. 115 c.p.c., D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 19, 24 e57 e art. 53 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto in toto legittimo l’accertamento nonostante il riconoscimento di ulteriori redditi goduti dal nucleo familiare.

Sostiene che tali ulteriori redditi avrebbero dovuto essere portati a decurtazione del reddito sintetico presunto.

7. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – omessa pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la C.T.R. omesso di pronunciarsi sulla eccezione pregiudiziale con cui si contestava la legittimità dell’atto impositivo a motivo della mancata dimostrazione, da parte dell’ufficio, del risultato dell’accertamento sintetico per l’anno 2006.

Posto che, non riguardando l’atto impositivo l’anno 2006, può presumersi che l’Ufficio abbia ritenuto che l’effettivo reddito complessivo netto della contribuente e del suo nucleo familiare è sufficiente a giustificare il reddito sinteticamente presunto per tale anno, sostiene che, con riferimento agli anni precedenti oggetto di accertamento, l’ufficio avrebbe dovuto: 1) individuare l’effettivo reddito complessivo netto accertato per l’anno 2006, aggiungendovi i disinvestimenti patrimoniali effettuati; 2) scomputare dalla spesa dell’incremento patrimoniale (pari a Euro 428.093,00) il suddetto reddito complessivo netto accertato per il 2006; 3) determinare l’eventuale eccedenza dell’incremento patrimoniale rispetto al reddito complessivo netto del 2006; 4) se del caso quindi ripartire solo tale eccedenza proporzionalmente tra i precedenti periodi di imposta 2002-2005 in base alla presunzione di risparmio prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5.

Avrebbe pertanto errato l’ufficio, secondo la ricorrente, a determinare sinteticamente il maggior reddito per gli anni 2002-2005 senza tenere in alcuna considerazione l’esito positivo dell’accertamento per l’anno 2006 e imputando quindi al reddito, per ognuno degli anni in contestazione, l’importo di un quinto (pari a Euro 85.619,00) dell’incremento patrimoniale sostenuto nel 2006, omettendo però di scomputare da questo la quota giustificata dalla contribuente con riguardo al medesimo anno.

6. L’omesso rilievo di tale errore – come detto prospettato, con il quinto motivo, quale vizio di omessa pronuncia da parte dei giudici d’appello – viene in subordine dedotto con il sesto mezzo, quale vizio di violazione di legge.

7. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Occorre infatti rammentare che, come questa Corte ha avuto modo più volte di chiarire, il giudicato non copre tutti i punti che costituiscono antecedente logico della pronuncia, in particolare la valutazione di prove o la ricostruzione di fatti (v. Sez. 5, n. 2831 del 07/02/2008; Sez. 5, n. 24067 del 10/11/2006, Rv. 593953).

Nel caso di specie non altro rilievo può attribuirsi all’affermazione ricavabile dalla motivazione della sentenza di primo grado secondo cui la contribuente avrebbe dimostrato che l’acquisto dell’immobile fu effettuato grazie a disponibilità patrimoniali facenti capo, oltre che alla suocera, anche al proprio coniuge, rinvenienti dalla sua attività di tabacchicoltore e dal disinvestimento di fondi, non costituendo esso certo specifico oggetto del decisum ma piuttosto solo passaggio motivazionale espressivo di una mera valutazione di prova.

Sotto altro profilo può soggiungersi che, come rettamente ricordato nel controricorso, in tema di processo tributario, la regola stabilita dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 56, secondo cui le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado e non specificamente riproposte in appello si intendono rinunciate, deve essere coordinata col principio regolatore di detto processo, che è – almeno per quanto riguarda la sua introduzione – un processo d’impugnazione degli atti autoritativi dell’amministrazione finanziaria indicati nell’art. 19 del citato D.Lgs.. Ne consegue che le ragioni poste a base dell’atto impositivo impugnato si intendono acquisite al giudizio, senza che l’amministrazione finanziaria, che non sia impugnante, abbia l’onere di riproporle, potendo dette ragioni ritenersi sottratte al dibattito processuale soltanto a seguito di precisa volontà manifestata dall’amministrazione stessa (Sez. 5, Sentenza n. 16049 del 29/07/2005, Rv. 583727, che, sulla base dell’enunciato principio, ha ritenuto infondato il motivo di ricorso con cui si denunciava l’inammissibilità dell’appello dell’ufficio, per non avere lo stesso riproposto le ragioni poste a base della pretesa fiscale, rilevando come, nella specie, l’ufficio avesse comunque espressamente ribadito la richiesta di conferma dell’atto impugnato).

Può peraltro rimarcarsi che la doglianza, in buona parte, si appalesa non pertinente alla ratio decidendi, dal momento che almeno uno dei due fatti (godimento da parte del nucleo familiare dei redditi conseguiti da E.M.) che la ricorrente assume doversi ritenere acquisito al giudizio per effetto di giudicato interno, in realtà, anche nella sentenza impugnata è positivamente riconosciuto come sussistente, ma tuttavia viene giudicato di per sè ancora inidoneo a superare la presunzione di maggior reddito fondata sulla spesa per incremento patrimoniale.

8. E’ altresì infondato il secondo motivo di ricorso.

La decisione impugnata si appalesa invero conforme alla regola di giudizio desumibile dalle norme richiamate e fa corretta applicazione dei criteri di riparto dell’onere della prova da esse discendenti.

Occorre al riguardo invero ribadire che la norma di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, legittima la presunzione, da parte dell’amministrazione finanziaria, di un reddito maggiore di quello dichiarato dal contribuente sulla base di elementi indiziari dotati dei caratteri della gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. e, in particolare, per quel che in questa sede interessa, in ragione della “spesa per incrementi patrimoniali”, la quale si presume sostenuta “salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei quattro precedenti” (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 5, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis).

In presenza, dunque, di tale presupposto (nella specie incontestatamente identificato nel descritto esborso di Euro 428.093,00 per l’acquisto di un immobile nel 2006) la norma non impone altro onere all’amministrazione ma piuttosto faculta (e onera) il contribuente a offrire la prova contraria: prova testualmente riferita, nel successivo comma 6, al fatto che “il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte”, con la espressa precisazione che “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.

L’oggetto della prova contraria da parte del contribuente riguarda non solo, dunque, la disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte) ma anche “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso”. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire (Cass. Civ., Sez. 5, 18 aprile 2014, n. 8995, richiamata dalle successive Cass. 26 novembre 2014, n. 25104, 16 luglio 2015, n. 14885), pur non prevedendosi esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, si chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere). In tal senso va letto lo specifico riferimento alla prova (risultante da “idonea documentazione”) della “entità” di tali eventuali ulteriori redditi e della “durata” del relativo possesso, previsione che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi, escludendo quindi che i suddetti siano stati utilizzati per finalità non considerate ai fini dell’accertamento sintetico. Nè la prova documentale richiesta dalla norma in esame risulta particolarmente onerosa, potendo essere fornita, ad esempio, con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare la “durata” del possesso dei redditi in esame, quindi non il loro semplice “transito” nella disponibilità del contribuente.

Tanto premesso, la regula iuris applicata al caso concreto dal giudice a quo appare pienamente rispettosa del quadro normativo così ricostruito, dovendosi in particolare escludere che, nell’aver affermato la piena legittimità dell’accertamento in quanto fondato sulla presunzione di maggior reddito derivante dalla descritta spesa per incremento patrimoniale, esso sia incorso in violazione delle citate norme e dei criteri di riparto dell’onere probatorio.

Rettamente in particolare la C.T.R. ha ritenuto insufficiente la sola prova del godimento da parte del nucleo familiare della contribuente di redditi conseguiti dalla di lei suocera, apparendo tale sola circostanza generica e distante dal più pregnante obiettivo dimostrativo richiesto dalla norma.

Quanto poi alla valutazione di inidoneità degli elementi offerti dalla ricorrente al fine di superare la presunzione predetta, è appena il caso di rilevare che sul punto la sentenza offre specifica motivazione e che le censure al riguardo mosse si appalesano inidonee a consentire alcun sindacato riguardante la congruità di tale valutazione e della sua motivazione, in quanto esclusivamente dedotte a fondamento di asserito vizio di violazione di legge (come detto in realtà insussistente), non essendo invece specificamente dedotto a fondamento del motivo anche un vizio di motivazione (quantomeno nei limiti e secondo i requisiti richiesti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo applicabile ratione temporis).

9. Le esposte considerazioni assorbono e rendono ultroneo l’esame del terzo motivo, essendo evidente che nella prospettiva sopra delineata nessun rilievo può assumere l’accertamento della natura agraria oppure no del maggior reddito goduto dal nucleo familiare della ricorrente.

10. E’ infondato il quinto motivo di ricorso.

Questa Corte, con consolidato orientamento interpretativo, ha infatti escluso la configurabilità dell’omessa pronuncia quando, nonostante la mancanza di una specifica, espressa argomentazione su una tesi difensiva o un’eccezione, la decisione adottata dal giudice risulti in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte e ne abbia comportato il suo rigetto o assorbimento, ovvero, come nel caso di specie, il rigetto di una domanda sia implicito nella costruzione logico-giuridica con la quale venga accolta una tesi incompatibile con la domanda (Cass. 15882/2007). Orbene l’accoglimento dell’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate ha necessariamente comportato la reiezione di tutti i motivi di impugnazione dell’atto impositivo, dovendo ritenersi per implicito disattese tutte le censure che, seppure non espressamente esaminate, siano incompatibili con la soluzione adottata e l’iter argomentativo seguito (Cass., Sez. 5, n. 27310 del 23/12/2014; Sez. 3, n. 407 del 12/01/2006, Rv. 587113).

11. Rimangono assorbiti anche il quarto e il sesto motivo di ricorso, i quali comunque, congiuntamente esaminabili, si appalesano infondati pure per altri profili.

Occorre invero anzitutto rilevare che anch’essi postulano che a superare la presunzione di maggior reddito imponibile non dichiarato possa di per sè valere la mera dimostrazione del godimento da parte del nucleo familiare di ulteriori redditi conseguiti da familiare ad esso appartenenti diversi dalla contribuente; postulato rettamente rigettato nella sentenza impugnata per le ragioni esposte trattando del secondo motivo di ricorso, il cui rigetto assume pertanto – come detto – rilievo assorbente anche rispetto ai detti motivi.

Può comunque soggiungersi che gli stessi muovono da una ricostruzione erronea dei meccanismi inferenziali in forza dei quali la norma richiamata legittima la presunzione di maggior reddito a carico del contribuente in relazione alla spese per incrementi patrimoniali.

Varrà al riguardo rammentare che la norma di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 5 – a mente della quale, secondo il testo applicabile ratione temporis (anteriore alla modifica introdotta dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 22, comma 1, conv. in L. 30 luglio 2010, n. 122), “qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei quattro precedenti” – detta una presunzione (iuris tantum) di favore per il contribuente: quella, cioè, che la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall’ufficio sia sostenuta dal contribuente con redditi conseguiti non nel solo anno in cui la spesa risulta effettuata (e in misura pari al suo intero ammontare) ma già a partire dai quattro anni precedenti in misura costante (e ovviamente minore) pari a un quinto dell’esborso, per ciascun anno. Se ad es. l’esborso, sostenuto per ipotesi nel 2006, è pari a Euro 100.000, non si imputerà all’anno 2006 un reddito non dichiarato di Euro 100.000 ma, ben diversamente, si presumeranno, “salvo prova contraria”, redditi non dichiarati pari a Euro 20.000 costantemente conseguiti nell’arco di cinque anni (il 2006 e i quattro precedenti, a partire dunque dal 2002).

Tale disciplina implica necessariamente che, per ciascuno dei detti anni, la spesa per incremento patrimoniale autorizza bensì la determinazione sintetica ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, di maggior reddito (pari, nell’esempio fatto, a Euro 20.000) ma lascia intatti – per ciascun anno – la facoltà e l’onere per il contribuente di dimostrare “che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta”, con documentazione idonea a comprovare “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso”. A monte, inoltre, il contribuente ha altresì la facoltà (ma ovviamente anche l’onere) di dimostrare che la spesa per incremento patrimoniale in realtà sia stata sostenuta per intero (con redditi esenti ovvero soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta conseguiti) nell’anno stesso in cui essa risulta effettuata ovvero in uno solo dei quattro anni precedenti: prova contraria, questa, che ovviamente escluderebbe l’attribuzione “spalmata” del maggior reddito presunto, pro quota, in ciascuno degli anni compresi nell’arco temporale di cinque anni considerati dalla norma.

Non rispecchia invece la lettera e la ratio della norma, così chiarite, la tesi della ricorrente sottesa ad entrambe le censure in esame, che intende in buona sostanza porre a raffronto – non già per quote, ma in modo unitario – da un lato la spesa per incremento patrimoniale posta a fondamento del detto meccanismo presuntivo, dall’altro il complesso dei redditi goduti dal contribuente e anche dal suo nucleo familiare nell’intero arco temporale di cinque anni considerati della norma, così per altro evidentemente anche obliterando il principio di autonomia dei periodi d’imposta.

Ben diversamente la prova posta a carico del contribuente dell’esistenza di un maggior reddito, esente o soggetto a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, può incidere sul meccanismo presuntivo così delineato solo secondo una delle due alternative: a) il reddito di cui si dà prova è tale da coprire per intero la spesa per incremento patrimoniale e può ritenersi effettivamente destinato ad essa, di modo che la stessa possa ritenersi sostenuta esclusivamente con il reddito percepito in quel dato anno; b) in caso contrario essa verrà soltanto a superare la presunzione del maggior reddito presunto, pro quota, per quel dato anno, ma non anche quella di maggior reddito analogamente presunto, pro quota, per gli altri anni compresi nei cinque considerati (v. Sez. 5, n. 14509 del 15/07/2016, in motivazione).

Ne discende altresì che a base del calcolo delle quote di maggior reddito presunto per così dire spalmate negli anni compresi nel detto arco temporale non può essere posta, come suppone la ricorrente, la differenza tra l’ammontare della spesa e l’ammontare complessivo dei redditi di cui è data prova nell’intero arco temporale di cinque anni, ma tale base di calcolo deve piuttosto sempre identificarsi nell’intero ammontare dell’esborso.

12. Per le esposte considerazioni il ricorso deve in definitiva essere rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 8.500, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2017