201601.27
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Comm. trib. reg. Toscana, 18 gennaio 2016 (ord.), n. 736/1/15 (testo)

27REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DI FIRENZE

PRIMA SEZIONE

riunita con l’intervento dei Signori:

CICALA MARIO – Presidente e Relatore

MOLITERNI FRANCESCO PAOLO – Giudice

PICHI PAOLO – Giudice

ha emesso la seguente

ORDINANZA

– sull’appello n. 1587/2015

depositato il 23/06/2015

– avverso la sentenza n. 494/2014 Sez:1 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di PISTOIA

contro:

AG. ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE PISTOIA

proposto dall’appellante:

P.P. S R L

LEGALE RAPPRESENTANTE S.I.

VIA C. D. M. 17 51100 P.

difeso da:

PRATESI ALESSANDRO

VIA CORRADO DA MONTEMAGNO 59/3 51039 QUARRATA PT

Atti impugnati:

AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRES-ALTRO 2008

AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IVA-ALTRO 2008

AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRAP 2008

AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRPEF-ALTRO 2008


Svolgimento del processo


I.S. nella qualità di amministratrice della P.P. srl propone appello avverso la sentenza 494/01/2014 del 27 novembre 2014 con cui la Commissione Tributaria Provinciale di Pistoia accoglieva solo parzialmente il suo ricorso avverso avviso di accertamento relativo ai redditi per 2008.

L’Agenzia si è costituita in giudizio proponendo appello incidentale


Motivi della decisione


1.Impostazione della problematica

Si osserva preliminarmente che è irrilevante l’affermazione della Agenzia secondo cui “la società è in concordato preventivo”; sia perché non viene fornito alcun riscontro probatorio; sia perché il debitore in regime di concordato preventivo conserva la piena gestione dei suoi beni e dei suoi rapporti giuridici anche tributari; con l’obbligo solo di orientarli alla funzionalità del soddisfacimento dei creditori, obbiettivo del resto esistente nel caso di specie, posto che il debito tributario inciderebbe negativamente sugli altri creditori.

Passando al merito della causa, appare pregiudiziale la questione sollevata con il quarto e quinto motivo di appello (violazione dell’art. 12, 7 comma dello Statuto del Contribuente, e violazione del contraddittorio endoprocedimentale).

Si tratta di tesi già dedotta con il ricorso introduttivo del processo e respinta dalla sentenza impugnata, in forza della considerazione (ampiamente condivisa nella giurisprudenza della Cassazione) secondo cui la norma citata non si applicherebbe alle verifiche “a tavolino”, ma solo alle verifiche conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche. E nel caso di specie l’accertamento si fondava tra l’altro sulle risultanze di 26 contratti di compravendita stipulati dalla società ed in cui venivano indicati valori ritenuti non congrui dalla Amministrazione.

La decisione del punto coinvolge una questione assai controversa. Cioè la problematica relativa alla sussistenza o meno di un generale obbligo per la Amministrazione di instaurare contraddittorio con il contribuente prima di emettere un atto di accertamento, cioè di formulare una pretesa tributaria non fondata sulle mere dichiarazioni del contribuente, bensì sulla affermazione di dati non forniti dal contribuente stesso. Questione di grande rilievo ove si deduca che la violazione del “diritto al contraddittorio” determina la nullità dell’atto impositivo.

Come noto, il contraddittorio amministrativo-tributario è previsto in numerose norme specifiche che prevedono (esplicitamente o implicitamente) la nullità dell’accertamento emesso in difetto di tale contraddittorio.

Le disposizioni cui si accenna costituiscono un quadro assai eterogeneo e variegato, in cui per l’ampiezza dell’ambito di applicazione spicca l’art. 12, comma 7, della L. 27 luglio 2000, n. 212, qui richiamato dalla parte privata. Ed in base alla sentenza n. 18184 del 29 luglio 2013 delle Sezioni Unite, la norma deve essere interpretata nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.

La norma -pur di ampia applicazione- prevede però un diritto al contraddittorio a favore solo del contribuente “nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività”. E ciò suscita, come ovvio, una problematica di razionalità se le ipotesi in cui il contraddittorio è prescritto vengono poste a confronto con altre simili in cui il contraddittorio non è imposto. Con conseguenti dubbi di costituzionalità del sistema (questione sollevata dalla sezione quinta della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 24739 del 5 novembre 2013).

2. Il contraddittorio amministrativo

Tutti questi dubbi sarebbero stati superati ove si fosse affermata la sussistenza nel nostro ordinamento di un “principio generale del contraddittorio” applicabile anche al di fuori dei casi in cui il contraddittorio (e la conseguente nullità dell’atto emanato in violazione) sono ricavabili dalle specifiche disposizioni. In simile ipotesi, infatti sarebbe venuta meno ogni disparità di trattamento fra casi analoghi, essendo comunque e sempre obbligatorio il contraddittorio amministrativo.

In questo senso sembrava si fossero espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le sentenze 19667 e 19668/2014 secondo cui “la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una “decisione partecipata” mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale Collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella “fase precontenziosa” o “endoprocedimentale”, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell’obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell’emanazione di questo, realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost., e il buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’art. 97 Cost.

A sua volta, la L. n. 23 del 2014, aveva previsto l’introduzione del principio invitando il legislatore delegato a “rafforzare il contraddittorio nella fase di indagine e la subordinazione dei successivi atti di accertamento e di liquidazione all’esaurimento del contraddittorio procedimentale” (art.9 primo comma lettera b). Mentre l’ Agenzia delle Entrate (Circolare n. 25/E del 6 agosto 2014 – Dir. Centrale Accertamento avente ad oggetto Accertamento – Prevenzione e contrasto dell’evasione – Anno 2014 – Indirizzi operativi), ha sottolineato ” la centralità del rapporto con il contribuente che, nell’ambito dell’attività di controllo, si declina attraverso la partecipazione del cittadino al procedimento di accertamento mediante il contraddittorio, sia nella fase istruttoria sia nell’ambito degli istituti definitori della pretesa tributaria”.

Questo orientamento sembrava, infine, aver trovato una sanzione nella sentenza 132/2015 della Corte Costituzionale che ha dichiarato inammissibile la questione sollevata dalla sezione quinta della Corte di Cassazione con la già citata ordinanza n. 24739 del 5 novembre 2013. La Cassazione aveva ipotizzato una violazione dell’art. 3 della Costituzione in quanto l’art. 37 bis, comma 4, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (sull’abuso di diritto) prevede(va) il contraddittorio amministrativo solo nelle fattispecie specificamente indicate dallo stesso art. 37bis e non in tutte le altre ipotesi di abuso enucleate dalla giurisprudenza. A sua volta, la Corte Costituzionale ha ritenuto la non sussistenza della disparità di trattamento in quanto, “secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel nostro diritto vige il principio generale del contradditorio, che trova applicazione anche ove non sia enunciato dalle specifiche disposizioni di legge. E quindi, non vi è disparità di trattamento fra i casi in cui il contradittorio è previsto da una puntuale disposizione di legge e quelli in cui difetta simile specifica previsione”.

3- La sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 9 dicembre 2015

In una valutazione del “diritto vivente” sul punto in discussione si deve oggi riconoscere un ruolo determinante alla sentenza n. 24823 del 9 dicembre 2015, con cui le Sezioni Unite della Cassazione hanno esercitato con la massima autorevolezze e completezza di argomentazioni la loro funzione di nomofilachia.

La pronuncia in questione chiarisce ed afferma che a differenza dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati” (quali appunti l’IRES e l’IRAP qui in discussione), l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito. Si può poi per completezza ricordare che secondo la sentenza 24823/15 anche in tema di tributi “armonizzati” (quali l’IVA), avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta l’invalidità dell’atto, solo quando il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto.

4. La questione di legittimità costituzionale: diritto di difesa e parità delle parti

Per valutare la situazione di diritto sopra delineata, occorre considerare che il processo tributario si caratterizza per la sostanziale assenza di una fase istruttoria o di raccolta delle prove da parte di un giudice terzo, o comunque in cotraddittorio. Ancorchè l’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992 al suo primo comma reciti “le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli Uffici tributari ed all’ ente locale da ciascuna legge d’imposta”. Ed al secondo comma soggiunga che “le commissioni tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre consulenza tecnica”

Ragioni dovute alla formazione strutturale delle Commissioni composte da magistrati part time inducono i giudici a pervenire alla decisione con celerità, senza indulgere ad indagini ulteriori e da essi stessi gestite.

Di fatto, l’istruttoria fiscale è affidata quasi esclusivamente alla Amministrazione che -ad esempio- raccoglie dichiarazioni di persone informate dei fatti. Dichiarazioni che possono compromettere l’esito del processo anche se, si suole ripetere che non sono vere testimonianze, ossia prove, ma solo indizi.

Il dispositivo che conclude il processo tributario è assai spesso determinato da indizi e quindi la distinzione fra indizio e prova sfuma, diviene quasi impercettibile; in un processo in cui l’esito sfavorevole al privato può essere determinato dal “più probabile che non” e non occorre certo il superamento, necessario invece nel processo penale, di “ogni ragionevole dubbio”.

Di conseguenza, gli “indizi” raccolti dalla Amministrazione svolgono un ruolo decisivo e producono effetti identici a quelli propri di una istruttoria giudiziaria.

Posto che non è possibile, e neppure forse auspicabile, che i giudici tributari si facciano ricercatori o anche solo percettori di prove, ed acquisiscano sistematicamente indizi in contraddittorio, determinando una dilatazione dei tempi incompatibile con la ragionevole durata del contenzioso, appare necessario che il contribuente abbia voce, sia presente anche in quella fase, pur qualificabile come “amministrativa”, in cui si forma il materiale probatorio su cui poggerà un giudizio spesso pronunciato dopo una breve discussione orale.

Del resto, anche nella ipotesi invero poco frequente che il giudice utilizzi a fondo i poteri riconosciutigli dal citato art. 7 della D.Lgs. n. 546 del 1992 processuale, permane comunque la circostanza che l’indagine giudiziaria si affianca (e non sostituisce) l’indagine amministrativa, che gli esiti dell’accertamento amministrativo hanno un’efficacia probatoria identica a quella dell’accertamento disposto dal giudice.

Il contraddittorio amministrativo appare dunque strumentale a garantire il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., ed altresì che le parti processuali si collochino, su un piano se non di compiuta parità almeno “in condizioni di parità” di guisa che il processo risulti “giusto” , come prescrive l’ art. 111 della Costituzione; che si ispira all’art. 6 della Carta Europea dei Diritti dell’ Uomo recepita dall’art. 9 della Costituzione Europea; secondo cui “l’Unione aderisce alla Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (e quindi il citato art. 6 è posto sotto lo “scudo” degli artt. 11 e 117, 1 comma Cost.). E appare ovvio che non è né giusto né equo un processo in cui le parti non siano poste “in condizione di parità”.

5. La questione di legittimità costituzionale: la nozione di procedimento nell’art. 24 Cost.

Del resto, la Corte Costituzionale ha in passato, con un importante complesso di sentenze, imposto alla recalcitrante Corte di Cassazione di applicare le garanzie previste dagli artt. 304bis ter e quater introdotti nel codice di procedura penale “Rocco” con la L. 18 giugno 1955, n. 517, anche agli atti di indagine della polizia giudiziaria in considerazione del fatto che essi entravano nel processo penale con valore analogo a quello degli atti istruttori raccolti dal giudice.

E’ una considerazione che -a maggior ragione- vale per il processo tributario ove è addirittura escluso che il giudice possa procedere ad una attività di acquisizione diretta (o quanto meno con la partecipazione delle parti) delle dichiarazioni di persone informate; e quindi il giudice conosce delle dichiarazioni di costoro solo attraverso i verbali degli accertatori tributari.

Afferma infatti la giurisprudenza che “la disposizione contenuta nell’art. 7, 4 comma, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui nel processo tributario non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale, limita i poteri del giudice tributario ma non pure i poteri degli organi di verifica, e pertanto la limitazione vale solo per la diretta assunzione, da parte del giudice stesso, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, cioè per quella narrazione che, in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo assunto quale teste, acquista un particolare valore probatorio, mentre le dichiarazioni dei terzi, raccolte da verificatori o finanzieri e inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono perciò pienamente utilizzabili quali elementi di convincimento” (Cass. civ., sez. trib., 16-07-2014, n. 16223; Cass. civ., sez. trib., 07-02-2013, n. 2916. Cass. civ., sez. trib., 30-09-2011, n. 20032).

La sancita impossibilità che le persone “informate dei fatti” siano udite nell’ambito della procedura contenziosa con le garanzie del contraddittorio, rende necessaria una garanzia nella fase amministrativa in cui le dichiarazioni di queste persone sono raccolte e documentate. Questa garanzia potrebbe essere limitata alla applicazione del meccanismo di cui al 7 comma dell’art. 12 dello Statuto del contribuente (deposito del verbale e termine di 60 giorni accordato al contribuente per sue eventuali istanze). Ma deve pur sussistere.

Il contribuente verrebbe così posto , sempre per proseguire nell’esempio formulato, nella possibilità di evidenziare le contraddizioni o dubbi sulle dichiarazioni del teste sollecitandone una nuova audizione. E l’omessa od illogica risposta della Amministrazione vizierebbe l’atto impositivo.

Né appare sufficiente a bilanciare gli inconvenienti evidenziati la possibilità riconosciutagli dalla giurisprudenza maggioritaria di “introdurre in giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, compete non solo all’Amministrazione finanziaria, che tali dichiarazioni abbia raccolto nel corso d’indagine amministrativa, ma, altresì, con il medesimo valore probatorio, al contribuente”. E’ infatti evidente che queste dichiarazioni raccolte privatamente non costituiscono una forma di adeguato contraddittorio anche quando le dichiarazioni siano raccolte (ma con quale autorità ed autorevolezza?) attraverso l’esame dei medesimi soggetti ascoltati dal Pubblico Ufficio.

Si adatta cioè alle questioni in esame quanto affermato – fra le tante- nella sentenza della Corte Costituzionale 149/1969, secondo cui “se al termine “procedimento”, a cui, nel garantire la difesa come diritto inviolabile, fa riferimento l’art. 24 della Costituzione, si desse un significato restrittivo, con conseguente esclusione di tutte le attività poste in essere al di fuori del normale intervento del giudice, il principio costituzionale perderebbe gran parte della sua effettività”. Ciò ovviamente con il limite secondo cui ” la nozione “procedimento” non può dilatarsi al di là dei confini necessari e sufficienti a garantire a tutti il diritto di difesa. E poiché in concreto questo non può essere operante prima che un soggetto risulti indiziato del reato, è a partire da questo momento che devono entrare in funzione i meccanismi normativi idonei a garantire almeno un minimo di contraddittorio, assistenza e difesa”. Per rendere calzante la citazione è sufficiente sostituire al concetto di “indiziato di reato” quello di “soggetto nei cui confronti la Amministrazione prospetta la emissione di un atto di accertamento”.

Tutto ciò evidenzia la non manifesta infondatezza del dubbio di illegittimità costituzionale che investe il 7 comma dell’art. 10 della L. 27 luglio 2000, n. 212, nella parte in cui riconosce al contribuente il diritto a ricevere copia del verbale con cui si concludano le operazioni di accertamento (ad esempio compiute mediante acquisizione di dati bancari, o accesso nei locali non di pertinenza del contribuente stesso) e di disporre di un termine di 60 giorni per eventuali controdeduzioni, alle sole ipotesi in cui la Amministrazione abbia “effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività” del contribuente.

E tale quesito è indubbiamente rilevante in quanto, in forza della sentenza 24823/15 il principio del contraddittorio trova applicazione, e solo secondo le modalità indicate dal diritto Europeo esclusivamente alla parte dell’accertamento relativo all’IVA, mentre non può essere utilmente invocato per la parte dell’accertamento relativo alle imposte dirette (IRAP, IRES); in questo senso anche la sentenza della sezione tributaria della Cassazione n. 26117 del 30 dicembre 2015 secondo cui ove un accertamento tributario riguardi -come nel caso di specie- per una parte tributi “non armonizzati” (IRES e IRAP), per l’altra tributi “armonizzati” (IVA); e il contribuente deduca la nullità dell’accertamento stesso in quanto non gli è stata offerta la possibilità di interloquire in sede amministrativa, il motivo è infondato con riferimento ai tributi “non armonizzati” perché le garanzie fissate dall’art. 12, comma 7,L. n. 212 del 2000 trovano applicazione esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente ( mentre per quanto riguarda i tributi “armonizzati” il motivo -in astratto fondato- era però nel caso di specie inammissibile, in quanto il ricorrente, non aveva dedotto se ed in quale precedente sede processuale avesse specificatamente indicato le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato).

6. Ulteriori profili di incostituzionalità

Il particolare regime delle operazioni di accertamento a seguito di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività del contribuente appare infine irragionevolmente discriminatorio in relazione a quei contribuenti che non hanno subito accesso o verifica nei locali.

Alcuni hanno diritto al contraddittorio altri n. in relazione al fatto -in sé non pertinente- di aver subito una ispezione. Né è del tutto persuasiva la contro obbiezione: “ma se c’è stata l’ispezione vi è, o può essere, l’acquisizione di dati e documenti non fomiti dal contribuente stesso; mentre se i dati sono stati fomiti dal contribuente in fondo c’è una sorta di contraddittorio preventivo”.

L’osservazione non copre infatti la gamma intera delle possibili circostanze di fatto. Se viene redatto un accertamento a carico di un soggetto in base a documenti di pertinenza di un altro imprenditore, reperiti in un accesso nella azienda di quest’ultimo, il primo contribuente nulla sa (rectius potrebbe sapere) e si vede piovere addosso magari all’improvviso un accertamento esecutivo. E qualcosa di simile accade ove un accertamento venga emanato sulla base di documenti, fomiti da terzi (così come accaduto per la “lista Falciani”); o di dati bancari ricavati da un conto neppur direttamente riconducibile al contribuente, ma di pertinenza di altro soggetto (come il coniuge) che si ipotizzi a lui collegato.

Nel caso di specie, ad esempio, sono stati utilizzati dal Fisco anche dati ricavati dai contratti di mutuo stipulati dagli acquirenti, dati non necessariamente noti al venditore.

Con una diversità di disciplina, che appare sospetta di incostituzionalità alla luce dell’art. 3 della Costituzione e dell’art.53 Cost. (in quanto la capacità contributiva viene accertata con strumenti differenti scelti in base a criteri non razionali)


P.Q.M.


La Commissione, vista la L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 111, 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale del 7 comma dell’art. 10 della L. 27 luglio 2000, n. 212, nella parte in cui riconosce al contribuente il diritto a ricevere copia del verbale con cui si concludano le operazioni di accertamento e di disporre di un termine di 60 giorni per eventuali controdeduzioni, nelle sole ipotesi in cui la Amministrazione abbia “effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività” del contribuente; ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale; ordina alla Segreteria che la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei Deputati.

Così deciso in Firenze, nella Camera di consiglio della prima sezione, il 21 dicembre 2015.