201406.24
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Cass., sez. unite civ., 16 giugno 2014, n. 13676 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Primo Presidente f.f. –

Dott. RORDORF Renato – Presidente di Sez. –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6432-2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI 84 PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

P.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 85/1/2010 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di VENEZIA, depositata il 19/10/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/02/2014 dal Consigliere Dott. BIAGIO VIRGILIO;

udito l’Avvocato Lorenzo D’ASCIA dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.


Svolgimento del processo


1. L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto indicata in epigrafe, con la quale, per quanto qui ancora rileva, è stato rigettato l’appello dell’Ufficio locale dell’Agenzia e confermato il diritto di P.F. al rimborso della maggiore IRPEF che era stata trattenuta dal datore di lavoro, Banca Nazionale del Lavoro, sulle somme corrispostegli dal 2001 al 2004 a titolo di incentivo alle dimissioni, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, comma 4 bis, (poi divenuto – a seguito della nuova numerazione introdotta dal D.Lgs. n. 344 del 2003 – art. 19, comma 4 bis).

La domanda di rimborso, presentata in data 1 febbraio 2006, era basata sulla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 21 luglio 2005, resa in causa C-207/04, Vergani, con la quale la norma nazionale sopra indicata (secondo la quale era prevista un’aliquota ridotta alla metà sulle somme erogate in favore dei lavoratori che avevano superato i 50 anni, se donne, e i 55 anni, se uomini) era stata dichiarata in contrasto con la Direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.

Il giudice d’appello, in particolare, respingendo l’eccezione dell’Ufficio, ha confermato il diritto al rimborso anche per l’anno 2001, ritenendo che la decorrenza del termine quadriennale per proporre l’istanza, stabilito dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, dovesse essere individuata nella data di pubblicazione della citata sentenza della Corte di giustizia, solo a seguito della quale si era realizzato il presupposto del diritto alla restituzione.

2. Il P. non ha svolto attività difensiva.

3. La sesta sezione civile, sottosezione tributaria, con ordinanza n. 959 del 2013, depositata il 16 gennaio 2013, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite, considerato che la questione della decorrenza del termine per l’esercizio del diritto al rimborso di somme versate in applicazione di una norma impositiva dichiarata in contrasto col diritto comunitario da una sentenza della Corte di giustizia è stata decisa in senso difforme da pronunce della sezione tributaria ed anche in ragione della particolare rilevanza della questione stessa.

4. Il ricorso è stato, quindi, fissato per l’odierna udienza.

5. La ricorrente ha depositato memoria.


Motivi della decisione


1.1. La questione sottoposta all’esame delle sezioni unite consiste nello stabilire se il termine di decadenza, previsto dalla normativa tributaria (nella specie, trattandosi di imposta sui redditi, dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38) per l’esercizio, attraverso la presentazione di apposita istanza, del diritto al rimborso di un’imposta che sia stata dichiarata, in epoca successiva all’indebito versamento, incompatibile con il diritto comunitario da una sentenza della Corte di giustizia, decorra comunque – come sostiene l’Agenzia delle entrate – dalla data del detto versamento, oppure – come ha ritenuto il giudice a quo – da quella in cui è intervenuta la pronuncia che ne ha sancito la contrarietà all’ordinamento comunitario.

1.2. La vicenda normativa che ha dato origine alla controversia in esame ha avuto uno svolgimento alquanto peculiare.

In sintesi:

a) l’art. 17, comma 4 bis, del TUIR, comma introdotto dal D.Lgs. n. 314 del 1997 e poi riprodotto nel D.Lgs. n. 344 del 2003, art. 19, comma 4 bis, (“nuovo” TUIR), prevedeva che “per le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori che abbiano superato l’età di 50 anni se donne e di 55 anni se uomini, di cui all’art. 16 (poi 17), comma 1, lett. a), l’imposta si applica con l’aliquota pari alla metà di quella applicata per la tassazione del trattamento di fine rapporto e delle altre indennità e somme indicate alla richiamata lett. a) del comma 1 dell’art. 16”;

b) la Corte di giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza emessa il 21 luglio 2005 nella causa C-207/04, Vergani, affermò che tale disposizione si poneva in contrasto con la direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro;

c) il D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 23, convertito in L. n. 248 del 2006, abrogò l’art. 19, comma 4 bis, TUIR, cit., ma dispose che tale disciplina “continua ad applicarsi con riferimento alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati prima della data di entrata in vigore del presente decreto, nonchè con riferimento alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati in attuazione di atti o accordi, aventi data certa, anteriori alla data di entrata in vigore del presente decreto”;

d) l’Amministrazione finanziaria, con la risoluzione n. 112/E del 13 ottobre 2006, espresse l’avviso che le istanze di rimborso proposte in base alla detta sentenza non potessero essere accolte, argomentando che non necessariamente l’adeguamento della legislazione nazionale alla statuizione della Corte Europea si sarebbe dovuto risolvere nell’applicazione agli uomini del più favorevole limite di età di accesso al beneficio previsto per le donne (50 anni), giacchè, almeno in linea teorica, tale adeguamento si sarebbe potuto realizzare anche applicando alle donne il più sfavorevole limite di età di accesso al beneficio (55 anni) previsto per gli uomini;

e) la Corte di giustizia, nuovamente investita della questione, con ordinanza del 16 gennaio 2008, nelle cause riunite da C-128/07 a C- 131/07, Molinari e aa., ha statuito che “qualora sia stata accertata una discriminazione incompatibile con il diritto comunitario, finchè non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti della categoria sfavorita lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria”;

f) con circolare n. 62/E del 29 dicembre 2008, l’Amministrazione ha definitivamente preso atto di quanto stabilito dalla Corte di giustizia.

1.3. L’ordinanza di rimessione, premesso che sulla specifica fattispecie oggetto del giudizio non vi sono precedenti nella giurisprudenza di legittimità, segnala che in più occasioni, invece, la Corte è stata chiamata ad occuparsi del problema della decorrenza del termine di decadenza dal diritto al rimborso di altre imposte dichiarate comunitariamente illegittime.

Da un lato, l’orientamento prevalente e più antico, è nel senso della decorrenza del termine dalla data del pagamento, a nulla rilevando che in quel momento non fosse stata ancora dichiarata l’incompatibilità della norma interna con il diritto comunitario: si segnalano Cass., sez. un., n. 3458 del 1996 (in tema di rimborso della c.d. tassa sulle società), Cass. n. 4670 e n. 13087 del 2012 (sull’imposta di consumo sugli oli lubrificanti).

Dall’altro, secondo Cass. n. 22282 del 2011 (resa anch’essa in tema di accisa versata sugli oli lubrificanti), il dies a quo di decorrenza del termine va individuato nella data di deposito della sentenza della Corte di giustizia, e ciò in virtù dei principi elaborati da questa Corte in tema di overruling (Cass., sez. un., n. 15144 del 2011), nel senso, cioè, che l’imprevedibile mutamento di giurisprudenza – che introduca una decadenza o una preclusione prima escluse – non può ridondare a svantaggio del cittadino che ha fatto incolpevole affidamento sul precedente consolidato orientamento.

Il Collegio rimettente, premesso di ritenere che i principi affermati in tema di overruling non si attagliano direttamente al caso qui in esame, afferma, tuttavia, che gli stessi costituiscono indice di un processo evolutivo tendente ad introdurre nell’ordinamento dei temperamenti al principio della intangibilità dei meccanismi decadenziali, al fine di renderlo compatibile con la effettività della tutela dei diritti soggettivi: in tale prospettiva la decadenza non si ricollegherebbe al decorso del tempo, ma si configurerebbe, almeno in parte, come sanzione dell’inerzia colpevole del soggetto interessato (nella specie, del contribuente). Ma, soprattutto, prosegue l’ordinanza, ciò che, già prima della sentenza sull’overruling, si è andato sempre più valorizzando è il principio di tutela dell’affidamento del cittadino, come norma fondamentale che presidia la regolazione dei rapporti tra legge, giurisprudenza e fattispecie concreta.

In definitiva, conclude la Corte, un punto di equilibrio tra le opposte esigenze potrebbe essere individuato escludendo dall’ambito di operatività dei meccanismi decadenziali impeditivi dell’esercizio delle azioni di rimborso le ipotesi di inerzia incolpevole, ossia di inerzia giustificata dall’affidamento del contribuente nella legittimità comunitaria della norma impositiva interna, che risulti fondato sulla prassi amministrativa o sugli orientamenti prevalenti nella giurisprudenza nazionale.

2.1. Ad avviso del Collegio, non vi è spazio per introdurre temperamenti od eccezioni a principi ed esigenze fondamentali dell’ordinamento, quali quelli coinvolti nella fattispecie, consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’UE. 2.2. Va premesso, in linea generale, come si dirà meglio in seguito, che gli istituti della prescrizione e della decadenza sono posti a presidio del principio, irrinunciabile in ogni ordinamento giuridico, della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche, con il corollario della conseguente intangibilità dei c.d. rapporti esauriti.

Per quanto riguarda la fissazione della durata del termine di prescrizione dei diritti, o di decadenza dagli stessi, il legislatore gode di ampia discrezionalità, con l’unico limite dell’eventuale irragionevolezza, qualora esso venga determinato in modo da non rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce e quindi inoperante la tutela voluta accordare al cittadino leso (cfr., tra le tante, Corte cost. n. 234 del 2008).

Anche la Corte di giustizia ha sempre ritenuto compatibile con il diritto dell’Unione la fissazione di ragionevoli termini di ricorso a pena di decadenza, nell’interesse della certezza del diritto, in quanto termini del genere non siano tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (da ult., sentenza 16 gennaio 2014, C-429/12, Pohl, punto 29).

2.3. Va ora affrontato il tema – in cui si inquadra la questione rimessa a queste sezioni unite – della decorrenza del termine, cioè della individuazione del momento a partire dal quale il termine inizia a decorrere.

In materia tributaria (premesso che nell’ordinamento tributario italiano vige, per la ripetizione del pagamento indebito, un regime speciale basato sull’istanza di parte, da presentare, a pena di decadenza dal relativo diritto, nel termine previsto dalle singole leggi di imposta, o, in mancanza di queste, dalle norme sul contenzioso tributario, e tale regime impedisce, in linea di principio, l’applicazione della disciplina prevista per l’indebito di diritto comune: cfr. Cass. n. 11456 del 2011), rilevano, in particolare, per quanto qui interessa, il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, il quale, in tema di rimborso delle imposte sui redditi, stabilisce il dies a quo nella “data del versamento” o in quella “in cui la ritenuta è stata operata”, e il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, norma residuale e di chiusura del sistema, in virtù del quale “la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.

L’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte è rigoroso nella identificazione (di regola) nel giorno del versamento del dies a quo (come tale non computabile) del termine di decadenza per l’esercizio del diritto al rimborso dell’importo pagato.

Si è, infatti, affermato, ad esempio, che: a) il termine di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso, con riferimento ai versamenti in acconto, decorre dal versamento del saldo nel caso in cui il diritto al rimborso derivi da un’eccedenza dei versamenti in acconto, rispetto a quanto risulti poi dovuto a saldo oppure qualora derivi da pagamenti cui inerisca un qualche carattere di provvisorietà, poichè subordinati alla successiva determinazione in via definitiva dell’obbligazione o della sua misura, mentre decorre dal giorno del versamento dell’acconto stesso, nel caso in cui quest’ultimo, già al momento in cui venne eseguito, non fosse dovuto o non lo fosse nella misura in cui fu versato, ovvero qualora fosse inapplicabile la disposizione di legge in base alla quale venne effettuato, poichè in questi casi l’interesse e la possibilità di richiedere il rimborso sorge sin dal momento in cui avviene il versamento (tra le altre, Cass. nn. 56 del 2000, 4282, 7926 e 14145 del 2001, 21557 del 2005, 13478 del 2008, 4166 del 2014); b) il termine di decadenza per la presentazione della domanda di rimborso non può farsi decorrere dalla data della emanazione di circolari o risoluzioni ministeriali interpretative delle norme tributarie in senso favorevole al contribuente, non avendo detti atti natura normativa ed essendo, quindi, inidonei ad incidere sul rapporto tributario (Cass. nn. 11020 del 1997, 813 del 2005, 23042 del 2012, 1577 del 2014) (nè, ai fini di una diversa conclusione sul punto, assume rilievo la sentenza della Corte di giustizia 15 dicembre 2011, C-427-10, Banca Popolare Antoniana Veneto, attinente a vicenda del tutto peculiare).

Deroghe al detto principio sono state individuate, in applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 cit., comma 2, nei casi di procedimenti di riconoscimento di agevolazioni tributarie, poichè è dal momento della conclusione di tale procedimento che sorge per il contribuente il diritto alla restituzione della differenza tra l’imposta versata nella misura ordinaria e quella risultante dall’applicazione dei benefici fiscali, con la conseguenza che la domanda di rimborso deve essere presentata nel termine di due anni, decorrente dall’anzidetto momento (Cass. nn. 7116 del 2003, 10312 del 2005, 24183 del 2006, 16328 del 2013); oppure nel caso in cui una legge sopravvenuta aveva introdotto, con effetto retroattivo, un beneficio fiscale prima non previsto, peraltro con l’esplicita previsione di decorrenza del termine per proporre domanda di rimborso dalla data di entrata in vigore dello ius superveniens (Cass. n. 3575 del 2010).

2.4. Deve ora esaminarsi il quesito specifico, qui direttamente rilevante, relativo all’individuazione del giorno di decorrenza del termine decadenziale del diritto al rimborso qualora, successivamente al versamento del tributo, intervenga una pronuncia della Corte di giustizia che dichiari la disciplina impositiva nazionale in contrasto con il diritto comunitario.

Anche in tale ipotesi, la giurisprudenza di questa Corte è, in misura assolutamente prevalente (come riconosce la stessa ordinanza di rimessione), nel senso della decorrenza del termine comunque dal giorno successivo al versamento poi rivelatosi indebito.

Già con riferimento al problema della decorrenza del termine decadenziale nel caso di ritardata trasposizione nell’ordinamento interno di direttiva comunitaria (self executing, cioè con contenuto incondizionato e preciso), questa Corte, nell’individuare il dies a quo nel giorno del pagamento, ha avuto occasione di affermare che: a) il principio posto dall’art. 2935 cod. civ., secondo cui la prescrizione “comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” – il quale è da ritenersi applicabile anche alla decadenza – deve essere inteso con riferimento alla sola possibilità legale, non influendo sul decorso della prescrizione, salve le eccezioni stabilite dalla legge, l’impossibilità di fatto di agire in cui venga a trovarsi il titolare del diritto (Relazione al codice, p. 1198) (Cass. n. 10231 del 1998, che richiama Cass. n. 9151 del 1991); b) tra gli impedimenti “di fatto” va annoverato anche l’ostacolo all’esercizio di un diritto rappresentato dalla presenza di una norma costituzionalmente illegittima, in quanto chi si ritenga leso da tale limitazione ha il potere di percorrere la via dell’instaurazione di un giudizio e nel corso di tale giudizio richiedere che venga sollevata la relativa questione; se subisce passivamente detto impedimento, non può sfuggire alla conseguenza che il rapporto venga ad esaurirsi; c) a maggior ragione, non può essere ravvisato un impedimento “legale”, come tale idoneo ad incidere sulla decorrenza della prescrizione, nella presenza di una norma di diritto nazionale incompatibile con il diritto comunitario, posto che – mentre l’accertamento della illegittimità costituzionale di una norma è riservato ad un organo diverso dall’autorità giurisdizionale, con la conseguenza che, quando la questione sia sollevata nel corso di un giudizio, esso deve essere sospeso fino a quando la questione non sia decisa (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23) – il contrasto tra la norma di diritto interno e quella comunitaria può essere rilevato direttamente dal giudice che, sulla base di tale premessa, è tenuto a non darle applicazione, anche quando sia stata emanata in epoca successiva a quella comunitaria (Cass. nn. 10231 del 1998, cit., 7176 del 1999 e succ. conff.; cfr., anche, Cass. n. 18276 del 2004).

Tali principi sono stati confermati, sulla base delle stesse ragioni, anche per le ipotesi in cui l’incompatibilità del diritto interno con il diritto comunitario sia stata dichiarata con sentenza della Corte di giustizia (cfr. Cass. nn. 4670 e 13087 del 2012).

Del resto, è altrettanto consolidato il principio della equiparazione, ai fini che qui interessano, tra tributi dichiarati costituzionalmente illegittimi e tributi dichiarati in contrasto con il diritto comunitario (Cass. nn. 3306 del 2004 e 20863 del 2010).

Ciò anche in considerazione del fatto che la Corte di giustizia ha affermato che l’interpretazione di una norma di diritto dell’Unione data dalla Corte nell’esercizio della competenza attribuitale dall’art. 267 TFUE chiarisce e precisa, quando ve ne sia bisogno, il significato e la portata di detta norma, quale deve o avrebbe dovuto essere intesa e applicata dal momento della sua entrata in vigore: in altri termini, una sentenza pregiudiziale ha valore non costitutivo bensì puramente dichiarativo, con la conseguenza che i suoi effetti risalgono, in linea di principio, alla data di entrata in vigore della norma interpretata (da ult., sentenza 16 gennaio 2014, C- 429/12, cit., punto 30).

3. Deve escludersi che sulla questione in esame possa esplicare effetti diretti la nota pronuncia di questa Corte in tema di overruling (Cass., sez. un., n. 15144 del 2011, cui adde Cass., sez. un., n. 24413 del 2011 e n. 17402 del 2012).

La portata applicativa del principio ivi affermato è stata più volte chiarita dalla giurisprudenza successiva, che queste sezioni unite condividono, secondo la quale, affinchè un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinchè si possa parlare di prospective overruling, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti:

che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (Cass. nn. 28967 del 2011, 6801 e 13087 del 2012, 5962 e 20172 del 2013).

E’ sufficiente osservare, in linea generale, che nel caso di pronuncia che dichiari la contrarietà di una norma nazionale al diritto comunitario non si è in presenza di un “mutamento della giurisprudenza”; e, con riferimento alla questione in esame e con argomento ancor più decisivo, va rilevato che la sentenza della Corte di giustizia non solo non è intervenuta (in malam partem, cioè con effetti preclusivi dell’esercizio del diritto) su norme di carattere processuale, ma neanche sulle disposizioni, di natura sostanziale, che qui interessano, relative ai termini (di prescrizione o decadenza) per l’esercizio del diritto alla ripetizione dell’indebito tributario, bensì, con effetto ampliativo, su una norma tributaria che riduceva illegittimamente la portata di un beneficio fiscale.

4.1. Di ciò, come già detto, è consapevole lo stesso Collegio rimettente, il quale, tuttavia, rinviene nella ratio sottesa alla giurisprudenza in tema di overruling (e non solo), ed anche a recenti interventi legislativi (in particolare,all’art. 153 c.p.c., comma 2, in tema di rimessione in termini, introdotto dalla L. n. 69 del 2009), una sempre maggiore valorizzazione della tutela dell’affidamento incolpevole del cittadino nella certezza delle norme vigenti, come interpretate ed applicate: e ne trae l’auspicio che sia fatta salva dall’operatività del meccanismo decadenziale (il cui dies a quo andrebbe fatto coincidere con la declaratoria di illegittimità comunitaria) l’ipotesi della inerzia incolpevole del cittadino contribuente nella legittimità comunitaria della norma impositiva interna.

4.2. La tesi non può essere condivisa.

Deve ribadirsi che costituisce principio immanente in ogni Stato di diritto quello in virtù del quale qualsiasi situazione o rapporto giuridico diviene irretrattabile in presenza di determinati eventi, quali lo spirare di termini di prescrizione o di decadenza, l’intervento di una sentenza passata in giudicato, o altri motivi previsti dalla legge, e ciò a tutela del fondamentale e irrinunciabile principio, di preminente interesse costituzionale, della certezza delle situazioni giuridiche: si tratta della nota categoria dei c.d. rapporti esauriti, la cui definizione spetta solo al legislatore determinare, nel rispetto dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza.

Dalla detta finalità discende che non sono configurabili, contrariamente a quanto ritiene l’ordinanza di rimessione, profili di carattere sanzionatorio nei citati istituti (e in particolare nella decadenza).

Il limite dell’esaurimento del rapporto in ordine alla efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale è principio pacifico e non si ravvisano ragioni, sotto questo aspetto, come già detto, per distinguere dette pronunce dalle sentenze, aventi anch’esse efficacia dichiarativa, con le quali la Corte di giustizia afferma l’incompatibilità di una norma nazionale con il diritto comunitario.

La ratio della giurisprudenza sull’overruling, con il valore in essa attribuito all’affidamento incolpevole nel “diritto vivente”, non è trasferibile al caso in esame.

Qui non si è in presenza di un soggetto che, avendo esercitato il proprio diritto nel termine previsto dalla legge, come all’epoca costantemente interpretata, si ritrova ex post decaduto in ragione di un imprevedibile revirement giurisprudenziale che ha, in sostanza, abbreviato il termine, situazione per la quale appariva doveroso, in ossequio al valore superiore del giusto processo e quindi alla garanzia di effettività dei mezzi di azione e di difesa (come chiaramente esposto nella sentenza n. 15144 del 2011), apprestare una tutela che facesse salva la sua posizione, attraverso una sorta di autocorrezione del sistema per via interpretativa.

Nella fattispecie, vi è, invece, una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea che, con effetto retroattivo analogo a quello di una sentenza di illegittimità costituzionale, ha dichiarato in contrasto con una direttiva comunitaria self executing una norma nazionale di agevolazione fiscale, ampliandone la portata soggettiva.

La posizione del soggetto che, in vigenza della norma che lo escludeva dal beneficio, è rimasto inerte fino all’intervento della sentenza (o anche successivamente), così trovandosi in tutto o in parte decaduto dal diritto al rimborso, non è assimilabile, sotto il profilo dell’esigenza di tutela, a quella sopra esposta: pur prescindendo dal fatto che si verte in materia non processuale ed anche a voler ammettere la configurabilità di un affidamento incolpevole nella legittimità (nel caso, comunitaria) della norma vigente, la tutela di una tale situazione deve ritenersi recessiva rispetto al principio della certezza delle situazioni giuridiche (tanto più cogente in materia di entrate tributarie), che riceverebbe un grave vulnus, in ragione della sostanziale protrazione a tempo indeterminato dei rapporti tributari che ne deriverebbe.

Spetta, in definitiva, al solo legislatore, in casi come quello in esame (così come in quello del sopravvenire di una legge retroattiva), la valutazione discrezionale, nel rispetto dei principi costituzionali coinvolti, in ordine all’eventuale introduzione di norme che prevedano termini e modalità di “riapertura” di rapporti esauriti.

5. Alla stregua degli enunciati principi, il ricorso dell’Agenzia delle entrate va accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto (essendo pacifico che l’istanza di rimborso è stata presentata dal contribuente il 1 febbraio 2006), la causa va decisa nel merito, dichiarando non dovuto il rimborso per l’anno 2001.

6. In considerazione delle ragioni che hanno dato luogo all’ordinanza di rimessione al Primo Presidente, le spese dell’intero giudizio devono essere compensate.


P.Q.M.


La Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, dichiara non dovuto il rimborso per l’anno 2001. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2014