201903.29
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Cass., sez. trib., 29 marzo 2019 (ord.), n. 8854 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8553/2013 R.G. proposto da:

Nike Trading Italy s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Enrico Allegro e dall’Avv. Paolo Mereu, elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo in Roma, Via G. Belli, n. 27, come da procura in calce al ricorso;

-ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, legalmente rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliata ex lege.

-controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, n. 101/05/2012, depositata il 27 settembre 2012;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 marzo 2019 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

Svolgimento del processo

  1. L’Agenzia delle entrate, utilizzando gli studi di settore, ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, accertava (con atto notificato il 18-12-2009), nei confronti della Nike Trading Italy s.r.l., esercente attività di vendita di ricambi ed accessori per telefonia, uno scostamento tra l’ammontare dei ricavi dichiarati nel modello Unico 2005, per l’anno 2004, e quello derivante dalla applicazione degli studi di settore.
  2. La Commissione tributaria provinciale rigettava il ricorso, con sentenza che veniva confermata dalla Commissione tributaria regionale, la quale rilevava che la contribuente era stata convocata in sede di contraddittorio, che le “eccezioni” poste dall’appellante non erano sufficienti a modificare i risultati degli studi di settore, che la contribuente non aveva assolto all’onere della prova, che solo in sede di appello, la società aveva contestato che non vi era “grave incongruenza” tra i ricavi dichiarati e quelli accertati in base agli studi di settore.
  3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.
  4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Motivi della decisione

  1. Anzitutto, deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Infatti, a seguito del trasferimento alle agenzie fiscali, da parte del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, comma 1, di tutti i “rapporti giuridici”, i “poteri” e le “competenze” facenti capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze, a partire dal primo gennaio 2001 (giorno di inizio di operatività delle Agenzie fiscali in forza del D.M. 28 dicembre 2000, art. 1), unico soggetto passivamente legittimato è l’Agenzia delle Entrate, sicchè è inammissibile il ricorso per cassazione promosso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Cass., 28 gennaio 2015, n. 1550), che, tra l’altro, non è stato parte nei giudizi di merito.

1.1. Con un unico motivo di impugnazione la Nike Trading Italy s.r.l. deduce “Nullità della sentenza per violazione, falsa ed erronea applicazione della legge, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a: violazione e falsa applicazione della L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3”, in quanto la Commissione regionale non ha fornito risposta sui motivi di appello, non avendo tenuto conto che i modelli di studi di settore applicati (clusters) erano inapplicabili alle caratteristiche specifiche dell’attività svolta, specie in relazione alla percentuale di vendita verso i dettaglianti (del 70%), mentre negli studi di settore tale tipologia di vendita si attesta al 30%. Inoltre, la ricorrente ritiene insussistenti le gravi incongruenze, in quanto il volume di affari dichiarato, ai fini Iva, era di Euro 3.789.335,00, mentre il volume di affari accertato in base agli studi di settore era di Euro 3.966.760,00, con una differenza del 4,68%. Anche la differenza degli importi ai fini Ires era dell’1,90% nel rapporto tra ricavi dichiarati (Euro 3.741.962,00) e ricavo minimo ammissibile (Euro 3.812.877,00) e del 4,74% nella differenza tra ricavi dichiarati e ricavo puntuale (Euro 3.919.387,00). Tale questione costituisce per la ricorrente una eccezione in senso lato, sicchè può essere anche rilevata d’ufficio dal Giudice e non è inibita in appello dalla preclusione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57.

1.2. Tale motivo è fondato.

1.3. Va, preliminarmente, affrontata la questione in ordine alla natura della eccezione sollevata per la prima volta dalla società in sede di appello, in ordine alla insussistenza della “grave incongruenza” tra i ricavi dichiarati e quelli accertati in base agli studi di settore.

Deve, quindi, chiarirsi se tale doglianza sia una eccezione in senso stretto (proprio) oppure una eccezione in senso lato (o eccezione in senso improprio o mera difesa), in quanto nel primo caso la stessa sarebbe inammissibile perchè la contribuente avrebbe dovuto farla valere come specifica censura nel ricorso avverso il provvedimento di avviso di accertamento.

Per questa Corte, nel processo tributario di appello, la nuova difesa del contribuente, ove non sia riconducibile all’originaria “causa petendi” e si fondi su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado, che ampliano l’indagine giudiziaria ed allargano la materia del contendere, non integra un’eccezione, ma si traduce in un motivo aggiunto e, dunque, in una nuova domanda, vietata ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 24 e 57 (Cass., 3 luglio 2015, n. 13742).

1.4. Va, però, osservato che per individuare l’oggetto del processo tributario ci si deve soffermare sul combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. d) ed e) e artt. 19 e 24, tenendo conto del fatto che il giudizio tributario è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso atto indicati (Cass., 21 novembre 2018, n. 30039, ove si evidenzia che l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione quando pone il contribuente nella condizione di conoscere esattamente la pretesa impositiva, individuata nel petitum e nella causa petendi), ed ha un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo (Cass., Sez. Un. 27 gennaio 2016, n. 1518; Cass., 9754/2003; Cass. Sez. Un., 18 gennaio 2007, n. 1052). L’oggetto del giudizio si risolve, dunque, nello specifico nesso tra atto autoritativo di imposizione e contestazione del contribuente, che consente di identificare concretamente nel processo causa petendi e petitum della domanda proposta.

Il contribuente, quindi, pur essendo convenuto in senso sostanziale è, però, attore in senso formale, mentre l’amministrazione assume la veste di attore in senso sostanziale e la sua pretesa è quella risultante dall’atto impugnato (Cass., 28 giugno 2012, n. 10806).

1.5. Va, ancora, precisato che per questa Corte, a sezioni unite (Cass., Sez.Un., 27 gennaio 2016, n. 1518, in tema di rilievo d’ufficio della cessazione della materia del contendere per effetto de condono), il principio della generale rilevabilità d’ufficio delle eccezioni ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (“il giudice…non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti”), trova applicazione anche nel processo tributario ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2 (“non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio”).

Le eccezioni, quindi, possono essere sempre rilevate d’ufficio dal giudice (Cass., Sez. Un., 4 settembre 2012, n. 14828 e Sez. Un., 22 marzo 2017, n. 7294, sul rilievo d’ufficio della nullità del contratto anche in caso di richiesta di risoluzione del contratto, che presuppone l’esistenza di un contratto valido; Cass., Sez. Un., 26242/2014 sul rilievo d’ufficio di una causa di nullità del contratto diversa da quella allegata dall’attore, purchè emergente dagli atti di causa; anche Cass., sez. L, 1 agosto 2018, n. 20388; Cass., sez 2, 30 agosto 2018, n. 21418, sul rilievo d’ufficio della nullità del contratto in tutte le ipotesi in cui il giudice risulti investito di una domanda di risoluzione, annullamento, rescissione del contratto), tranne le ipotesi in cui la legge espressamente le riservi alla parte ed i casi in cui il fatto integratore della eccezione sia elemento costitutivo dell’esercizio di un’azione potestativa della parte (azioni di risoluzione, rescissione ed annullamento).

La preclusione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, si riferisce, allora, solo alle eccezioni in senso stretto (o proprio), rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se ne manchi l’allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo (Cass., 6918/2013). Sono, quindi, le eccezioni in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale (Cass., 24902 del 2013; Cass., 26 settembre 2018, n. 22859, in relazione ai vizi dell’atto di riscossione che costituiscono eccezioni in senso stretto).

In particolare, costituisce principio consolidato quello per cui il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, per difetto di elementi formali essenziali, incompetenza o violazione di norme sul procedimento (Cass., 30 settembre 2015, n. 19414), mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cass., sez. 5, 29 dicembre 2017, n. 31224).

Il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato, quindi, non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”, poichè il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe sviato ove pure le questioni rilevabili d’ufficio fossero soggette ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Cass., 31 ottobre 2018, n. 27998).

1.6. Pertanto, nella specie, poichè la sussistenza della “grave incongruenza” è proprio il presupposto per l’emissione dell’avviso di accertamento fondato sugli studi di settore ai sensi del D.L. n. 331 del 1995, art. 62 sexies, è consentito alla contribuente allegare per la prima volta in sede di appello, l’inesistenza del fatto costitutivo della pretesa dell’amministrazione, sollevando una eccezione in senso improprio o mera difesa, tesa unicamente a contestare la sussistenza del fatto costitutivo della obbligazione tributaria.

  1. La prima questione di merito da trattare, concerne l’applicabilità al processo in esame della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 23, che ha modificato la L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, a decorrere dall’1-1-2007.

2.1. Per questa Corte, infatti, con orientamento univoco, l’accertamento induttivo fondato sul mero divario, a prescindere dalla sua gravità, tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dagli studi di settore è legittimo solo a decorrere dal 1 gennaio 2007, in base alla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 23, che non ha portata retroattiva, trattandosi di norma innovativa e non interpretativa, in quanto, con l’aggiunta di un inciso, ha soppresso il riferimento alle “gravi incongruenze”, prima operato tramite il rinvio recettizio al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, comma 3, convertito, con modificazioni, nella L. 29 ottobre 1993, n. 427 (Cass., 17 dicembre 2014, n. 26481; Cass., 31 ottobre 2018, n. 27847).

Pertanto, la L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 1, come modificato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 23, lett. b., con cui è stato soppresso ai fini dell’accertamento basato sugli studi di settore l’originario riferimento alle “gravi incongruenza” di cui al testo originale del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, si applica solo agli avvisi di accertamento emessi in data successiva all’entrata in vigore della L. n. 296 del 2006, quindi dall’1-1-2007 (Cass., 26481/2014, cit; Cass., 30760/2017; Cass., 24621/2017).

Si è, ancora più chiaramente affermato che, ai fini della applicabilità della novella del 2006 (L. n. 296 del 2006, in vigore dall’1-1-2007), deve tenersi conto della data di notifica dell’avviso di accertamento e non dell’anno di imposta, eventualmente anteriore all’1-1-2007, in virtù della generale regola tempus regit actum, in assenza di una specifica norma transitoria di contenuto diverso (Cass., 17807/20179).

Poichè, nella specie, l’avviso è stato notificato il 18-12-2009, anche se riferito all’anno 2004, deve applicarsi la L. n. 146 del 1998, art. 10, come modificato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 23.

  1. Tuttavia, l’orientamento per cui il presupposto delle “gravi incongruenze” non sarebbe più necessario per gli avvisi di accertamento notificati dopo l’1-1-2007, anche se relativi ad anni di imposta anteriori a tale data, deve essere opportunamente riconsiderato alla stregua della recente pronuncia della Corte di giustizia (Corte giustizia UE, 21 novembre 2018, n. 648).

3.1. Infatti, in base alla giurisprudenza Eurounitaria (Corte Giustizia UE, 648/2018, cit.) la direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonchè i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che consenta all’Amministrazione finanziaria, a fronte di “gravi divergenze” tra i redditi dichiarati ed i redditi stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere ad un metodo induttivo, basato sugli studi di settore stessi, al fine di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale con imposizione di una maggiorazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonchè del diritto di difesa, di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’imposta ai sensi delle disposizioni contenute nel titolo X della direttiva 2006/112, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare (la Corte si è così pronunciata nell’ambito di una controversia insorta tra una contribuente italiana e l’Agenzia delle Entrate in merito ad un avviso d’accertamento Iva).

Va evidenziato che tale pronuncia, seppure riferita espressamente all’Iva, detta un principio di diritto applicabile anche alle imposte dirette. Infatti, in motivazione la Corte di giustizia, dopo aver fatto riferimento al principio di “neutralità fiscale”, proprio di tale specifica disciplina, si sofferma su quello di proporzionalità, sottolineando che “tale principio non osta a che una normativa nazionale prevede che solamente a fronte di rilevanti divergenze tra l’importo del volume di affari dichiarato dal contribuente e quello determinato in base al metodo induttivo, sulla scorta del volume di affari realizzato da soggetti esercenti la stessa attività del contribuente, possa avviarsi il procedimento di verifica fiscale”.

Il principio di “proporzionalità”, però, non è limitato all’iva, ma riguarda anche le imposte dirette, dovendosi considerare la prioritaria tutela del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. (Cass., 5327/2019, proprio in tema di studi di settore, con uno scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore dell’8%, con il rigetto del ricorso per cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate).

3.2. Del resto, anche nella normativa nazionale sugli studi di settore il requisito delle “gravi incongruenze” è tuttora richiesto espressamente.

Il D.L. n. 331 del 1993, art. 62, comma 3 sexies, tuttora vigente, contiene ancora il riferimento alle “gravi incongruenze”, menzionando espressamente, tra l’altro, non solo la disciplina sull’accertamento delle imposte dirette di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, ma anche quella relativa all’Iva, di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54.

Infatti, si prevede in tale disposizione (“attività di accertamento nei riguardi dei contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili”) che “Gli accertamenti di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi del presente decreto, art. 62 bis”.

La L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 1 (“modalità di utilizzazione degli studi di settore in sede di accertamento”), dopo le modifiche di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 23, in vigore dall’1-1-2007, ai sensi della stessa legge, art. 1, comma 24, continua a fare riferimento al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, e quindi anche alle “gravi incongruenze” (“Gli accertamenti basati sugli studi di settore, di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies…., sono effettuati nei confronti dei contribuenti con le modalità di cui al presente articolo, qualora l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulta inferiore all’ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi”).

Inoltre, la L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4 bis, ribadisce l’applicabilità della disciplina di accertamento sia alle imposte dirette che all’iva, mediante il richiamo sia al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), sia al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 (“Le rettifiche sulla base di presunzioni semplici di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), secondo periodo, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, u.p., non possono essere effettuate nei confronti dei contribuenti che dichiarino, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello della congruità, ai fini dell’applicazione degli studi di settore di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 bis…tenuto altresì conto dei valori di coerenza risultanti dagli specifici indicatori, di cui alla presente legge, art. 10 bis, comma 2, qualora l’ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50.000 Euro, sia pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o compensi dichiarati”).

Non v’è stata, dunque, una abrogazione implicita del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, da parte della L. n. 296 del 2006 (art. 23 comma 23), che ha modificato la L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 1.

3.3. In precedenza questa Corte ha ritenuto come scostamenti solo lievi, e quindi inidonei alla rettifica dei redditi quelli del 4,23% (Cass., 14 luglio 2017, n. 17486), del 7% (Cass., 26 settembre 2014, n. 20414), del 10% (Cass., 2637/2019), del 21% (Cass., 10 novembre 2015, n. 22946), con la precisazione che la nozione di “grave incongruenza” non può essere ricavata avendo riguardo in via assoluta a precise soglie quantitative fisse di scostamento, essendo, invece, la nozione di indici di natura relativa da adattare a plurimi fattori propri della singola situazione economica, del periodo di riferimento ed in generale della stessa storia commerciale del contribuente destinatario dell’accertamento, oltre che del mercato e del settore di operatività.

Pertanto, al fine di individuare divergenze significative tra i ricavi dichiarato e quelli risultanti dagli studi di settore, si può anche fare riferimento al D.P.R. 16 settembre 1996, n. 570, art. 2, comma 1, lett. a (“regolamento per la determinazione dei criteri in base ai quali la contabilità ordinaria è considerata inattendibile, relativamente agli esercenti attività di impresa, arti e professioni”), il quale dispone: “ai medesimi fini indicati nel comma 1, le contraddizioni tra le scritture obbligatorie e i dati e gli elementi direttamente rilevati si considerano gravi e rendono altresì inattendibile la contabilità ordinaria degli esercenti attività di impresa, quando: a) i valori rilevati a seguito di ispezioni o verifiche, anche parziali…abbiano uno scostamento, rispetto a quelli indicati in contabilità, superiore al 10 per cento del valore complessivo delle voci interessate, a condizione che tale scostamento non sia riconducibile a errata applicazione dei criteri di valutazione ovvero di imputazione temporale”. Analogamente al D.P.R. n. 570 del 1996, art. 1, comma 2, lett. b), si prevede che “tali contraddizioni” si considerano “gravi” quando “non risultano indicati in alcuna delle scritture contabili o, in mancanza dell’obbligo di indicazione nelle stesse, in altra documentazione attendibile, uno o più beni strumentali…il cui valore complessivo sia superiore al 10 per cento di quello di tutti i beni strumentali utilizzati…”.

3.3. Nella specie, lo scostamento tra l’importo dei ricavi dichiarati dalla società e quelli calcolati in base agli studi di settore è di appena il 4,68% ai fini Iva e dell’1,90% ai fini Ires ed Irap, tenendo conto del ricavo minimo ammissibile, e del 4,74% tenendo conto del ricavo “puntuale”.

Tale scostamento risulta molto modesto, soprattutto in relazione all’ammontare dei ricavi dichiarati pari ad Euro 3.789.335,00 a fronte della somma di Euro 3.966.760,00 accertati in base agli studi di settore, sicchè non si è verificata una divergenza significativa tale da giustificare l’emissione dell’avviso di accertamento.

  1. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento del ricorso originario della contribuente.
  2. Le spese dell’intero giudizio devono essere interamente compensate tra le parti per il rilievo assunto dalla recente giurisprudenza unionale.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze.

Accoglie il ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle entrate; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente.

Compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 19 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2019