201005.20
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Cass., sez. trib., 25 maggio 2009, n. 12042 (testo)

Fatto e diritto

  1. – Dati del processo.

1.1. – Con atto notificato in date 1/2.10.2002 a Bakemark Italia s.r.l., al signor Brunetto Tito Franco, a Van Den Bergh Italia S.p.A. (oggi Unilever Italia s.r.l.) ed al signor Daniele Bondì, l’ufficio Milano 3 dell’agenzia delle entrate chiese il pagamento della complessiva somma di Lire 7.585.442.613, a titolo di maggiore imposta di registro, interessi, diritti e sanzioni, relativamente alla vendita di un ramo d’azienda, da Van Den Bergh a Bakemark, intervenuta il 29.9.2000, avendo rettificato in aumento il valore del bene per effetto del disconoscimento di alcune passività, che erano ritenute non debitamente documentate, per Lire 1.028.798.474, o poste in essere a scopo elusivo, per Lire 100.000.000.000.

1.2. – La commissione tributaria provinciale di Milano, con quattro sentenze (nn. 230, 231, 232 e 233 del 2003), accolse i ricorsi distintamente presentati dai nominati contribuenti – per asserita infondatezza della pretesa fiscale e, in subordine, per l’eliminazione delle sanzioni – avendo giudicato illegittimi gli avvisi di rettifica e liquidazione impugnati giacché le passività di ordine commerciale e finanziario influenti sulla base imponibile (valore del ramo d’azienda trasferito) apparivano giustificate quanto alla loro origine e risultavano incontestabilmente dalle scritture contabili sia della ditta cedente sia, posteriormente all’atto, da quelle della cessionaria.

1.3. – Con la sentenza citata in epigrafe, la commissione tributaria regionale della Lombardia accolse parzialmente, previa riunione, gli appelli proposti dall’ufficio, ritenendo giustificata l’esistenza fra le passività dei debiti di natura commerciale, pari a Lire 1.028.798.474, “in quanto il loro inserimento deriva da una libera contrattazione delle parti sulla base della documentazione fornita dal Contribuente”; ma non rispondente a valide ragioni economiche, e quindi da escludere, con relativo aumento della base imponibile, il debito di natura finanziaria esposto in cento miliardi di Lire, sussistendo presunzioni gravi, precise e concordanti, ricavate dall’intreccio delle operazioni documentate, che l’esposizione fosse stata determinata “per mezzo di una procedura che pur non presentando rilievi opinabili sotto il profilo del diritto ordinario, non rispetta l’ordinamento tributario italiano in quanto l’inserimento di dette passività finanziarie nel prospetto di cessione del ramo d’azienda deriva in definitiva da un preordinato intento elusivo attuato al fine di sottrarre imponibilità fiscale”.

1.4. – Tutti i nominati contribuenti ricorrono, con quattro motivi illustrati da successiva memoria, per chiedere la cassazione di tale sentenza, con ogni provvedimento conseguente, anche in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità. L’agenzia intimata resiste mediante deposito di controricorso.

  1. – Motivi del ricorso.

2.1. – I contribuenti espongono i seguenti motivi di ricorso.

2.1.1. – Nullità della sentenza impugnata (articolo 360, 1° co., n. 4, c.p.c.) per inammissibilità degli appelli, proposti dall’ufficio senza l’autorizzazione prescritta dall’articolo 52, co. 2, D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546.

2.1.2. – In relazione all’articolo 360, 1° co., nn. 3 e 5, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 20, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; 37 bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; omessa o insufficiente motivazione, in quanto, pur avendo premesso che “nel sistema tributario attualmente vigente non esiste uno strumento normativo idoneo a contrastare tutti i comportamenti elusivi”, la commissione regionale fa tuttavia riferimento, anche per via analogica, alle disposizioni citate, assumendo trattarsi di “norme generali che vanno comunque tenute presenti quale canone di interpretazione delle norme tributarie”; e che invece, secondo i ricorrenti, non sarebbero applicabili alla fattispecie in esame, non avendo peraltro il giudicante a quo addotto validi argomenti a sostegno della ritenuta sussistenza dei presupposti di fatto giustificanti l’applicazione delle suddette norme anti-elusive.

2.1.3. – In relazione all’articolo 360, 1° co., nn. 3 e 5, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’articolo 51, 4° co., D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; omessa motivazione, con riferimento alla mancata valutazione degli elementi probatori forniti da essi ricorrenti circa un punto determinante ai fini della decisione, “consistente nell’accertamento dell’esistenza di una connessione funzionale tra il ramo d’azienda oggetto di acquisizione e le passività finanziarie in tal sede accollate da Bakemark”.

2.1.4. – In relazione all’articolo 360, 1° co., nn. 3 e 5, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 8, D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546; 10, co. 3, legge 27 luglio 2000, n. 212; 6, co. 2, D.L.vo 18 dicembre 1997, n. 472; omessa motivazione, in ordine alla chiesta disapplicazione delle sanzioni tributarie, essendo asseritamente giustificata la violazione contestata “da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria a cui si riferisce”.

  1. – Decisione.

3.1. – I primi tre motivi di ricorso debbono essere rigettati; il quarto motivo deve essere accolto, per le ragioni di seguito espresse. Per conseguenza, l’impugnata sentenza della commissione tributaria regionale deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito, mediante dichiarazione di non spettanza delle sanzioni applicate. Le spese dell’intero giudizio sono compensate fra le parti, per giusti motivi ravvisati nelle difficoltà interpretative che hanno dato luogo a giudizi contrastanti.

  1. – Motivi della decisione.

4.1. – Il primo motivo di ricorso (par. 2.1.1) è infondato. Il collegio condivide, infatti, quanto affermato da precedente giurisprudenza (S.U. n. 604/2005), con argomenti condivisibili, cui nulla oppone la difesa dei ricorrenti: che cioè l’articolo 52, co. 2, D.L.vo n. 546/1992 non è più operativo a seguito dell’istituzione delle agenzie fiscali, entrate in funzione il 1°.1.2001; trattandosi, nella specie, di appello depositato il 31.12.2004 dall’ufficio Milano 3 dell’agenzia delle entrate.

4.2. – Il secondo ed il terzo motivo di censura (par. 2.1.2 e 2.1.3), da trattare congiuntamente per la loro stretta connessione, sono pure infondati.

4.2.1. – La sentenza impugnata – con riferimento all’imponibile dichiarato dai contribuenti, che avevano calcolato il valore complessivo del ramo d’azienda trasferito includendo, fra l’altro e per quanto ancora interessa, una passività di origine finanziaria pari a cento miliardi di Lire – afferma che tale inclusione corrisponde ad “un preordinato intento elusivo attuato al fine di sottrarre imponibilità fiscale”; la espunge, pertanto, dal calcolo della base imponibile.

4.2.2. – A tale conclusione il giudicante a quo perviene con motivazione esaustiva, coerente e conforme al diritto, da correggere unicamente sul punto – non essenziale per la decisione – in cui egli afferma “che il nostro ordinamento tributario non prevede rimedi normativi diretti a neutralizzare il comportamento del Contribuente che sfrutta le imperfezioni e/o carenze ed i formalismi di legge”; e, conseguentemente alla ritenuta assenza di una norma espressa ad hoc (anti-elusione), ricava la disciplina del fenomeno sia dall’articolo 20 della legge di registro (D.P.R. n. 131/1986) sia, più in generale, dall’articolo 37 bis, D.P.R. n. 600/1973, inserito dall’articolo 7, co. 1, D.L.vo 8 ottobre 1997, n. 358.

4.2.3. – In realtà, le S.U. di questa suprema corte hanno recentemente confermato (sentenze nn. 30055, 30057/2008) l’indirizzo già emerso nella giurisprudenza della sezione tributaria (seguito poi anche da Cass. nn. 25374/2008, 10257/2008), in merito al riconoscimento dell’esistenza, nell’ordinamento, di un generale principio antielusivo, la cui fonte, in tema di tributi “armonizzati” è reperibile nel diritto e nella giurisprudenza comunitari; per gli altri tributi – quali, ad es., quelli diretti -, ed in generale, lo stesso principio è reperibile nelle norme costituzionali che sanciscono il criterio di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (articolo 53 Cost., 1° e 2° co.), costituendo il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere: sicché deve ritenersi non lecito al contribuente trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale.

4.2.4. – La sopravvenienza nell’ordinamento di specifiche norme antielusive, come il citato articolo 37 bis, non è quindi fondativa di per sé – secondo le suddette pronunzie, che il collegio pienamente condivide – del principio generale anti-elusivo, giacché esse rappresentano, anzi, mero sintomo dell’esistenza di una regola generale (Cass. n. 8772/2008); regola che, peraltro, non può ritenersi contrastante con la riserva di legge in materia tributaria, derivante dall’articolo 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non previsti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’obbligazione tributaria.

4.2.5. – Che, dunque, ad una disposizione dichiaratamente anti-elusiva, come quella dell’articolo 37 bis, pur inserita nella normativa specifica regolante l’accertamento delle imposte sui redditi, debba attribuirsi significato sintomatico dell’immanenza di un principio generale, valido in tutti i settori della materia fiscale, non può essere posto ulteriormente in dubbio. Soprattutto, se ben si riconosce in esso il sostrato del criterio, ancor più generale, consacrato nell’articolo 10, co. 1, della legge n. 212/2000, che vuole improntati a collaborazione e buona fede i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria.

4.2.6. – A buon diritto, pertanto, la commissione regionale trae dal citato articolo 37 bis, e dalle successive modificazioni del medesimo, introdotte dall’articolo 2, co. 1, lett. e), D.L.vo 12 dicembre 2003 n. 344, le indicazioni valide analogicamente per l’identificazione dell’eventuale abuso di diritto, qualificabile, secondo condivisa giurisprudenza, come “quell’operazione economica che, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico, ponga quale elemento predominante ed assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali” (Cass. n. 1465/2009; analogamente, Cass. nn. 27646/2008, 25374/2008, 12237/2008 e numerose altre).

4.2.7. – Deriva da tali premesse, innanzitutto, oltre alla sostanziale infondatezza del secondo motivo di ricorso, un primo profilo d’inammissibilità del medesimo, in quanto essenzialmente diretto a contestare l’applicabilità al caso concreto di norme – articolo 20, D.P.R. n. 131/1986, e articolo 37 bis, D.P.R. n. 600/1973 – chiaramente utilizzate dal giudicante a quo non come supporto autosufficiente della ratio decidendi, bensì come utili riferimenti sintomatici (“vanno comunque tenute presenti”) del principio anti-elusivo reperibile nell’ordinamento; apparendo vana la censura dei sintomi, se non si giunge a sostenere, sul piano teorico-giuridico, che l’ordinamento sarebbe insensibile all’elusione fiscale ed all’abuso di diritto: concetto, questo, cui fa ricorso anche l’agenzia resistente, laddove afferma che “la Commissione regionale non ha affatto deciso la controversia facendo applicazione delle norme in questione, ma ha soltanto citato le stesse al solo fine di esplicitare un criterio di massima orientativo della assumenda decisione”; frase capziosamente interpretata, nella memoria dei ricorrenti, come rinunzia di controparte al tema dell’elusione fiscale, fulcro della decisione impugnata.

4.2.8. – Un discorso a parte merita, ovviamente, la questione relativa alla prova dell’esistenza di abuso di diritto nella transazione di cui si discute. Qui si deve, innanzitutto, escludere che l’iscrizione in contabilità delle passività trasferite in occasione della cessione d’azienda o di ramo d’azienda le renda, ipso jure (ex articolo 51, 4° co., D.P.R. n. 131/1986) deducibili dalla base imponibile, con la sola eccezione che l’amministrazione ne provi il difetto totale o parziale d’inerenza. In realtà, per quanto sopra si è affermato, sussiste un’altra possibile eccezione, basata sulla prova che esse hanno, soltanto o essenzialmente, “lo scopo di abbassare fittiziamente il valore dell’imponibile” (secondo l’espressione della difesa erariale).

4.2.9. – È autoevidente, però, che “La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni in quel modo strutturate” (Cass. n. 1465/2009, già cit.; analogamente, Cass. nn. 25374/2008, 10257/2008).

Soprattutto, la prova del ravvisato intento elusivo deve essere fornita dall’amministrazione fiscale, e deve essere analizzata dal giudice tributario, con precisione e rigore; tanto più quando si tratti di trasferimenti di passività (o di ricchezze) fra società partecipi dello stesso gruppo e, come nel caso in esame, della scelta operata dalla capogruppo – a monte della transazione di cui ci si occupa – “di attribuire ad una propria organizzazione stabile in Italia una quota di costi… da essa sopportati, anche se a quei costi non corrispondano ricavi realizzati dall’organizzazione stabile in questione” (Cass. n. 10062/2000, seguita da Cass. n. 1133/2001).

4.2.10. – Con riferimento specifico al caso concreto, si deve ammettere che la commissione regionale ha tratto dallo “intreccio d’operazioni aventi per oggetto i finanziamenti” in parola, analiticamente e coerentemente esaminato attraverso la documentazione disponibile, il convincimento di trovarsi in presenza di “presunzioni gravi, precise e concordanti” circa la mancanza di valide ragioni economiche per l’inserimento in contabilità e la successiva cessione di dette passività finanziarie; e circa il fatto che tale operazione corrispondeva, invece, ad un “preordinato intento elusivo attuato al fine di sottrarre imponibilità fiscale”.

Si tratta dunque di un giudizio di fatto, conseguente all’indagine documentale ed alla valutazione complessiva delle circostanze di causa, sul quale il giudice di legittimità – in mancanza di puntuali contestazioni dell’iter logico della motivazione o di prove evidenti dell’esistenza di ragioni economiche incompatibili con la finalità elusiva, relative alle modalità del riparto infra-gruppo dell’onere da finanziamento – non ha potere di sindacato.

4.3. – Il quarto motivo di censura (par. 2.1.4) è fondato.

In effetti, la sentenza impugnata non reca alcuna motivazione per il rigetto (implicito) della domanda di disapplicazione delle sanzioni; domanda da ritenere fondata, in presenza di obiettive condizioni d’incertezza sulla portata della norma sanzionatoria, nel cui ambito di applicazione è riconducibile la violazione di un principio di ordine generale, come l’abuso di diritto.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta i primi tre motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara non dovute le sanzioni applicate. Compensa integralmente fra le parti le spese dell’intero giudizio.