201405.23
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Cass., sez. III pen., 19 maggio 2014, n. 20504 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente –

Dott. SAVINO Mariapia G. – Consigliere –

Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.F., nato in (OMISSIS);

U.N., nata in (OMISSIS);

B.E.D., nato in (OMISSIS);

avverso la ordinanza del 05/07/2013 del Tribunale della libertà di Sondrio;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio dell’impugnata ordinanza con trasmissione degli atti al P.M. competente;

uditi per gli imputati l’avv. Francesca Pedrazzi e l’avv. Carmine Di Renzo che hanno concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.


Svolgimento del processo


1. Il Tribunale della libertà di Sondrio, con ordinanza emessa in data 5 luglio 2013, ha confermato il decreto del 18 giugno 2013 con il quale il Gip presso il medesimo Tribunale disponeva nei confronti di C.F., U.N. ed B.E.D. il sequestro preventivo dei beni nella disponibilità degli indagati per un valore corrispondente al profitto del reato, pari all’importo di Euro 1.370.986,00.

Agli indagati si rimprovera (capi A, B, e C) di aver commesso il reato di infedele dichiarazione (di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4), in quanto, in concorso tra loro, U.N., in qualità di legale rappresentante della “IN.COL s.r.l.” (società operante nella compravendita immobiliare), C.F. ed B.E.D. in veste di amministratori di fatto della suddetta società, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicavano nella dichiarazione annuale, presentata dalla “IN.COL s.r.l.” per i periodi di imposta 2008, 2010 e 2011, elementi attivi per un ammontare, specificamente determinato nei rispettivi capi dell’imputazione cautelare, inferiore rispetto a quello realmente percepito. Con tali infedeli dichiarazioni la società, secondo l’accusa, evadeva l’IRES e l’IVA (per tale ultima imposta limitatamente agli anni 2008 e 2010) non dichiarando elementi attivi superiori alla soglia di legge ed i fatti commettendo in (OMISSIS).

Nel confermare il decreto di sequestro preventivo e nel rigettare le eccezioni processuali, il Tribunale ha osservato, dopo avere dato atto di aver acquisito d’ufficio i decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche, come il fumus delicti fosse ampiamente desumibile dalle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da parte di numerosi acquirenti degli immobili;

dall’intercettazione di conversazioni telefoniche;

dall’individuazione, sulla scorta delle predette intercettazioni, dei prezzi di vendita; dall’individuazione dei corrispettivi non dichiarati.

Da tutto ciò sarebbe risultata una sistematica sottofatturazione delle vendite degli immobili, con percezione “in nero” delle differenze non indicate tra i componenti positivi del reddito della società per gli anni contestati e con conseguente evasione dell’IRES e dell’IVA. Quanto al periculum in mora, il Collegio cautelare ha ritenuto di non dover procedere ad alcuna valutazione circa la sua sussistenza, essendo previsto, nel caso di specie, il sequestro per equivalente per un ammontare pari al profitto del reato e coincidente con l’imposta evasa.

2. Per la cassazione dell’ordinanza impugnata ricorrono, a mezzo del rispettivi difensori, C.F., U.N. ed B. E.D..

2.1. C.F. affida il gravame a due motivi.

Con il primo, lamenta violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 2, in relazione al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, e violazione dell’art. 125 c.p.p., e art. 111 Cost., in relazione al rigetto dell’eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Sondrio, avendo la società domicilio fiscale in Milano e dovendo perciò essere individuato in tale luogo il giudice territorialmente competente.

Con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 125 c.p.p., e dell’art. 111 Cost., commi 6 e 7, in relazione alla mancanza di motivazione circa la richiesta di declaratoria di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche per omessa trasmissione dei decreti autorizzativi; in ogni caso, per omessa acquisizione di essi nel contraddittorio delle parti ed infine per essere state le intercettazioni disposte con riferimento a reati diversi da quelli per i quali si procede.

2.2. U.N. e B.E.D., con separati ricorsi, affidano il gravame a quattro motivi con i quali denunciano violazione della legge penale, deducendo:

1) l’incompetenza territoriale del Tribunale di Sondrio avendo la società domicilio fiscale in Milano e tale essendo il luogo di consumazione dei contestati reati fiscali sicchè la competenza per territorio, ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, doveva essere radicata nel circondario del Tribunale di Milano;

2) l’inutilizzabilità delle intercettazioni per omesso deposito dei decreti autorizzativi delle intercettazioni stesse;

3) l’illegittimità del sequestro essendo stati sottoposti a vincolo anche beni non appartenenti agli indagati;

4) violazione del principio di proporzionalità avendo il sequestro colpito beni mobili ed immobili per un valore pari al doppio di quello concernente il profitto della contestata evasione.


Motivi della decisione


1. I ricorsi non sono fondati.

2. Per ragioni di ordine logico, va esaminato il secondo motivo di gravame che è comune a tutti i ricorsi.

Con esso i ricorrenti sollevano due questioni dolendosi, da un lato, dell’omessa motivazione sulla sollevata eccezione dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per omessa trasmissione dei decreti autorizzativi (in mancanza, secondo il loro assunto, dell’acquisizione, peraltro pure richiesta, di essi) e sostengono, dall’altro, l’inutilizzabilità di detti risultati per essere state le intercettazioni disposte per reati diversi da quelli per i quali è stata adottata la misura cautelare reale.

Quanto al primo profilo, le ragioni della doglianza sono superate dal fatto che il Tribunale, dandone atto nel preambolo dell’ordinanza impugnata, ha acquisito d’ufficio i decreti de quibus adempiendo, con ciò, all’obbligo della motivazione, atteso che la censura era relativa all’omessa trasmissione dei decreti.

Va ricordato che, in tema di riesame cautelare reale, l’autorità giudiziaria procedente, a differenza del procedimento di riesame personale (art. 309 c.p.p., comma 5), non ha l’obbligo di trasmettere al tribunale tutti gli atti posti a fondamento della richiesta cautelare, ma esclusivamente quelli “su cui si fonda il provvedimento oggetto del riesame” (art. 324 c.p.p., comma 3), con la conseguenza che solo con riferimento a detti atti – la cui trasmissione sia stata, per ipotesi, omessa a seguito della proposizione dell’istanza di riesame – è onere del Tribunale, su richiesta della parte interessata o d’ufficio, procedere alla relativa acquisizione, anche frazionata, decorrendo il termine perentorio per la pronuncia dalla completa trasmissione di essi e senza che ciò determini la caducazione, per inefficacia, del titolo cautelare.

Le Sezioni Unite Ivanov e Cavalli (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239698 e Sez. U, n. 26268 del 28/03/2013, Cavalli, Rv.

255582) hanno chiarito e ribadito i suesposti principi sicchè, acquisiti i decreti, non è più sostenibile, sotto tale specifico profilo, alcuna eccezione di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per omessa trasmissione degli atti.

Par altro verso, l’obbligo di motivazione è stato pienamente assolto avendo il Tribunale dato conto nel provvedimento impugnato dell’avvenuta acquisizione.

In ordine al secondo profilo, relativo alla prospettata inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per essere stata l’autorizzazione concessa in relazione a reati diversi da quelli per i quali la misura cautelare è stata adottata, occorre precisare che l’art. 270 c.p.p., comma 1, pone, da un lato, un divieto di utilizzazione dei risultati dell’intercettazione allorchè si intenda versarli in un altro (ossia diverso) procedimento, consentendone però la piena utilizzazione quando i detti risultati, ancorchè conseguiti in un diverso procedimento, “risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza” e, dall’altro, consente la piena utilizzazione delle intercettazioni quando i risultati siano conseguiti in un procedimento “non diverso” da quello in cui le intercettazioni stesse siano state autorizzate e disposte.

La giurisprudenza di questa Corte è saldamente attestata (da ultimo, Sez. 2, n. 43434 del 05/07/2013, Bianco ed altro, Rv. 257834) nel ritenere che la nozione di procedimento diverso non debba essere intesa in senso formale, ma in senso sostanziale con specifico riferimento al contenuto delle notitiae criminis in ordine alle quali le intercettazioni sono state autorizzate e disposte, con la conseguenza che – nel caso di indagini strettamente connesse o collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico – non può parlarsi di diverso procedimento ancorchè si proceda all’espletamento di indagini preliminari in separati fascicoli processuali, sicchè le intercettazioni eventualmente disposte in relazione a procedimento connesso nel senso suddetto devono ritenersi del tutto utilizzabili, mentre deve invece parlarsi di procedimento diverso quando, sebbene si proceda simultaneamente ed in un unico contesto (stesso fascicolo processuale) non vi sia alcuna connessione o intimo collegamento tra le notitiae criminis.

Ne deriva che, ai fini dell’art. 270 c.p.p., è diverso il procedimento che non abbia, con riferimento a quello in cui le intercettazioni sono state disposte, alcun intimo collegamento di tipo oggettivo o soggettivo, con la conseguenza che siffatta diversità non si verifica quando tra le notitiae criminis esista un nesso che, indipendentemente dall’accorpamento in un unico procedimento di una molteplicità di fatti storici oggetto dell’accertamento penale, renda i procedimenti stessi, quantunque separati, processualmente interdipendenti. Ed una tale situazione processuale certamente si verifica nelle ipotesi di connessione e collegamento di procedimenti previsti dagliartt. 12 e 371 c.p.p..

Nel caso di specie, le intercettazioni sono state disposte per acquisire elementi di prova in ordine al reato di associazione per delinquere finalizzata alla realizzazione di reati tributari, con conseguente iscrizione a carico dei ricorrenti di notizie di reato che, se non possono dirsi strettamente connesse ai sensi dell’art. 12 c.p.p., mancando specifici riferimenti in tal senso, sono di certo intimamente collegate sotto il profilo della connessione teleologia ex art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), a quelle per le quali le intercettazioni sono state autorizzate e disposte ed i cui risultati – siccome non acquisiti in un diverso procedimento nel senso in precedenza specificato – sono certamente utilizzabili.

3. Anche il primo motivo di gravame è comune a tutti i ricorsi.

Con esso si lamenta la violazione dei criteri che stabiliscono la competenza per territorio nei reati tributari, con specifico riferimento ai delitti in materia di dichiarazione che, ai sensi della L. n. 74 del 2000, art. 18, comma 2, si considerano consumati nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale.

Sostengono i ricorrenti che le violazioni fiscali contestate sono, nel caso di specie, attribuite ad una persona giuridica ed il domicilio fiscale di questa coincide, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, con il luogo in cui la società ha fissato la propria sede legale e, siccome la IN.COL. s.r.l. ha stabilito nell’atto costitutivo la sede legale in (OMISSIS), il Tribunale di Sondrio, che ha disposto il sequestro, sarebbe incompetente per territorio.

3.1. Il Tribunale distrettuale ha rigettato l’eccezione di incompetenza sulla base di due considerazioni.

La prima considerazione, che invero rivestirebbe carattere assorbente anche se essa è stata enunciata dal Tribunale in via subordinata, fonda sul rilievo che i reati tributari, per i quali è stato ritenuto il requisito del fumus ai fini dell’adozione della misura cautelare, risultano connessi, quantunque ciò non emerga dal decreto di sequestro ma solo da altri atti di causa e in particolare proprio dai decreti che hanno autorizzato le intercettazioni, con reati di maggiore gravità consumati nel circondario del Tribunale di Sondrio.

Sul punto, i ricorrenti obiettano che la motivazione del Tribunale sarebbe assente, non avendo il Collegio cautelare specificato i reati più gravi che, connessi con quelli tributari, determinerebbero la competenza del Tribunale di Sondrio e che i decreti autorizzativi, dai quali si assume emerga la connessione, sarebbero stati acquisiti, in modo peraltro incompleto, solo all’esito dell’udienza camerale fissata per la trattazione della causa.

Le doglianze difettano del requisito dell’autosufficienza (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035) in relazione ai tempi di acquisizione dei decreti e, quanto al difetto di motivazione sul quale fonda il vizio di violazione di legge denunciato, esso appare fondato emergendo, allo stato degli atti, un collegamento tra il reato associativo ed i reati fini ma non una connessione ex art. 12 c.p.p., non ipotizzata infatti nè dal pubblico ministero e neppure dal Gip. 3.2. Resta dunque da scrutinare la seconda considerazione che il Tribunale ha maggiormente valorizzato per rigettare l’eccezione di incompetenza.

Essa fonda sul rilievo che, ai fini della individuazione del domicilio fiscale ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 2, occorre avere riguardo, nel caso in cui sia stata stabilita una sede legale fittizia, alla sede effettiva della società, individuandosi in essa il domicilio fiscale e dunque il luogo di consumazione dei reati tributari in materia di dichiarazione.

3.2.1. I ricorrenti obiettano che la disposizione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 2, indica, come si desumerebbe dalla relazione governativa di accompagnamento al decreto legislativo, quale unico criterio determinativo della competenza per territorio, per i reati in materia di dichiarazione, quello del domicilio fiscale che per le persone giuridiche, coincide con la sede legale della società e che, solo qualora questa manchi, è possibile ricorrere ad altri criteri; che è escluso ex positivo iure il ricorso a criteri diretti a sostituire il dato formale (sede legale della società) con il dato sostanziale (sede effettiva della società) sia perchè lo stesso legislatore ha previsto i casi in cui sia possibile dare prevalenza al dato sostanziale (mancanza della sede legale, società esterovestite) e sia perchè il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 59, ha previsto un apposito meccanismo con il quale il fisco o il contribuente possono fare prevalere il dato della sede effettiva, ossia il luogo di reale svolgimento degli scopi sociali, su quello formale della sede legale.

Nel caso di specie, nella conclamata presenza di quest’ultima come risultante dallo statuto e dall’atto costitutivo, l’individuazione del domicilio fiscale in un luogo diverso dalla sede legale della società implicherebbe il ricorso a tecniche ermeneutiche scorrette, essendo le norme sulla competenza di stretta interpretazione e pertanto insuscettibili di essere applicate per casi diversi da quelli che esse espressamente disciplinano.

I rilievi sono infondati.

3.2.2. Come si ricava dalla relazione governativa di accompagnamento al D.Lgs. n. 74 del 2000, l’art. 18, comma 2, detta “disposizioni specifiche, intese a risolvere in via normativa i problemi connessi all’individuazione del giudice competente in ordine a determinate ipotesi di reato (…). Relativamente ai delitti in materia di dichiarazione, tali problemi si connettono al nuovo sistema di trasmissione dei dati in via telematica attraverso soggetti abilitati: sistema che, ove si abbia riguardo al luogo dal quale la trasmissione parte, consentirebbe, in pratica, all’autore dell’illecito di “scegliersi” il giudice competente con il semplice accorgimento di incaricare della trasmissione stessa un soggetto abilitato che operi nel luogo ritenuto più conveniente; mentre, ove si abbia riguardo al luogo in cui i dati confluiscono, porterebbe all’inaccettabile risultato di concentrare la competenza per tutti i reati presso il Tribunale di Roma, stante la gestione centralizzata del materiale informatico. A fronte di ciò, si è dunque stabilito che i reati in questione debbano considerarsi consumati nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale, salva l’applicabilità del criterio suppletivo del luogo dell’accertamento laddove detto domicilio risulti ubicato all’estero”.

Sulla base di ciò – con riferimento ai delitti previsti nel capo I, e cioè i delitti in dichiarazione – il reato si considera consumato nel luogo in cui il soggetto ha domicilio fiscale che costituisce il criterio principale attributivo della competenza per territorio.

Va subito chiarito che la disposizione (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 2), nella sua formulazione, non ricorre alla tecnica del “riferimento esterno con funzione normativa” perchè non opera un rinvio formale o materiale a disposizioni di un altro atto normativo.

La prima conseguenza che occorre trarre, dal punto di vista dell’interpretazione, è che quando la legge penale o processuale penale richiama termini o istituti che traggono origine da altri rami del diritto, senza ricorrere alla tecnica del rinvio, il significato dei termini non va desunto esclusivamente dall’ordinamento richiamato ma va attribuito tenendo conto delle esigenze proprie dell’ordinamento richiamante.

E’ evidente che il punto di partenza dell’interpretazione è costituito dalle nozioni contenute nel ramo del diritto richiamato ma i risultati dell’interpretazione non possono porsi in insanabile contrasto con l’ordinamento penale che tali concetti o istituti richiama per il perseguimento dei propri scopi.

Sarebbe allora del tutto contraddittorio ritenere che il legislatore si sia posto il problema di evitare che il contribuente, nella prospettiva di incorrere nella leva penale per i reati in materia di dichiarazione, scegliesse il giudice competente inoltrando la comunicazione telematica da un luogo piuttosto che da un altro, determinando di volta in volta la consumazione del reato, per poi consentire, attraverso un particolare “criterio di collegamento” interno, il perseguimento, di volta in volta, del medesimo scopo permettendogli di scegliere, seppure in via genetica ed anche in virtù di determinazioni successive attraverso il continuo mutamento della sede legale, il domicilio fiscale.

Tuttavia va subito precisato come non si riscontrino, sul punto, sostanziali diversità tra le esigenze dell’ordinamento penale ed esigenze dell’ordinamento tributario sicchè va ricordato che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 3, stabilisce, per le persone giuridiche, che il domicilio fiscale è quello del luogo ove si trova la sede legale o, in mancanza, quella amministrativa. Nel caso in cui anche questa manchi il domicilio è nel comune ove vi è una sede secondaria o una stabile organizzazione ovvero, infine, ove viene svolta l’attività prevalente.

La sede tuttavia è il luogo in cui l’ente ha il centro principale della sua attività e tale luogo – indicato nell’atto costitutivo, nello statuto e riportato nel registro delle imprese – può essere diverso da quello in cui convenzionalmente è stata stabilita la sede legale, per cui in tal caso rimane solo il dato formale della indicazione “legale” della sede ma questa è, secondo il principio di effettività, altrove.

Il principio di effettività, che non è smentito dalla disciplina tributaria, è pienamente recepito dal diritto civile (settore dell’ordinamento a sua vota richiamato dal diritto tributario) e processuale civile, dove per sede (effettiva) si intende il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (Cass. civ. Sez. 5, n. 2869 del 07/02/2013, Rv. 625688), tant’è che il principio – per il quale, in caso di divergenza tra la sede legale e la sede effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima – ha valenza generale, e, pertanto, rileva anche ai fini dell’individuazione del giudice competente per territorio (Cass. civ. Sez. 6 – 3, n. 1813 del 28/01/2014, Rv. 629818).

Infine, nella disciplina del TUIR, la nozione di “sede dell’amministrazione”, in quanto contrapposta alla “sede legale”, coincide con quella di “sede effettiva” (di matrice civilistica), ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art.87, comma 3, (secondo la numerazione vigente “ratione temporis”, corrispondente all’odierno art. 73, comma 3, in virtù della riforma introdotta dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344), per il quale, ai fini delle imposte sui redditi, si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno sede legale o dell’amministrazione ad oggetto principale nel territorio dello Stato (Cass. civ. Sez. 5, n. 2869 del 07/02/2013, cit.) e la sede dell’amministrazione è quella da cui provengono gli impulsi volitivi inerenti all’attività di gestione dell’ente. Essa rappresenta, in altri termini, il momento essenziale nello svolgersi della vita della società, nel quale i rapporti a contenuto patrimoniale della stessa sono fatti propri e sono economicamente determinati (Cass. civ. Sez. 5^, 23/10/2013, n. 24007, non mass.).

Neppure secondo il diritto comunitario – ove la questione si è posta con riferimento al divieto di abuso del diritto quale principio generale antielusivo – un insediamento fittizio può essere definito sede di un’attività economica (v. art. 1, punto 1, della tredicesima direttiva, punto 62, 17 novembre 1986, 86/560/CEE in materia di IVA) non essendo consentite creazioni di forme giuridiche che non riproducano una corrispondente e genuina realtà finanziaria.

3.2.3. Nel caso di specie, nonostante la sede legale della “IN.COL” s.r.l. fosse stabilita in Milano (presso gli indirizzi di studi di commercialisti ed elaborazione dati, dove numerose società valtellinesi avevano eletto la propria sede legale, circostanza che aveva attirato l’attenzione della Direzione regionale dell’Agenzia delle entrate della Lombardia che aveva appurato che in (OMISSIS), per diminuire sensibilmente la possibilità degli accertamenti fiscali, presso alcuni studi di commercialisti, erano state fittiziamente dichiarate le sedi di società di fatto operanti in altri comuni) il Tribunale ha accertato che le scritture contabili della società erano tenute presso un commercialista con studio in Sondrio; i conti correnti bancari sui quali operava la predetta società erano accesi esclusivamente presso la Banca Popolare di Sondrio (filiale di (OMISSIS)) e la Banca Credito Valtellinese (agenzia di (OMISSIS));

in alcune fatture emesse dalla società per il 2008 e 2009 era stata indicata l’iscrizione della società stessa presso il Registro delle Imprese di Sondrio; a seguito del controllo incrociato dei verbali di assemblea, delle conversazioni telefoniche e dei rogiti è risultata la falsificazione dei verbali di assemblea della s.r.l. IN.COL per far figurare lo svolgimento dell’attività sociale in Milano quando è stato appurato che nelle date ed orari indicati nei verbali di assemblea gli indagati erano in altri luoghi.

Da ciò il Collegio cautelare, con congrua motivazione, ha tratto la logica conclusione che la sede effettiva, ed anzi l’unica sede, della s.r.l. “IN.COL” fosse collocabile in Sondrio (e che in tale luogo doveva ritenersi fissato il domicilio fiscale), con conseguente competenza per territorio del Tribunale valtellinese; i fittizi recapiti milanesi furono indicati al solo fine di diminuire sensibilmente il rischio di controlli, anche fiscali, perchè a Milano, ove il numero di imprese era di gran lunga superiore rispetto a Sondrio, la probabilità di una verifica fiscale era decisamente inferiore (tale convincimento il Tribunale ha fondato su documenti acquisiti al corredo processuale).

3.2.4. La soluzione interpretativa adottata dal Tribunale distrettuale è dunque corretta, avendo il Collegio cautelare fatto adeguata applicazione del principio di effettività nella determinazione del domicilio fiscale delle persone giuridiche agli effetti della legge processuale penale.

Va tuttavia chiarito che, ai fini della determinazione della competenza per territorio per i reati tributari in materia di dichiarazione, il ricorso al principio di effettività della sede sociale, che richiede di individuare, nel caso di discrasia tra situazione reale e situazione apparente, il domicilio fiscale della persona giuridica in luogo diverso dalla sede legale stabilita, non implica l’azzeramento del criterio secondo il quale il domicilio fiscale per le persone giuridiche si intende stabilito nel luogo ove la società ha fissato la propria sede legale nè comporta, nel caso di sede legale dichiarata ma fittizia, il ricorso ai criteri sussidiari previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, sul rilievo che la sede fittizia andrebbe equiparata alla sede legale mancante.

Il fatto che, per le società, il domicilio fiscale corrisponde, secondo il dettato del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 3, al luogo in cui è stabilita la sede legale determina una mera presunzione (relativa) di corrispondenza tra sede legale e domicilio fiscale, che presuppone la coincidenza tra sede legale e sede effettiva, in quanto l’ordinamento tributario non consente alle persone fisiche e giuridiche di determinare il domicilio fiscale a proprio piacimento in luoghi diversi da quelli che costituiscono il centro degli interessi.

Per rendersi conto di ciò, è sufficiente considerare il meccanismo (che, a torto, i ricorrenti richiamano per sostenere la tesi contraria) previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 59, che consente all’amministrazione finanziaria di accertare l’esatto domicilio fiscale e di stabilirlo, in deroga alle disposizioni del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, “nel comune dove il soggetto stesso svolge in modo continuativo la principale attività ovvero, per i soggetti diversi dalle persone fisiche, nel comune in cui è stabilita la sede amministrativa”.

Ciò comporta che, ai fini tributari, l’amministrazione finanziaria può attribuire un domicilio fiscale in luogo diverso da quello nel quale è stata fissata la sede legale di una società, se ed in quanto la sede amministrativa, ossia quella da cui provengono gli impulsi volitivi inerenti all’attività di gestione dell’ente, si trovi in altro comune.

E’ di tutta evidenza che, agli effetti dell’applicazione della legge penale sostanziale e processuale, l’accertamento del domicilio fiscale non richiede che l’amministrazione finanziaria abbia attivato il meccanismo di attribuzione ex officio del domicilio fiscale effettivo in sostituzione di quello artificiale che il contribuente si sia arbitrariamente assegnato.

Ne consegue che, ai fini della determinazione della competenza per territorio per i reati tributari in materia di dichiarazione, il locus commissi delicti va individuato, per le persone giuridiche, in quello nel quale queste hanno il domicilio fiscale che, di regola, coincide con la sede legale, salvo che non emergano prove univoche tali da smentire la presunzione suddetta con la conseguenza che, qualora sia stata stabilita una sede legale fittizia, il domicilio fiscale coincide con il luogo nel quale si trova la sede effettiva della società ed in tale luogo il reato si considera consumato.

Nel caso di specie, essendo stata addirittura accertata la falsificazione dei verbali dell’assemblea per fare apparire svolta l’attività sociale nel luogo nel quale è stata fittiziamente stabilita la sede legale, la competenza per territorio nel circondario del Tribunale di Sondrio è stata correttamente determinata, sicchè i motivi di gravame devono ritenersi infondati.

4. Il terzo motivo di gravame proposto da U.N. ed B. E.D. è parimenti infondato.

I ricorrenti muovono dall’erroneo presupposto che il sequestro dei conti correnti, anche di persone giuridiche diverse dalla IN.COL s.r.l., sia stato eseguito per equivalente, laddove deve ritenersi eseguito in forma specifica su denaro ritenuto nella disponibilità degli stessi ricorrenti, quale profitto del reato tributario conseguente al risparmio di spesa ottenuto per effetto dell’infedele dichiarazione.

E’ di tutta evidenza che esula dallo scrutinio della Corte, come esulava da quello del Tribunale, la questione se le provviste relative ai conti in sequestro abbiano una tracciabilità tale da escludere, per provenienza e per tempi di accredito, che costituiscano profitto dei reati contestati.

5. Anche il quarto motivo proposto da U.N. ed B. E.D. è infondato.

Con esso si lamenta violazione del principio di proporzionalità tra valore dei beni da sequestrare e beni sottoposti al vincolo preventivo.

Osserva la Corte che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato, il soggetto destinatario del provvedimento ablativo, nel caso di lamentata sproporzione tra il valore economico dei beni da confiscare indicato nel decreto di sequestro e l’ammontare delle cose sottoposte a vincolo, può contestare tale eccedenza al fine di ottenere una riduzione della garanzia non in sede di istanza di riesame, non avendo il Tribunale della libertà, salvo i casi di sproporzione ictu oculi, i poteri per sindacare il lamentato squilibrio, ma presentando apposita richiesta al pubblico ministero, impugnando con l’appello cautelare l’eventuale provvedimento negativo del Gip qualora l’istanza di riduzione del sequestro non sia stata accolta dal pubblico ministero inizialmente adito.

Va infine chiarito, avendo i ricorrenti comunque posto la relativa questione, come legittimamente il Tribunale del riesame abbia dato conto, sebbene in assenza di specifiche deduzioni sul punto, della sussistenza del fumus delicti, comportando la proposizione del gravame de libertate, per ciò solo, un controllo giurisdizionale, che non sopporta vincoli di cognizione, sulla legittimità dei provvedimenti restrittivi della libertà personale o reale.

Al rigetto dei ricorsi segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2014