201207.28
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Cass., sez. II pen., 28 febbraio 2012, n. 7739 (testo)

Svolgimento del processo – Il G.U.P. del Tribunale di Milano, con sentenza in data 1° aprile 2011, dichiarava ex art. 425 c.p.p. non luogo a procedere nei confronti di G. S., D. A., D. D., R. C., M. G. E. C., P. L., A. N., in ordine al reato di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 640, comma 2, c.p. e nei confronti di G. e D. D. anche in ordine al reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2 000, con la formula “perché il fatto non sussiste”. (omissis)

La sentenza impugnata passa, successivamente, ad esaminare la configurabilità di diverse fattispecie penalmente rilevanti ex artt. 4 o 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, escludendo, da in lato, che la semplice elusione fiscale possa integrare una fattispecie penale tributaria, perché confliggente con i principi di tipicità e determinatezza della fattispecie penale e priva del dolo specifico di evasione richiesta dalle fattispecie penali tributarie; affermando, dall’altro lato, che i criteri di collegamento che dovrebbero svelare la esterovestizione sono criteri presuntivi che non sono trasferibili nel processo penale. Propongono ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e la parte civile Agenzia delle Entrate. (omissis)

Motivi della decisione – (omissis) 4. A questo punto deve verificarsi se nella condotta attribuita agli imputati possa ravvisarsi in ipotesi un reato previsto e punito ex d.lgs. n. 74 del 2000.

4.1 Nel caso di specie, la condotta attribuita agli imputati costituisce un fenomeno noto come “esterovestizione”, che trova specifico riconoscimento nella legislazione di settore. La eventuale riqualificazione in Italia della residenza fiscale di società ed enti esteri è prevista dal comma 3 dell’art. 73 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, testo unico delle imposte sui redditi, il quale dispone : «Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato». Il nostro ordinamento guarda, dunque, oltre a dati formali, quali appunto la sede legale o la sede dell’ amministrazione, anche a dati sostanziali, quale l’oggetto principale dell’ attività. L’art. 73, comma 4, del citato D.P.R. definisce l’oggetto principale nella attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’ atto costitutivo o dallo statuto.

In tal modo, l’Italia si è adeguata ai criteri di individuazione dell’effective place of management and control elaborati in ambito internazionale dall’ art. 4 del Modello OCSE – che rappresenta il modello seguito dall’Italia per la stipula delle Convenzioni – il quale stabilisce che qualora un soggetto diverso da una persona fisica sia residente in entrambi gli Stati contraenti, sarà considerato residente solo nello Stato in cui è posto il luogo di gestione effettiva. Anche se non vi è una perfetta sovrapposizione di concetti rispetto alla normativa italiana, in quanto il requisito di effettività – che impone una ricerca del luogo di residenza in concreto – nelle due norme si riferisce ad aspetti diversi: nell’art. 73 T.U.I.R. si riferisce alla attività esercitata, mentre nell’art. 4 del Modello OCSE, si riferisce al luogo di gestione effettiva (piace of effective management) , cioè, come si legge al par. 24 del Commentario OCSE – il luogo in cui sono prese in sostanza le decisioni importanti di gestione (key management) e quelle commerciali, necessarie per l’andamento dell’ente commerciale nel suo complesso.

Il comma 5 bis dello stesso T.U.I.R., introdotto dall’ art. 35, comma 13, del D.L. 4 luglio 200 6, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, ad integrazione dei criteri sostanziali di collegamento delle società costituite all’estero alla residenza fiscale in Italia, inserisce una presunzione relativa, che determina l’inversione dell’ onere della prova a carico delle società estere, che detengono partecipazioni di controllo in società italiane, gestite ovvero controllate, anche indirettamente, da parte di soggetti di imposta italiani. La rubrica del citato art. 35 riporta significativamente «Misure di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale».

4.2 La prima norma antielusiva nell’ordinamento italiano è considerata quella dell’art. 10 della legge 29 dicembre 1990, n. 408, che autorizzava l’Amministrazione finanziaria a disconoscere i vantaggi tributari conseguiti mediante alcune operazioni, tassativamente indicate, poste in essere «senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta». A tale disposizione ha fatto seguito l’attuale art. 37 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall’art. 7 d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358,” intitolato «disposizioni antielusive», il quale dispone: «1. Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. 2. L’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione». Tale disposizione elimina il riferimento ad operazioni poste in essere “fraudolentemente”, ma continua ad elencare tassativamente le operazioni alle quali è collegato il disconoscimento dei vantaggi fiscali, elenco che il legislatore nel tempo ha ampliato, ogni volta che dalla prassi emergevano nuovi e non previsti meccanismi elusivi.

Le Sezioni Unite Civili di questa Suprema Corte (nn. 30055 e 30057 del 23/12/2008) hanno, invece, individuato un generale principio antielusivo, affermando che «l’esistenza nel sistema tributario di specifiche norme antielusive non contrasta con l’individuazione di un generale principio antielusione, ma è piuttosto mero sintomo dell’ esistenza di una regola generale». Tale principio «preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici : tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.), e non contrasta con il principio della riserva di legge (art. 23 Cost.), non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere da 1l’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione» (massima RV, 605850). La successiva giurisprudenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha precisato che «il carattere abusivo di un”operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione medesima ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda» (Sez. 5, n. 1372 del 21/01/2011, Rv. 616371).

4.3 La giurisprudenza della Suprema Corte si pone in linea con quella europea. Infatti, è principio generale di diritto dell’Unione Europea quello secondo il quale l’abuso del diritto è vietato: «l’applicazione delle norme di tale diritto non può essere estesa sino a comprendere pratiche abusive, ossia operazioni effettuate non nell’ambito di normali transazioni commerciali, ma unicamente allo scope di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti da detto diritto», in particolare, quando lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale (cosi, da ultimo, Corte di Giustizia UE 10 novembre 2011, causa C-126/10, Foggia; nonché: 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros; 21 febbraio 2006, causa C-255/02 Halifax; 5 luglio 2007, causa C-321/05, Kofoed; 21 febbraio 2008, causa C-42 5/06, Part Service) . Un ulteriore pronuncia della Corte di giustizia sull’abuso del diritto in materia fiscale si attende all’esito del ricorso pregiudiziale sollevato dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione con ordinanza n. 18055 del 4 agosto 2010, al fine di chiarire «1) se il principio del contrasto all’abuso del diritto in materia fiscale, così come definito nelle sentenze in cause C – 255/02 e C – 425/06, Halifax e Part Service, costituisca un principio fondamentale del diritto comunitario soltanto in materia di imposte armonizzate e nelle materie regolate da norme di diritto comunitario secondario, ovvero si estenda, quale ipotesi di abuso di libertà fondamentali, alle materie di imposte non armonizzate, quali le imposte dirette, quando l’imposizione ha per oggetto fatti economici transnazionali, quale l’acquisto di diritti di godimento da parte di una società su azioni di altra società avente sede in altro Stato membro o in uno Stato terzo; 2) a prescindere dalla risposta al precedente quesito, se sussista un interesse di rilevanza comunitaria alla previsione, da parte degli Stati membri, di adeguati strumenti di contrasto all’elusione fiscale in materia di imposte non armonizzate; se a tale interesse osti una non applicazione – nell’ambito di una misura di condono – del principio dell’abuso del diritto riconosciuto anche come regola del diritto nazionale e se in tal caso ricorra una violazione dei principi ricavabili dall’art. 4, comma 3, del Trattato sull’Unione Europea».

In generale, l’abuso del diritto trova un espresso riconoscimento nell’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, che in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2 dicembre 2009} ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati. L’art. 54 citato riproduce il contenuto dell’ art. 17 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

4.4 Sulla questione della rilevanza penale dell’elusione in materia fiscale non può dirsi che la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione si sia espressa compiutamente.

Contrarie alla rilevanza penale dei comportamenti elusivi si trovano affermazioni non motivate, secondo le quali «la violazione delle norme antielusive, in linea di principio, non comporta conseguenze di ordine penale» (Sez. 5, n. 23730 del 18/05/2006, Romanazzi, non massimata sul punto), oppure richiami alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea [sentenza 9.3.1999, C-212/97, Centros), secondo la quale «la scelta della sede di una società di uno Stato membro – soltanto per usufruire di una normativa più favorevole – non costituisce esercizio abusivo del diritto di stabilimento di cui agli artt. 43 e ss. del Trattato CE» (Sez, 3, Sentenza n. 14486 del 26/11/2008 – 02/04/2009, Rusca, Rv. 244071, dalla quale è stato tratto, peraltro, un principio attinente alla esclusione de valore probatorio delle presunzioni tributarie, così massimato: «In tema di reati finanziari e tributari, la figura del cosiddetto abuso del diritto, qualificata dall’ adozione (al fine di ottenere un vantaggio fiscale) di una forma giuridica non corrispondente alla realtà economica, non ha valore probatorio perché implica una presunzione incompatibile con l’accertamento penale, ed è invece utilizzabile in campo tributario come strumento di accertamento semplificato nel contrasto all’evasione fiscale».

In senso favorevole alla configurabilità di un illecito penale si sono espresse:

– Sez. 3, n. 26723 del 18/03/2011, Ledda, Rv. 250958: Il reato di cui ali ‘art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 è configurabile anche in presenza di una condotta elusiva rientrante tra quelle previste dall’art. 37-bis del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, comporti una dichiarazione infedele per la mancata esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare. (Fattispecie in tema di sequestro preventivo per equivalente in cui la Corte ha precisato che il reato di dichiarazione infedele, a differenza di quello di dichiarazione fraudolenta, non richiede alcuna attitudine ingannatoria nei confronti del Fisco).

– Sez. 3, n. 29724 del 2 6/05/2010, Catagnara, Rv. 24 8109: L’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale IVA da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se questa ha stabile organizzazione in Italia, che ricorre anche quando la società straniera abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o meno di personalità giuridica, prescindendosi dalla fittizietà o meno dell’attività svolta all’estero dalla società medesima. (Fattispecie in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni facenti capo a società avente residenza fiscale localizzata in territorio diverso dall’Italia, cosiddetta esterovestizione della residenza fiscale) . Nel caso di specie era stato contestato il reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 (omessa dichiarazione IVA) con riferimento ad una società avente residenza fiscale all’estero, ma che non possedeva un legame con il territorio di quello Stato, essendo priva di un’organizzazione di uomini e mezzi idonea ad operare in loco in piena autonomia gestionale ed aveva affidato la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura e ciò a prescindere dalla fittizietà o meno dell’ attività svolta all’ estero dalla società medesima.

4.5 Dalla giurisprudenza penale sopra citata si può dedurre che i reati ipotizzabili con riferimento a condotte elusive sono quelli ex artt. 4, dichiarazione infedele, e 5, omessa dichiarazione, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, di cui è chiamato a rispondere colui che rivestiva all’interno della società esterovestita le qualifiche funzionali che in sede tributaria lo obbligavano alla presentazione della dichiarazione stessa o della dichiarazione fedele, con la partecipazione a titolo di concorso nel reato di eventuali altri soggetti.

4.5 A sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva deve osservarsi, in primo luogo, che l’art. 1, lett. f) , d.lgs. n. 74 del 2000, fornisce una definizione molto ampia dell’ imposta evasa: «la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine», definizione idonea a ricomprendere l’imposta elusa, che è, appunto, il risultato della differenza tra un imposta effettivamente dovuta, cioè quella della operazione che è stata elusa, e l’imposta dichiarata, cioè quella autoliquidata sull’operazione elusiva.

4.6 Deve, poi, rilevarsi che il sistema tributario prevede istanze di interpello preventivo: l’interpello ordinario previsto dall’art. 11 della legge 21 luglio 2000, n. 212, che si riferisce a «obiettive condizioni di incertezza sulla corretta applicazione di una norma», peraltro con riferimento a «casi concreti e personali» (la circolare n. 9/E del 13 febbraio 2003 dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa, richiamata e modificata dalla circolare n. 32/E del 14 giugno 2010, ha espressamente ammesso i soggetti esteri alla presentazione di istanze di interpello e ne ha disciplinato le modalità, anche con riferimento all’ufficio competente a ricevere dette istanze, indicato nell’Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa.); l’interpello antielusivo di cui all’art. 21 della legge 30 dicembre 1991, n. 413; l’interpello disapplicativo di cui all’art. 37 bis, comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973; quello relativo alle società controllate estere di cui all’art. 167 del TUIR; quello di ruling internazionale (art. 8 del D.L. n. 269 del 2003). In tale contesto assume particolare rilevanza l’art. 16 d.lgs. n. 74 del 2000 l’Adeguamento al parere del Comitato per l’applicazione delle norme antielusive) , il quale dispone che «Non dà luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, si è uniformato ai pareri del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso». Nonostante la relazione al decreto legislativo precisi che tale disposizione non può essere letta come «diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo», sembra evidente che detta disposizione induca proprio a ritenere che l’elusione, fuori dal procedimento di interpello, possa avere rilevanza penale e ciò è confermato dal contesto in cui è inserito il citato art. 16 che è quello del Titolo III «Disposizioni comuni» concernenti proprio la materia penale (pene accessorie, circostanze attenuanti, prescrizione) e, in particolare, subito dopo l’art. 15 che concerne le «violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie». D’altro canto, non vi sarebbe necessità di una esimente speciale per la tutela dell’affidamento se l’elusione fosse irrilevante dal punto di vista penale, mentre nessun elemento né testuale né sistematico consente di ritenere che tale norma si riferisca, come da alcuni ritenuto, a casi di evasione in senso stretto e non di elusione.

Piuttosto deve osservarsi che il suddetto parere è relativo alla «applicazione, ai casi concreti rappresentati dal contribuente, delle disposizioni contenute negli articoli 37, comma terzo, e 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600», cioè alle specifiche fattispecie elusive dai suddetti articoli previste. E ciò può dare un senso anche alle precisazioni contenute nella citata relazione al decreto legislativo n. 7 4 del 2000. Infatti, deve affermarsi il principio che non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge. In tal caso, infatti, si richiede al contribuente di tenere conto, nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche disposizioni antielusive. In altri termini, nel campo penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle citate Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva.

4.7 Ad avvalorare la tesi della rilevanza penale dei comportamenti elusivi specificamente previsti dalla normativa di settore è la stessa linea di politica criminale adottata dal legislatore, nell’ambito delle scelte discrezionali che gli competono, in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, che sono state ampiamente delineate dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 27 del 25/10/2000, imp. Di Mauro; n. 1235 del 28/10/2010 – 19/01/2011, Giordano) e dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 49 del 2002) . Sia le Sezioni Unite che la Corte Costituzionale sottolineano che il legislatore, in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, con una scelta di radicale alternatività rispetto al pregresso modello di legislazione penale tributaria, ha inteso abbandonare il «modello del ed. “reato prodromico”, caratteristico della precedente disciplina di cui al d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516 – modello che attestava la linea d’intervento repressivo sulla fase meramente “preparatoria” dell’evasione d’imposta – a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario. Questa strategia – come si legge nella relazione ministeriale – ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che «realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa» (Corte Cost. cit.) .

Pertanto, se le fattispecie criminose sono incentrate sul momento della dichiarazione fiscale e si concretizzano nell’infedeltà dichiarativa, il comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante. Se il bene tutelato dal nuovo regime fiscale è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici può ben coinvolgere quelle condotte che siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile.

4.8 Per quanto concerne la compatibilità all’ordinamento comunitario della interpretazione che conduce ad attribuire, nei limiti indicati, rilevanza penale ai comportamenti elusivi in materia fiscale, nella sentenza impugnata si fa riferimento alla affermazione contenuta nella sentenza Halifax (21 febbraio 2006, C-255/02, paragrafo 93) secondo la quale la contestazione di un comportamento abusivo «non deve condurre ad una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro ed univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’ IVA assolta a monte». Ma la portata di tale affermazione non può avere carattere generale, valevole per tutte le contestazioni facenti leva sul carattere abusivo dei comportamenti del contribuente, deve, invece, essere letta come la semplice specificazione nel caso concreto all’esame della Corte di giustizia UE delle obiettive condizioni di incertezza derivanti dall’ innovativa applicazione nel settore fiscale del divieto comunitario di abuso del diritto, come regola generale che prescinde dalla individuazione di specifiche e tassative fattispecie. Non pertinente, poi, è il richiamo, anch’ esso contenuto nella sentenza impugnata, alla libertà di stabilimento delle sedi delle società in ambito comunitario riconosciuto dalla Corte di giustizia UE, poiché le sentenze citate (28.01.1986 C-270/83 Commissione c. Francia; 9.3.199 C-212/97, Centros) o riguardano il diverso caso di trattamenti fiscali discriminatori (la prima delle citate sentenze riguarda le succursali e le agenzie in Francia di imprese assicuratrici aventi sede in altri stati membri, che subirebbero dalla legislazione francese un trattamento discriminatorio rispetto alle società che hanno sede in Francia) oppure non escludono interventi sanzionatori sull’operazione abusiva. Il caso Centros è particolarmente significativo poiché esso riguarda uno Stato membro che neghi la registrazione di una succursale di una società costituita in conformità alla legislazione di un altro Stato membro nel quale essa ha la propria sede senza svolgervi attività commerciali: la sentenza nell’affermare che tale diniego di registrazione è contrario alla libertà di stabilimento osserva che «il fatto che uno Stato membro non possa negare la registrazione di una succursale di una società costituita conformemente alla normativa di un altro Stato membro nel quale essa ha la sede non esclude che questo primo Stato possa adottare tutte le misure idonee a prevenire o sanzionare le frodi, sia nei confronti della stessa società, eventualmente in cooperazione con lo Stato membro nel quale essa è costituita, sia nei confronti dei soci rispetto ai quali sia dimostrato che essi intendono in realtà, mediante la costituzione di una società, eludere le loro obbligazioni nei confronti dei creditori privati o pubblici stabiliti nel territorio dello Stato membro interessato. In ogni caso, la lotta alle frodi non può giustificare una prassi di diniego della registrazione di una succursale di società che ha la propria sede in un altro Stato membro»; la stessa sentenza, ancora più significativamente, richiama la giurisprudenza della Corte, la quale afferma «che uno Stato membro ha il diritto di adottare misure volte ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, taluni dei suoi cittadini tentino di sottrarsi all’ impero delle leggi nazionali, e che gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario».

4.9 La affermazione della rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale, nei limiti sopra specificati, non contrasta con il principio di legalità, inteso nel senso sopra precisato, poiché se tale principio non consente la configurabilità della generale fattispecie di truffa, in presenza di una espressa previsione nel sistema tributario di una specifica condotta elusiva/ non è, invece, ostativo alla configurabilità della rilevanza penale della medesima condotta, trattandosi di un risultato interpretativo «conforme ad una ragionevole prevedibilità», tenuto conto della ratio delle norme, delle loro finalità e del loro inserimento sistematico. Se il principio di legalità venisse diversamente applicato nella materia di cui si parla si chiuderebbero gli spazi non solo della normativa penale generale, ma anche di quella speciale di settore: la plurima invocazione del principio di specialità trasformerebbe questo in principio di impunità, pur in presenza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei necessari caratteri di determinatezza.

  1. Ovviamente rimangono intatti i criteri che presiedono alla indipendenza valutativa del giudice in ordine alla ricostruzione in fatto della fattispecie criminosa.

(omissis) 5.2 Ciò vale anche per quanto riguarda l’elemento psicologico del reato, costituito dal fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, che deve poter essere positivamente riscontrato dal giudice. Peraltro, una strada tracciata dal sistema tributario per poter sostenere la buona fede e, quindi, l’insussistenza del reato per mancanza del dolo, è quella di richiedere l’applicazione dell’art. 15 d.lgs. n. 74 del 2000, il quale dispone che «Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 41, terzo comma, del codice penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione». E ciò può verificarsi, ad esempio, quando l’Amministrazione finanziaria abbia dato luogo con atti (ad esempio circolari) o comportamenti (ad esempio casi analoghi in cui non è stata contestata la esterovestizione} a condizioni reali di incertezza nell’applicazione della norma. (omissis)

P.Q.M. – Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Milano.